Esistono film che, fin dal primo secondo, sono capaci di catapultare l’osservatore in una dimensione, visiva e mentale insieme, del tutto inedita, a tratti crudele, a volte romantica, ma pur sempre originale. E The Hunger Games, uscito da pochi giorni nelle nostre sale e tratto dall’omonimo romanzo bestseller di Suzanne Collins, è uno di questi. Malgrado un cast di attori non famosissimi e un budget di produzione tutto sommato esiguo, se raffrontato ai film prodotti dalle grandi case cinematografiche hollywoodiane, il film in questione è stato campione di incassi oltreoceano e, si presume, potrebbe ripetersi anche nel nostro paese.
Cosa di cela dietro a questo enorme successo, sia del libro che del film? Indubbiamente una campagna di comunicazione e marketing “spietata”, che ha coinvolto ogni media e ha avvicinato, prima ancora della sua uscita, il pubblico alla storia narrata e ai suoi principali protagonisti. Sicuramente ha giocato un ruolo forte anche la presenza nella colonna sonora di star della musica, del calibro di Taylor Swift e Maroon 5, capaci di richiamare una folta fetta di pubblico nelle sale. Ma non è ancora sufficiente… La trama e i suoi indubbi significati più o meno velati hanno giocato un importante ruolo nel successo del film.
La critica americana ha risposto abbastanza bene al lavoro cinematografico, mettendone in luce alcuni degli aspetti più interessanti a livello semantico e artistico. Non è stata altrettanto docile la critica italiana, che, come spesso accade quando si tratta di film di successo, si è spaccata in due. Tra le tante voci contrarie, si può prendere in considerazione quella di Curzio Maltese, che dalle pagine di “la Repubblica” ha lanciato un attacco feroce al film diretto da Gary Ross, definendo la sceneggiatura banale, scontata fin dall’inizio e insignificante… Si sa, spesso i presunti “critici”, in un impeto di arroganza e finta superiorità, si lasciano andare a commenti parecchio discutibili, che sembrano essere usciti dalla penna di uno che non ha mai visto il film che sta criticando al cinema.
In realtà la sceneggiatura è tutto meno che banale: è vero che la Collins prima e Ross poi si sono ispirati a una gran quantità di fonti, ma non bisogna demonizzarli per questo motivo. Ogni storia ha origine da altre storie e questa è una prassi ormai consolidata della letteratura internazionale. La Collins ha sempre sostenuto che il suo The Hunger Games è nato da uno zapping televisivo in cui frammenti di reality si accostavano a scene di guerra. Accanto a questo primo flash, una seconda fonte di ispirazione è stata data dal mito greco di Teseo, che si offre volontario alla spedizione annuale di fanciulli e fanciulle ateniesi a Creta, per essere divorati dal Minotauro.
Tuttavia, è curioso notare che la scrittrice non abbia citato, tra le fonti, lo scrittore inglese George Orwell e il famoso “The Truman Show”, film del 1998 con Jim Carrey nei panni di un uomo spiato 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 in un mondo “finto” che altro non è che un enorme studio televisivo. Gli elementi ci sono tutti e vale la pena analizzarli, perché, al di là degli aspetti commerciali del film, questi due riferimenti sono il cuore pulsante della trama e svelano una gran quantità di significati… Il riferimento a Orwell è ovvio nell’ambientazione post-apocalittica che caratterizza Capitol City (la città in cui si svolgono i “giochi”), molto simile a quel mondo spaventoso da lui ritratto nel famoso romanzo “1984”, dove gli imperativi sono un obbligo e per andare avanti non deve esistere il libero pensiero.
Altri punti di contatto si possono intravedere in quel clima di oppressione, dove i più ricchi, quelli della città, dominano sui più poveri, quelli dei distretti, oppure in quel mondo controllato che è l’arena degli Hunger Games, tanto simile alla censura e al controllo diretto del Grande Fratello orwelliano, oppure ancora in quella voglia di sfuggire al potere costituito, che caratterizza i protagonisti di entrambi i romanzi e che viene soddisfatta solo in parte, perché di fronte ai potenti è possibile solo sottostare: li si può ingannare, certo, ma a vincere, alla fine, sono sempre loro. Il lieto fine è annullato, ma del resto c’è poco da sorridere nei tempi in cui viviamo.
E che dire dell’arena costruita ad arte e comandata di continuo dal regista dei giochi nel romanzo della Collins? Non è, questo, il riflesso più evidente del Truman Show, ovvero di quel gigantesco e voyeuristico reality dove tutti sono attori e dove ogni oggetto, ogni ambiente, ogni frase è frutto di uno spot pubblicitario? Anche negli Hunger Games il mondo in cui si sfidano le giovani vittime sacrificate è costruito e comandato virtualmente, pur sembrando verissimo, come se non ci fosse un confine tra realtà e finzione. Un mondo in cui basta un tocco di dita per creare dal nulla mostri orribili o far scoppiare un incendio, esattamente come nel Truman Show bastava un tocco di dita per scatenare una tempesta o far uscire il sole al posto della luna. Sembra esserci persino una citazione precisa, quando, giunti alla fine dei giochi, il regista, colui che ha il controller del gioco, accorcia le giornate, per concludere al più presto quella carneficina.
Forse, però, il vero punto di contatto è la ricerca dell’audience a tutti i costi. In entrambi i casi è il pubblico a guidare le scelte di chi gestisce lo spettacolo. E qui c’è un primo importante insegnamento: se quel pubblico potesse rendersene conto, avrebbe un ruolo di potere immenso. Ha in mano le redini del gioco, ma sembra cieco di fronte a questa possibilità e si lascia abbagliare dal coinvolgente demagogo di turno. Altri insegnamenti si possono scorgere da alcune fasi salienti del film, come quando, ad esempio, il mentore osserva con amarezza un bambino che con una finta spada trafigge la madre e la sorellina, quasi a indicare, con la sua smorfia, a che livello di orrore si è arrivati. Oppure si può pensare allo smarrimento di Katniss nei primissimi secondi di avvio dei giochi nell’arena, quando inizia una devastante guerra di tutti contro tutti e dove l’unica strategia possibile è quella di prendere uno zaino, scappare in mezzo al bosco e sperare di essere fortunati e non essere presi dagli altri spietati adolescenti.
Feroce critica alla società del nuovo millennio, emblema delle nuove generazioni destinate a combattere fin dai primi anni di vita, durissimo rifiuto dei crudeli e inutili “reality show”… Sono tanti gli spunti di riflessione e le lezioni che si possono trarre dal libro e dal film. Ognuno può ragionarci come preferisce e può trarne le lezioni che riesce a elaborare. Pochi film riescono ad avere questo grande effetto. È per questo motivo che vale la pena vedere The Hunger Games: non tanto per puro spirito commerciale, ma per riflettere su quello che siamo diventati, aiutati da una storia per adolescenti dove, però, non ci sono amori scolastici o riflessioni sul crescere in una società di adulti, ma una dura, spaventosa, accettazione dei tragici fatti. Orwell nel 1948, guardando semplicemente la realtà che lo circondava, è riuscito a profetizzare il mondo in cui ancora oggi viviamo… Chissà se la Collins è stata altrettanto brava nel profetizzare quel mondo verso il quale ci stiamo muovendo. Noi giovani, che ci sentiamo direttamente coinvolti e protagonisti di questa storia, ci auguriamo di no!