L’era della globalizzazione ha l’enorme vantaggio di mettere a confronto le culture delle tante comunità presenti. Queste però, il più delle volte, rischiano di convergere nell’annullamento delle “tipicità”. Purtroppo la standardizzazione sta diventando una cattiva abitudine che colpisce una delle cose più belle al mondo: l’arte del mangiare. A questo punto, non ci resta che ammettere cosa è successo negli ultimi anni: abbiamo preferito lasciare maggior spazio al fast-food e sempre meno alle tradizioni culinarie tipiche di un territorio. Per comprendere effettivamente le cause che hanno permesso il tradimento del “Made in Italy” c’è bisogno di risalire agli albori.
Già in epoca romana, così come nel medioevo e in età moderna, le classi popolari urbane erano consone ricorrere al cibo da sporto: non c’erano mezzi di trasporto sofisticati come quelli di cui disponiamo oggigiorno, pertanto all’epoca risultava normale spendere buona parte della giornata fuori casa. Le botteghe e le taverne erano ricche di prodotti tipici incartati, da servire al momento o solo da riscaldare per chi, poveretto, in casa non disponeva di strumenti o spazi sufficienti per la cottura; ma ancora più gettonate erano le attività praticate dai venditori ambulanti.

Col passare dei secoli, la vita frenetica e l’industrializzazione allontanarono la donna dal suo ruolo di casalinga alle prese con i fornelli e si fece sempre più ricorso a pasti veloci. Negli anni ’30 in Italia si diffuse il termine sandwich, ma l’arte della cucina futurista, per amor di patria, lo battezzò “traidue”, mentre il cocktail divenne la “polibibita” e il picnic il “pranzo al sole”. Marinetti nel suo Manifesto stuzzicava i chimici invitandoli a sperimentare nuovi sapori da accostare a profumi, alle forme delle nuove arti. Insomma, in maniera artificiosa, si sperava di ridimensionare l’importanza della forchetta e del coltello preferendone i “bocconi simultaneisti e cangianti”.
Tale forma di “snobismo”, dispettoso e altrettanto rivoluzionario, per un verso giovò parecchio, ma per altri aspetti condizionò l’equilibrio che per secoli aveva legato l’uomo alle abitudini alimentari figlie delle singolari realtà territoriali di appartenenza.
Ciò che infatti negli anni ’60 rappresentava il pranzo al sacco diventò – esattamente un decennio dopo – simbolo di momenti di ritrovo soprattutto per i giovani. A quell’insaziabile desiderio di cotolette e di frittate seguì negli anni ‘80 il boom delle paninoteche, che lanciò l’appellativo del fast-food, cui si aggiunse in seguito un’ossessione per i grandi marchi internazionali della ristorazione veloce.
La preparazione, l’esposizione, il consumo e la vendita di prodotti alimentari proposti da venditori ambulanti nelle strade e nei mercatini è legato invece a molteplici terminologie: cucina da strada, cibo di strada, street food. Si iniziò perciò a distinguere lo “street food” dal classico “fast food”. Fanno parte della categoria Street food tutte quelle pratiche che certamente designano ancora la rapidità della consumazione e la definizione di “fuori-pasto”, con la sola differenza che il mangiare o la cucina di strada, vengono preparate e offerte quasi sul momento da esercizi commerciali all’aperto o al semi-chiuso, meglio se rappresentati da bancarelle, banchetti provvisori, furgoni e carretti ambulanti prossimi o adiacenti le strade. Sia il finger food che il fast food dispongono di alcune pietanze potenzialmente catalogabili nella serie del cibo da strada.

Negli Stati Uniti lo street food, a gradi linee, tende a rispecchiare il panorama globale che contraddistingue una metropoli, ma non per questo è in grado di ridimensionare i ceppi etnici nati nei rispettivi quartieri.
In Africa, in Asia e America del Sud lo street food è una prassi abitudinaria, quando invece in Europa la situazione sembra avere un risvolto diverso in termini di notorietà. Per esempio in Italia il dibattito il “fast food” è particolarmente gettonato, orientato verso l’omologazione delle pietanze, verso l’incitamento al consumo del pasto veloce e tende a sfociare nel cosiddetto “menù alla Mc Donald’s” o al semplice “sandwich da Autogrill”. Lo street food passa invece come una specie di fast food tradizionale, genuino, locale, e per di più di storico valore culturale-alimentare. In altre parole, il fenomeno del cibarsi per strada è in forte ascesa ma per fortuna non è dettato dalle sole leggi “alimentari” del fast food universale, quanto da uno street food di tendenze fatte di ristoranti veloci, e catene di “tavole” dove si mangia in 20 minuti a menù fisso.

Se solo per un lasso di tempo si è preferito il mito americano, lo “street food di classe” ultimamente lascia invece ben parlare di sé. In questo caso non intendiamo tanto quelli che molti definiscono “finti odori” provenienti da hot dog personalizzati (o toast preconfezionati al supermercato), rivenduti in occasione delle partite di fine campionato all’uscita dagli stadi, quanto a quelli “veri” tipici di chioschi, botteghe e banchi d’assaggio delle piccole città (fatta eccezione per Roma) che rischiano di finire nel dimenticatoio.
Sembra sciocco dirlo ma il gioco e la lotta continua tra “fast” o “street” fanno sorgere parecchie difficoltà nel dare una collocazione mirata alle singolari portate in riferimento ad una loro connotazione etnica e identitaria. Un caso fra tutti è dato della pizza italiana o dal kebab di origine turca; due eccellenze oramai internazionali. I primi furono i cinesi con le loro rosticcerie “take away”, poi gli arabi incantatori con il loro marchio “Kebab”, a volerci regalare ingenuamente un forte scossone. Trattasi di un’esperienza indimenticabile che a conti fatti coincide con tutte quelle aspettative che in tempi di crisi come quelli odierni, stimolano lo spirito di sopravvivenza. Effettivamente la pizza e il Kebab sono delle “prelibatezze da pochi soldi” e la comprensibile ricerca al risparmio va da sé.

Sfortunatamente quella di vedere dietro i panini nostrani celare delle particolarità poco conosciute è un’accortezza alla quale spesso non si presta alcuna minima attenzione. Tanto è vero che “l’italianità” la si preferisce riscontrare in un “Mc Vivace” o “Mc Adagio” offerti per Mc Donald’s dal famoso chef Gualtiero Marchesi, piuttosto che cercare di apprezzare quanto di più buono si possa trovare in una normalissima pagnottella imbottita secondo le espressioni gastronomiche locali. Senza tralasciare del resto che, ciascuna località, con il proprio tipico panino, fa sì che la diversità diventi “quasi quasi” un escamotage per arricchire anche con “un morso goloso” il proprio bagaglio culturale. Pensiamo al panino con l’ariccia romana o al lampredotto fiorentino e ancora al “pani ca’ meusa” nel palermitano, o alle varianti tipologie di pane che meglio rappresentano le seguenti località: le piadine romagnole, i “pan’ca’ grifi” dell’aretino, e i gofri piemontesi etc …

La tanto attesa rimonta dei piatti forti preparati e venduti direttamente nelle botteghe sembra intenzionata a rivivere felicemente il suo esordio. Un esordio fatto principalmente di prodotti tipicamente italiani. Chi, per l’appunto, negli ultimi anni sta risvegliando a livello nazionale il piacere di scoprire il meglio delle leccornie da strada è l’Associazione culturale Streetfood, il Festival Saporìe, la Biennale del Festival Internazionale del Cibo di Strada (entrambi di Cesena) e Stragusto – La Festa del Cibo da Strada del Mediterraneo che da quattro anni si svolge a Trapani. Eventi gastronomici che chiaramente non possono passare inosservati durante il periodo estivo nelle regioni che maggiormente esprimono la vita gastronomica da “street food”. E allora … Buon cibo da strada a tutti!