Trovo difficile commentare e analizzare un fatto di cronaca così recente come il naufragio della Costa Concordia per due motivi. Prima di tutto è il momento del silenzio per rispetto ai morti, alle loro famiglie, a tutti coloro che hanno subito danni da questa vicenda. Non vorrei fare una lettura strumentale della tragedia, animata dal tema del “lo sapevo…”.
In secondo luogo, credo sia poco serio abbandonarsi in letture e disamine su un caso di cui si sa ancora poco, ci sono indagini in corso e quello che circola al momento è imbevuto di imprecisioni e pregiudizi. Ma devo onestamente ammettere che questo incidente mi ha fatto pensare a tutte le considerazioni che da anni scrivo su questa rivista e che, in generale, sembrano ripresentarsi oggi, tra quelle lamiere incagliate sulle coste del Giglio.
Quello che intendo fare non sarà quindi una analisi critica dell’incidente, perché non sono in possesso di informazioni attendibili, ma mi baserò su quanto sappiamo per riflettere sulla sicurezza dei sistemi complessi. I lettori mi scuseranno se i pochi elementi relativi al caso che andrò citando si riveleranno, un giorno, errati.
Non voglio fare una perizia tecnica, ma approfittare di questo evento per capire cosa possiamo imparare dall’esperienza.

Come ho detto in altri articoli, dopo un incidente bisognerebbe evitare di incagliarsi in tre secche del pensiero, tanto per restare in ambito marinaro.

Sono tre forme di ragionamento che, seppur naturali e spontanee, non aiutano ad approcciare il problema dalla prospettiva corretta. Il senno di poi è il primo baco: adesso è ovvio che gli scogli delle coste italiane sono insidie nascoste per le navi da crociera, è ovvio che la pratica dell’inchino è un rischio gratuito.

Ma perché non era altrettanto evidente prima che tutto questo accadesse? La risposta è banale: è difficile percepire i rischi se sono potenziali, mentre assumono un valore di probabilità massima solo dopo che sono accaduti. Da oggi anche i canotti staranno alla larga dagli scogli, vedendo insidie ovunque, ma la probabilità di incagliarsi era ed è sempre la stessa. Ma questo baco del senno di poi getta una sinistra luce sul comandante Schettino. Lui non ha saputo vedere l’ovvio, direbbe l’accusa.
Ma l’ovvio non era affatto ovvio, direbbe la difesa. E sempre lui è oggetto del secondo ragionamento fallace: il baco della simmetria. Se una nave da 114 mila tonnellate affonda e decine di persone perdono la vita, alla base di questo evento disastroso ci saranno comportamenti scellerati ed esecrabili. E non è così, perché chi era in plancia di comando ha agito con leggerezza, superficialità forse, ma certamente non sono equiparabili ad assassini. Avevano già fatto altre manovre simili in passato, erano bravi registi dello spettacolo offerto da quel palazzo di luci sul mare. E il terzo baco, infine, riguarda il risultato. Siccome le cose sono andate a finire male, allora è il caso di modificare o rinforzare le leggi, aumentare i controlli. Ma le navi facevano l’inchino da tempo, e mai era stato preso un provvedimento.

Questi tre bachi del pensiero hanno animato molti dibattiti nei giorni passati e hanno visto il comandante Schettino eletto vero capro espiatorio per un Paese che aveva bisogno di un colpevole. Non sono io che voglio giudicare la stampa, perché è al di là delle mie competenze. Da ricercatore posso solo dire che tali atteggiamenti non aiutano a migliorare la sicurezza. Mi auguro che la Costa non si faccia trascinare in questo massacro mediatico e sappia fermarsi a riflettere su ciò che è accaduto, andando oltre ai comportamenti riprovevoli del suo comandante. Trovo assurdo (e improbabile) che una nave di tale tecnologia possa subire un simile incidente solo per via della leggerezza del suo comandante.

Mi sono chiesto se è davvero possibile che un solo uomo, per distrazione, vanità, o altro, possa portare una nave come quella contro degli scogli. Io non ci credo, e se fosse davvero così, sarei sinceramente preoccupato. Sono convinto che dietro ai gesti scellerati ci sono condizioni latenti, per dirla con James Reason, che emergeranno nel corso delle indagini. Un sistema complesso non può avere incidenti “semplici”, cioè dovuti a un solo fattore. Schettino avrà le sue pesanti responsabilità e non faccio certo il suo avvocato difensore.
Dico solo che dietro alla lampante leggerezza del comandane ci sono problemi organizzativi (cosa hanno fatto i collaboratori di Schettino in plancia?), tecnologici (nessuno dei sistemi di difesa ha funzionato a dovere? Le pompe di zavorra erano rotte? Le paratie deboli erano inattive?), culturali (la pratica degli inchini era una violazione ormai normalizzata?).

Se si vuole fare sicurezza si deve essere capaci di vedere oltre il comportamento dell’operatore e andare a indagare sulle condizioni che hanno favorito il disastro. Il comportamento di Schettino è stato il detonatore, ma l’esplosivo stava dietro, nell’organizzazione.

Questo non significa che il comandante non abbia le sue responsabilità e non debba rispondere penalmente per ogni capo d’accusa. Invitare a cercare anche i fattori latenti significa ampliare lo sguardo d’indagine, ma non spostare il fuoco su altri capri espiatori. Questo approccio non vuole eliminare le sanzioni e i provvedimenti per quegli operatori che sono alla base di un incidente, ma vuole rimarcare il fatto che queste iniziative non faranno mai sicurezza se non saranno accompagnate da interventi sul piano organizzativo, tecnologico e culturale. La sanzione, la punizione, colpiscono un pezzo del sistema, ma l’incidente sistemico è il prodotto di tanti fattori e agire sull’ultimo elemento sarebbe inutile e pericoloso. Perché se anche si rimuovesse l’operatore, resterebbero intatti gli altri elementi critici e si abbasserebbe la guardia degli altri operatori e dell’organizzazione, pensando illusoriamente che ora il sistema è stato risanato.

Come spesso accade nei sistemi complessi, anche nel caso della Costa Concordia l’incidente è avvenuto per molti fattori, tra cui delle violazioni. La principale è la deviazione della rotta consentita, per avvicinarsi alla costa. Questa violazione è il frutto di una normalizzazione della devianza, cioè una violazione che è talmente reiterata da diventare normale. Non se ne percepisce più l’eccezionalità e, quindi, la rischiosità. Cosa porta le persone a concedersi tanta leggerezza nelle violazioni? Credo che in questo caso sarebbe utile indagare il clima organizzativo, capire come e quanto circolavano i flussi delle informazioni, come la cultura della sicurezza era stata erosa da quella sindrome del Titanic (“siamo i migliori, siamo infallibili”).

Gli operatori sentivano davvero il ruolo e la responsabilità per la sicurezza? O erano comparse di uno spettacolo a base di serate danzanti e cene di gala? Tengo a precisare che le mie sono domande, non affermazioni. Non so cosa accadeva a bordo delle navi della Costa (e anche di altre compagnie), ma certamente non mi fermerei ad indagare il narcisismo del comandante Schettino. Parlerei con le persone, darei loro fiducia. Non andrei a cercare i colpevoli, ma le condizioni organizzative che, come scogli nascosti, minacciavano l’incolumità del sistema.

Nota:  questo è articolo è pubblicato su www.ticonzero.info