Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Gonfia di sciovinismo e di luoghi comuni, la cultura italiana non osa scommettere su sé stessa. Non è un fenomeno strettamente interno, per quanto vincoli dissennati e regole bizantine ne rendano comunque asfittiche le sorti progettuali e finanziarie. Si inaridiscono progressivamente i canali che per molti secoli ci hanno connesso con il resto del mondo, da quando Platone veniva a insegnare sullo Jonio e Graecia capta ferum victorem coepit. Attraversiamo il Medioevo, il Rinascimento, il Barocco e tutto l’arco temporale fino all’altro ieri e la cultura italiana ha una potente allure internazionale, tra Debussy e Ravel al Prix de Rome al cinema degli anni Sessanta.
Ci rimane poco, in un Paese che si rivela ingannatore nella pancia e tardo-agricolo nel cuore. Da fuori verso l’Italia, cerchiamo di sedurre con trucchi sempre meno credibili i turisti internazionali che anno dopo anno ci abbandonano per luoghi meglio strutturati e più pertinenti; dall’interno verso il mondo facciamo delle bizzarre tournées di dipinti e spettacoli con al seguito delegazioni festaiole di imprenditori convinti che le opere d’arte obnubilino il giudizio dei loro omologhi stranieri, pronti a firmare qualsiasi con-tratto dopo l’inevitabile sbarellamento stendhaliano.
Naturalmente la vulgata si avventura su vette poetiche ed enfatiche, parlando di attrazione di investimenti stranieri (i francesi che avevano ventilato un intervento pompeiano hanno fatto una veloce retromarcia), di presenza nei mercati internazionali dell’arte (i nostri istituti di cultura, dediti all’insegnamento della lingua italiana, ogni tanto offrono mostre di artisti negletti all’interno delle dipendenze diplomatiche snobbando gallerie, musei e mercati), di valorizzazione e opzione commerciale per i nostri musei (ma nessuno straniero potrebbe penetrare la viscosa cortina che ha mummificato bandi, servizi e relazioni istituzionali).
Il mercato può essere un luogo intenso e prodigo, purché sia governato da poche e trasparenti regole che liberino le energie progettuali e rafforzino l’accountability; sia o-rientato a una diversa gestione dell’offerta che esalti le proprie componenti dialogiche anche grazie alle nuove tecnologie; sia seriamente intenzionato a esplorare una potente domanda in emersione espressa da una società dinamica, sofisticata e multiculturale pronta a essere coinvolta e a partecipare; sia capace di interpretare le opportunità in modo bilaterale, prospettando scambi e progetti condivisi con il resto del mondo.
Il paradosso è che mentre la cultura istituzionale e mainstream si innervosisce a confida nell’arrivo di un demiurgo accondiscendente, anche da noi emergono e si manifestano fermenti acuti e coraggiosi, a occupare quell’intrigante altrove che l’ufficialità snobba ma che tiene le finestre aperte su altri Paesi e Continenti: non sono pochi gli italiani che da Londra a Pechino, da Los Angeles a Barcelona si danno a incisive rappresentazioni del sé attivando e alimentando un network formidabile di scambi e suggestioni. E cominciano a manifestarsi stranieri di varie culture che trovano possibile progettare la cultura in relazioni informali che non stimolano l’interesse di un dibattito tuttora infarcito di numeri e di lamentele.
La cultura, e il turismo emergente che ne rappresenta una sponda di tutto interesse, saranno i sistemi in crescita progressiva nei prossimi decenni. Non si tratta di attrarli ma di capire come possono funzionare, di accettarne la veloce evoluzione, di deporre una volta per tutte le credenze superstiziose che ancora dividono il mondo in colti e ignoranti, in arte di nicchia e arte popolare. Un governo di tecnici dovrebbe agire in modo massiccio e radicale, liberando la cultura dagli orpelli formali e dalle etichette mielose: avremo pure tanti monumenti nel patrimonio dell’umanità, ma quando crolla un muro sarebbe il caso di poter capire a chi tocca pagare, non si può certo pretendere l’obolo dall’umanità. Deregolamentare, introdurre elementi di imprenditorialità e di affidabilità, incentivare la responsabilità, misurare la performance gestionale, attivare efficaci canali finanziari che possano iniettare liquidità e risorse sui progetti credibili, ridisegnare in modo laico e pertinente le relazioni tra pubblico e privato. Il nemico è sempre lo stesso: la paura di diventare adulti.