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Intervista a Michele Gerace, consigliere d’amministrazione dell’Azienda speciale Palaexpo, già fondatore e portavoce del movimento degli Outsiders-il partito degli esclusi e coordinatore dell’‘Intergruppo parlamentare sulle Strategie Europee per la Crescita, l’Occupazione, la Democrazia economica e la Sostenibilità finanziaria’
La tua prima azione, in qualità di consigliere nel cda di Palaexpo, è stata quella di mappare il territorio di Roma per cercare di capire cosa si intende per “cultura” sul territorio della città. Quali sono state le emergenze che hai riscontrato, quali le minoranze attive presenti sul territorio e quali i punti di forza su cui l’amministrazione non ha ancora lavorato?
Quando si è chiamati a gestire un luogo della cultura come il Palazzo delle Esposizioni, struttura che ha una storia importante all’interno della città, a mio parere il Consiglio d’amministrazione deve lavorare su due fronti: da una parte, condurre l’azienda in modo corretto dal punto di vista finanziario, dall’altra instaurare nuove partnership con soggetti esterni, al fine di essere meno autoreferenziali.
A tal fine, e per capire inoltre cosa si intende per “cultura”, in questa città è stato censito tutto il territorio romano con l’intenzione di trovare tutte le classi creative emergenti, in particolare i giovani, che spesso non hanno i mezzi finanziari per autoprodursi. Il proposito del cda, pertanto, sarebbe quello di mettere a disposizione le risorse monetarie a tutti coloro che sono dotati di talento, ma non sono provvisti delle disponibilità economiche necessarie, dando così spazio soprattutto alle nuove generazioni, permettendo loro di ricoprire un ruolo all’interno dei meccanismi decisionali ed espositivi.
Nello specifico, per adesso, il cda ha contattato le ambasciate e gli istituti di cultura presenti sul territorio e ha rivolto loro un invito a proporre idee e spunti per nuovi contenuti. A mio parere, è questa la strada da intraprendere per dare seguito alle parole del manifesto uscito sul Sole 24Ore: rivedere le politiche di gestione dei luoghi della cultura, per riservare al cda solo un ruolo nell’amministrazione e non nella scelta degli argomenti da trattare. Le strutture al loro interno sono già ricche di persone che di mestiere si dedicano ai contenuti e che quindi posseggono le capacità solide e molto specializzate in merito.
Hai citato il Manifesto della cultura del Sole 24Ore: ritieni che il suo messaggio abbia sortito degli effetti?
Credo che il messaggio contenuto all’interno dei diversi manifesti inerenti la cultura non sia stato tuttora recepito appieno, innanzitutto perché si rivolge sempre ai soliti individui e proprio a quelle stesse persone che, pur avendo sottoscritto quelle proposte, nei fatti negano ciò che hanno approvato a parole. Se la cultura può davvero diventare sinonimo di sviluppo, questo significa che bisogna scardinare il principio secondo cui il sistema culturale sia riservato a pochi intellettuali. A tal fine, la strada da percorrere è quella di un’apertura verso l’esterno da parte delle istituzioni culturali attraverso le call for proposal e la messa a bando, in maniera trasparente, degli spazi integrati. L’obiettivo da perseguire è un sistema strutturato e indipendente dalla direzione di turno, per far sì che l’amministrazione si occupi solo di definire gli obiettivi e i destinatari da raggiungere; il messaggio invece deve essere riempito e costituito dai progetti vincitori dei bandi.
Quali sono i fattori che impediscono la realizzazione di questo percorso da te appena delineato? Si tratta di un problema di uomini oppure di strumenti da mettere in campo?
A mio parere si tratta di un duplice problema, sia di uomini che di assetto istituzionale: per quanto riguarda gli uomini abbiamo assistito al fallimento di un’intera classe dirigente che non è stata in grado di portare avanti una fase di transizione, ormai superata. Per quanto attiene il lato istituzionale, ritengo sia errata la disgiunzione tra cultura e turismo, perché entrambi costituiscono driver paralleli di sviluppo. L’ipotesi che le Fondazioni possano essere la risposta a questa empasse istituzionale non credo sia corretta, dal momento che se queste devono chiudere ogni anno la loro rendicontazione a zero, nel momento in cui ci sono delle eccedenze spesso vengono operate delle scelte gestionali prive di senso. Per fare un esempio, qualora ci fosse a Roma un’istituzione che avesse un avanzo di un milione di euro, sarebbe logico che questo credito tornasse nelle casse comunali al fine di essere ridistribuito. Invece, l’assetto della Fondazione comporta l’obbligo di dover riutilizzare quelle risorse al proprio interno, pur di chiudere il rendiconto a zero. E questo in un periodo di profonda crisi economica rappresenta un grave svantaggio per l’amministrazione.
Alcuni think tank europei pensano che la soluzione per le casse del sistema culturale italiano possa essere una maggior partecipazione degli individui al mondo della cultura: in sintesi, chi vive in un determinato territorio potrebbe partecipare attivamente all’interno delle istituzioni culturali, attraverso un azionariato popolare. Condividi questa visione?
L’ istituzione culturale in cui la quota di maggioranza è pubblica dovrebbe essere riconvertita per far sì che, pur mantenendo questa forma prevalente, venga chiamato a prendere parte al suo interno anche il privato come le fondazioni bancarie, il singolo operatore o il semplice cittadino. Visto che in Italia non esistono i mecenati veri e propri, la risoluzione concreta potrebbe essere quella di creare una forma di azionariato popolare: si tratta di un processo da attuare quindi con individui che devono incarnare il cambiamento, non necessariamente generazionale, bensì di metodo.
La cultura, non essendo autosufficiente rispetto al contesto che la circonda, necessita infatti di essere avvantaggiata attraverso la creazione di circostanze favorevoli entro cui farla sviluppare: non solo attraverso la creazione di un azionariato popolare ma anche potenziando il tessuto delle piccole e medie imprese.
Tuttavia, credo che attualmente non siano chiari gli obiettivi da perseguire, uno tra tutti per esempio, come sarà Roma tra venti anni: si discute su quali dovranno essere i parametri, ma non viene spiegato che tipo di città ci si aspetta e quali dovranno essere le persone con cui disegnare questa città. A mio avviso, la classe politica ha il compito di delineare il percorso da seguire, ma l’esecuzione deve essere lasciata ai tecnici che dovranno operare una allocazione ragionata delle risorse economiche ed umane. Al fine di realizzare al meglio questo percorso, la chiave di volta è sicuramente la partnership pubblico- privato che non può limitarsi solo alla singola mostra, ma deve essere un co-progettare, in cui dopo il confronto e il dialogo approfondito prende il via un progetto più ampio.
Con quali uomini potrebbe essere intrapreso questo percorso?
Ritengo ci sia un numero immenso di persone che potrebbero essere chiamate nell’immediato ad amministrare la vita creativa di questa città. Molti di questi individui ad oggi sono esclusi da un meccanismo decisionale che erroneamente prevede la presenza di inetti nei posti all’apice e le persone competenti, al contrario, a ricoprire incarichi meno importanti perché devono dissimulare le inefficienze del sistema. Questo è quanto accade all’interno dei corridoi del Ministero dei Beni Culturali dove sicuramente la scala di merito andrebbe sovvertita.
Quale sarà in questo quadro il futuro delle soprintendenze?
Sicuramente le soprintendenze vanno riformate in quanto sacche di inefficienza. Il Ministero ha miliardi di euro che non vengono spesi perché deputati a residuo passivo, questo a causa della mancanza di comunicazione tra la struttura centrale e quella periferica e perché non si è mai passati dalla fase di programma e messa in bilancio a quella dei progetti attuativi. Se l’amministrazione pubblica non è in grado di portare a termine i processi autonomamente, dovrebbe in questo chiamare il privato a coadiuvarlo.
Il personale che lavora all’interno degli uffici delle soprintendenze dovrebbe, inoltre, tenere presente che il proprio esercizio di mandato è provvisorio e che l’istituzione non può, come spesso accade, essere gestita come se fosse una proprietà privata e amministrata seguendo quindi le inclinazioni del momento.