Quattro studenti poveri e infreddoliti scherzano e giocano insieme. Vigilia di Natale sui tetti partenopei di Vigliena, tra paranchi portuali, officine e bar, dove una tenera corte dei miracoli beve, danza e chiacchiera. Arriva lei, debilitata dalla tisi; se ne innamora il poeta del gruppo, la porta in giro felice e sornione, ci litiga e ci intreccia una speranza di vita dolce e serena. Sembra tutto così allegro, ma il destino irrompe e la povera fioraia muore. E’ il dolore irredimibile. La miseria di una comunità di periferia, sul sottofondo straniante degli anni Ottanta, segna per sempre vite mai davvero cominciate.
Qualcuno potrebbe pensare che somiglia a La Bohème, scritta da Illica e Giacosa e composta da Giacomo Puccini, l’unico musicista italiano davvero affacciato sul futuro. Non somiglia, è La Bohème. Per quanto qualche bacchettone pretenda ancora messe in scena filologiche e imbalsamate, fare teatro musicale oggi passa per le pulsioni e le urgenze della società contemporanea, che di queste storie vere o narrate ne ha visto a centinaia, anche sui libri, nei teatri, nei dipinti. Non possiamo digerire l’arte ignorando tutto quello che è successo nel frattempo.
“La Bohème a Vigliena”, prodotta dal Teatro San Carlo e dovuta all’acutezza interpretativa del regista Francesco Saponaro, della musicista Céline Berenger e dello scenografo Lino Fiorito, è una pietra miliare tanto sul piano semantico quanto su quello gestionale, dagli spazi scenici al laboratorio con giovani attori di quell’area urbana, dalla struttura drammaturgica alla griglia dei costi e delle risorse. Non sarà più possibile assistere a un’opera lirica senza pensare che questa Bohème ha segnato un percorso dal quale non si può tornare indietro. Finalmente.
Per chi avesse paura è il caso di ricordare che questa messa in scena, con una compagnia di giovani cantanti meravigliosi sul piano vocale, incisivi su quello teatrale e potenti su quello musicale, esalta per intero ogni battuta dell’opera pucciniana, ne restituisce appieno l’émpito sentimentale e la forza dialogica, ne amplifica le myricae soavi e turbolente. Per chi temesse la solita – e purtroppo di norma giustificata – solfa sugli sprechi della lirica basta mostrare una contabilità asciutta ed essenziale che può aprire la strada all’opera high quality-low cost. High quality in quanto low cost.
Decenni di cantanti panciuti gigioni, di direttori avidi divi, di masse impiegatizie hanno creato una vulgata operistica pervasa da luoghi comuni, pronta a starnazzamenti parrocchiali, attenta più al foyer che al palcoscenico; e hanno inaridito quella magnifica vena creativa, interpretativa ed esecutiva di cui sono tuttora pieni i nostri teatri, a propria insaputa. Il modello visto al San Carlo, intuìto e non ancora progettato, può scardinare il declino dell’opera recuperandone le opzioni espressive così come le opportunità produttive e finanziarie, rispondendo ai nostri complessi desideri orientati al futuro.