Tre proposte degne di nota: Enrico Baj con il suo capolavoro Funerali dell’anarchico Galli – forse l’ultimo “quadro politico” dell’arte europea del XX secolo –, la mostra corale sugli anni Settanta in città e un’antologica di Fabio Mauri sottotitolata The End (fino al 20 settembre). È più caldo del solito il termometro estivo di Palazzo Reale a Milano, con belle mostre a ingresso gratuito.
La mostra di Mauri, curata dalla critica d’arte Francesca Alfano Miglietti – che già in passato ha avuto modo di occuparsi con attenzione anche filologica del lavoro del noto artista concettuale – e prodotta dal comune meneghino, si snoda negli spazi al piano terra del “salotto buono” della città, in una sequenza di sale che dovrebbero approfondire e divulgare gli ambiti più rilevanti della ricerca del maestro scomparso nel 2009. Oltre alle contingenze cronologiche, concettuali e direi anche ideologiche con la vicina mostra sugli anni Settata (al piano superiore), questa antologica di Mauri si caratterizza anche per un problema di fondo: la mancanza di un percorso chiaro per il fruitore medio, che non è – o non dovrebbe essere – soltanto quello addetto ai lavori. Testi di sala troppo lunghi – ma altrettanto interessanti al dire il vero – non sono sicuramente alla portata dei più, per via di quei corpi tipografici troppo striminziti e per le collocazioni non sempre felici all’interno delle sale. Per carità, i pannelli ospitati nel primo ambiente della mostra evidenziano con poche e chiare parole il concept del progetto espositivo, ma mancano in assoluto prodotti di sostegno, come video e documentazione fotografica divulgativa per una lettura approfondita e una vera e propria relazione tra il fruitore le opere. Questo però naturalmente non offusca la forza concettuale dei lavori in mostra, soprattutto il complesso e corale lavoro Ebrea e il grande “monumento” alla migrazione sviluppato con l’assemblaggio di vecchie valigie “di cartone”, che abbiamo visto in tempi recenti per la vernice del MAXXI di Roma. Sguardi sulla civiltà, talvolta ironici, metafore evidenti del disastro nazista, utilizzo di un repertorio di segni e profili dittatoriali, approccio plurilinguistico – video, foto, installazione, ricamo, disegno e pittura – sono gli aspetti decisivi nel lavoro di Mauri e in questa mostra.
Il percorso, come accennato, è scandito anche da numerose proposte legate al disegno. È soprattutto il ritratto il “genere” adottato dal maestro, talvolta con sorprendenti esiti espressionistici, talvolta con dimensioni più elementari. Ma d’altronde in mostra sono presenti anche opere giovanili, da sembrar quasi degli studi accademici. Stupisce poi il rigore formale degli schermi selezionati per l’occasione: grandi monocromi che rammentano un sentimento di rigore estetico che lo fa dialogare con tanti nomi della sua generazione, pensiamo per esempio a Schifano.
In ogni caso, come ha sottolineato la Alfano Miglietti, “Lo sguardo che richiedono le opere di Fabio Mauri è uno sguardo en voyeur (inevitabile controfaccia della pietas). Ci chiedono di osservare dunque. Di identificarci e, nel contempo, di mantenere la distanza. È forte il disagio di un’assenza fuori dal luogo”.
Raffinato il catalogo della mostra, edito da Skira, che propone un articolato saggio della studiosa, la documentazione fotografica dei lavori in mostra e gli apparati biografici, bibliografici ed espositivi di Mauri, da cui emerge quella forte attenzione della critica italiana e straniera più ravveduta alle forti implicazioni storiche, sociologiche e politiche di un percorso mai retorico e per questo sempre attuale. Non a caso il nome di Mauri compare tra gli artisti proposti attualmente a Kassel nell’ambito di Manifesta, tanto per confermare la vocazione globale del suo peregrinare tra problematiche e linguaggi universali.