Qual è stata l’ultima opera lirica a cui hai assistito in un teatro? E l’ultimo concerto di musica classica? Probabilmente si tratta di una delle domande più interessanti da porre a giovani che rientrano in una fascia d’età tra i quindici e i trent’anni. Un ipotetico sondaggio di tal genere, con buona probabilità non avrà risposte incoraggianti. In un sistema arroccato come quello della cultura italiana non c’è settore più esplicativo del ritardo nell’elaborazione di strategie gestionali efficaci che quello della l’opera lirica.

Un modello operativo e di management rimasto ancorato alla concezione di teatro di nicchia, a cui si associa l’idea di un pubblico di età media piuttosto elevata, molto erudito e con una notevole capacità di spesa. Questo modello di pubblico è strettamente collegato allo stereotipo molto similare di coloro che gestiscono l’allestimento e scelgono i cartelloni per ogni stagione. Un comparto che continua a difendere la sua cerchia di pubblico di nicchia e che difficilmente si espone a sperimentare modelli di gestione differenti ed innovativi, che possano anche ampliarne in qualche modo il bacino d’utenza.

Presentandosi come uno dei comparti più autoreferenziali del panorama culturale italiano, il sistema dell’opera lirica continua a strutturarsi sulle basi di un modello molto radicato alla sue origini ottocentesche, quando proliferava all’interno della cerchia di una nobiltà altera, che finanziava le serate al teatro non solo per una visibilità personale ma anche per fornire una scusante ad incontri con massime personalità regie e di corte. Attualmente infatti il settore (che secondo i dati emersi da un convegno di Federculture negli ultimi 10 anni ha accumulato perdite per 180 milioni di euro, con un saldo negativo di 58 milioni rispetto ad un finanziamento pubblico complessivo che ha raggiunto i 34 miliardi) continua a vivere, o meglio sopravvivere, grazie ai finanziamenti pubblici del Fus (nel 2011 dei 428 milioni messi in campo dal Fondo Unico per lo Spettacolo il 47% sono andati alle Fondazioni liriche) e negli anni non ha mai visto una concreta riforma della sua struttura gestionale e organizzativa (molto scottante risulta essere la questione del decentramento e del ruolo delle regioni).

L’oligarchia dell’opera lirica pertanto continua a perdurare sia nei modelli di finanziamenti che nelle offerte di cartellone, rivolte sempre allo stesso target di pubblico consolidato. Un chiaro esempio di cristallizzazione di un settore rimasto immutato in un contesto circostante di società in continua evoluzione e di gusti profondamente cambiato nell’ultimo secolo. E gli effetti di questa autoreferenzialità si manifestano ogni anno in modo più marcato. Il contrasto più evidente nella messa in scena delle opere è senza dubbio la staticità della messa in scena rimasta immutata dal secolo scorso ad oggi. Il testo dell’opera lirica cantata non solo rimane di difficile comprensione (in genere è avvicinabile solo da parte di coloro che hanno ricevuto una buona formazione all’interno del contesto familiare) ma l’intera vicenda drammatica risulta ancora più ostica dal momento che il palco è posto lontano dagli spettatori. Si viene a perdere da parte del pubblico il pathos per quanto sta avvenendo sulla scena, dal momento che la distanza rende difficile coglierne la tragicità in particolar modo per una società abituata ai soventi primi piani televisivi, in cui la cruda realtà viene mostrata in ogni suo aspetto. Concepita dunque come una storia asettica, l’opera viene pertanto marchiata come noiosa e troppo estranea alla realtà della fiction. Una concezione che non fa altro che gravare sull’interesse e l’appeal di questo genere teatrale, che si unisce ad una situazione pesante da sostenere dal punto di vista finanziario.

A fronte di una crisi economica che sta erodendo i finanziamenti per il Fus, l’unica reazione è stata quelle delle proteste e delle rimostranze senza una autentica analisi invece di quelle criticità che potrebbero essere invece migliorate indipendentemente.

Per fare un esempio, uno delle problematiche per l’ampliamento del bacino di pubblico e al fine di agganciare una fascia d’età giovane (e quindi dalle buone potenzialità anche nel futuro, qualora si riesca a fidelizzarli e ad appassionarli) sarebbe la riduzione dei costi dei biglietti e degli abbonamenti, puntando in tal modo alla quantità ma soprattutto incentivando le fasce meno abbienti. Ad oggi la riduzione esiste ma, a fronte di un costo elevato degli spettacoli in genere, a conti fatti un biglietto risulta essere in ogni caso troppo oneroso per studenti universitari o giovani lavoratori. C’è da aggiungere che, una volta superata la laurea, in molti teatri la riduzione per gli abbonamenti non è più possibile: un paradosso se si pensa che il 30% dei giovani italiani, compresi quelli appena usciti dalle aule universitarie non lavorano e pertanto non hanno entrate con cui potersi permettere un abbonamento o un biglietto.

Un modello dunque che non scende a compromessi e che evita di conformarsi con il modus operandi della cultura popolare più accessibile e frequentata da quelli che possiamo definire borghesi, più avvezzi a cinema e a teatro di prosa.

Per fare un ulteriore esempio anche i dati relativi la diffusione dell’opera lirica all’interno dei palinsesti della popolarissima televisione (che, pur non riuscendo a trasmettere le stesse sensazioni di uno spettacolo seduti tra le luci soffuse del teatro, consentirebbe una maggiore diffusione delle opere e ne permetterebbe la conoscenza e la fruizione gratuita) sono sconfortanti: le trasmissioni che se ne occupano, infatti, sono davvero esigue e spesso in onda in orari poco consoni.

Perseverando nel rivolgersi sempre allo stesso pubblico e non incrementando le proprie iniziative nei confronti di un pubblico giovanile, il settore continua a rimanere trincerato nelle proprie consuetudini che lo stanno portando ad una perdita di fatturato molto consistente aggravata dalla crisi.

Un’altra possibile soluzione al prezzo popolare degli spettacoli, potrebbe essere anche quella di rivoluzionare e ammodernare la messa in scena e di renderla maggiormente fruibile ad un pubblico del XXI secolo, come chi ha avuto il coraggio di portare in scena esperimenti innovativi riscontrando un buon successo di pubblico. Con un budget minimo all’inizio di giugno di quest’anno è andata in scena, infatti, una versione del tutto innovativa della Boheme di Giacomo Puccini: si tratta della “Boheme a Vigliena”, realizzata dal teatro San Carlo per la regia di Francesco Saponaro. Un modello di opera low cost e low budget che potrebbe spianare la strada nel futuro per intraprendere un percorso che rivoluzioni la messa in scena e il target di pubblico. Chissà se un giorno sarà studiata nei libri come l’opera pioniera che ha aperto un nuovo corso per la lirica e la sua gestione.