Ad accogliere i visitatori nella loggia della settecentesca Villa Clericisede del museo d’arte sacra contemporanea – ci sono tre parallelepipedi dello scultore Nicola Carrino. Quasi un invito ad immergersi in un cortocircuito estetico e sinestetico tra la contemporaneità delle opere proposte e la magniloquenza dell’architettura, in un dialogo serrato che presuppone una volontà di confronto del pubblico con l’attualità dei linguaggi e delle forme, a cui anche il mondo della chiesa cattolica si sta aprendo, vista la prossima partecipazione di un padiglione di Città del Vaticano alla Biennale internazionale d’arte di Venezia. Curata da Paolo Bolpiani e Francesca Pola, Immagine della Luce.  Artisti della contemporaneità internazionale per Villa Clerici – questo il titolo della mostra – vuole essere un momento di confronto tra linguaggi, personalità eterogenee e generazioni diverse di artisti che si sono confrontati con un tema, o forse sarebbe più giusto dire una suggestione, che tanto ha contato nella storia dell’arte, e in particolar modo in quella “sacra”. Non un percorso espositivo ordinario, scandito da una successione manualistica delle sale, ma (nella maggior parte dei casi) un vero e proprio incontro tra le opere e gli ambienti dell’antica dimora. Sul grande scalone laterale, come sui soffitti, le cinquanta opere scelte dai due curatori sono essenzialmente legate alle indagini astratte e concettuali sviluppatesi in particolar modo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.

Si parte con Bruno Querici, presente con la grande Dinamicoluce, Nelio Sonego, con Orizzonteverticale, Michel Verjuz con un lavoro site-specific che impone la verticalità dello sguardo che svela le decorazioni del soffitto grazie a un fascio di luce collocato sul pavimento. Sempre nell’ottica di una scelta che travalica l’utilizzo di un solo medium espressivo e mediante un approccio transnazionale, François Morellet ribadisce l’interesse del neon e quindi della luce che «Quale portato paratecnologico elementare è da lui impiegata come elemento non accessorio ma fondante del suo linguaggio, perché specificamente connota il significato dell’opera secondo una dimensione simbolica concreta: è possibilità stessa della vita della forma geometrica», secondo quanto analizza la studiosa Francesca Pola nel bel catalogo edito per l’occasione. Essenziali nel loro rigore formale, i pezzi di Alan Charlton, Niele Toroni, come d’altronde i lavori di Dadamaino, Günter Umberg e le splendide carte di David Tremlett, tra le opere più interessanti di questa mostra che, ricordiamo, è stata organizzata in collaborazione con la galleria d’arte contemporanea Studio Invernizzi di Milano. Luce come forma, luce come metafora di un punto di vista e luce come linguaggio che nella sua concettuale autoreferenzialità espleta un ruolo sempre vivo, nonostante il rapporto tra arte contemporanea e ispirazioni “luminose” è uno dei temi fondanti di tante mostre recenti, non ultima quella dell’ultima Biennale firmata da Bice Curiger.

Nell’ambito di queste declinazioni, la luce è anche frutto di un confronto dialettico tra un materiale e l’ambiente entro cui viene proposto, anzi esposto. È il caso di Lesley Foxcroft, che associa al rapporto tra opera e spazio, anche una lettura che non può prescindere dai materiali utilizzati: cartone e M.D.F. All’interno della labirintica infilata di stanze del primo piano della villa, si rintracciano poi i dipinti di Elisabeth Vary, le sculture “primarie” di Igno Legnaghi, mentre si distingue per un vivo rapporto simbiotico con gli ambienti l’opera di Mauro Staccioli, collocata sulla soglia di passaggio tra sesta e settima sala. Seguendo l’analisi di quell’arte contemporanea che come linea fondante predilige il dialogo percettivo con la luce, non si poteva certo dimenticare l’interessante esperienza cinetica di Gianni Colombo. Completano il percorso le opere di Mario Nigro, Carlo Ciussi, Rodolfo Aricò, Pino Pinelli, Riccardo De Marchi, Grazia Varisco, Bruno Querci, Francesco Candeloro e Rudi Wach, tra operazioni che con più o meno incidenza rivelano percorsi originali e vitali, come nel caso della Varisco, presente con un lavoro della recente produzione che così esplicita un percorso concettuale sempre vivace. Una chiamata alle armi dunque, tra artisti viventi e un nucleo di maestri ormai scomparsi, che con le loro opere hanno rivitalizzato un luogo che purtroppo soffre la mancanza di una politica promozionale capillare – soprattutto rispetto a determinati spazi del centro della città – oltre che sostanziali problematiche legate all’allestimento degli spazi permanenti.

Inaugurato nel 1955 per iniziativa della Casa di Redenzione Sociale della Compagnia di San Paolo, un ente religioso sorto nel 1920, il museo possiede un congruo numero di opere – circa 3.200 –, di cui 200 esposte in permanenza.

Connesso in particolar modo con quella certa linea figurativa dell’arte del Novecento, come quella di Floriano Bodini, Giacomo Manzù, Pericle Fazzini, Aldo Carpi, Trento Longaretti e Giuseppe Usellini, il museo ha apparati didattici molto scarni, un sistema di didascalie che andrebbe parzialmente rivisto e, soprattutto, come accennato, un allestimento confuso, che determina una visibilità scarsa delle opere, una comprensione non esemplare dei percorsi intrapresi dagli artisti che si sono confrontati con le complesse tematiche sacre. Paga probabilmente la condizione periferica, che al contempo è uno dei maggiori punti di forza di questo museo: ben vengano quindi le mostre di qualità come questa ordinata da Paolo Bolpiani e Francesca Pola, che sollecitano l’interesse di un luogo così particolare. E in tal senso risulta interessante il calendario di attività che comprende visite guidate, seminari e altri momenti di approfondimento segnalati nel sito www.villaclerici.it.