Intervista a Paolo Fresu realizzata dagli utenti di TAFTER

Ti hanno sempre menzionato vicino a Miles Davis e a Chet Baker, a quale dei 2 ti senti di assomigliare maggiormente?
(Sant’Ezio Stimato)
Miles. Perché è il primo che ho ascoltato e poi per la filosofia del suono e del silenzio oltre che per la sua complessità e contemporaneità di artista poliedrico, coraggioso e visionario.
Chet Baker l’ho conosciuto subito dopo e mi ha colpito per la poesia. Non solo quella della sua tromba ma anche della sua voce. Ho scoperto così un uomo tumultuoso e ho capito ancora di più quella sua poesia tangibile ed epidermica.

Ci sono delle cose che vorresti ancora realizzare in campo musicale?
(
Giacomo Di Nicola)
Sì, molte. Cose che ho già nella testa e cose (spero) che arriveranno da sole. Non sono il tipo che progetta troppo, né tantomeno sono uno che decide con chi suonare. La maggior parte degli incontri importanti sono sempre frutto di una casualità, forse prevista, e mi piace credere che debba essere ancora così. Sia sulla scelta dei compagni di viaggio che sui progetti.
Per molto tempo ho detto che avevo in testa un progetto sulla musica barocca ma, per una serie di motivi, non riuscivo mai a realizzarlo. Ora “Barocco in Pispisi”, incentrato sulla musica della compositrice veneziana Barbara Strozzi, si è finalmente realizzato. I sogni nel cassetto restano comunque molti e non mi forzo più di tanto…

Il jazz è tradizione e creazione. In quale proporzione per Paolo Fresu?
(
September Moon)
50/50. Credo che il jazz sia tutte e due le cose. Rispetto per la tradizione, senza la quale non ci sarebbe la conoscenza e la coscienza, e creazione e innovazione che, nel jazz, sono fondamentali per dare un senso a questa musica.
Sempre di più infatti si tenta di individuare una nuova parola che possa sostituire il jazz. Per me questa è l’improvvisazione e la capacità di mettersi in gioco, ogni giorno. Questo è il jazz e questo gli garantisce un futuro: “creare” significa suonarlo concretamente.

Conoscendo il grande talento e amore per la musica Jazz nonché la sensibilità come persona, come rappresenteresti in un’altra forma d’arte questa tua dote?
(
Giovanni Carboni)
La fotografia. Ha lo stesso mood e lo stesso colore del jazz, ma senza suono… Soprattutto quella in bianco e nero degli anni cinquanta. Un po’ come il cinema, racconta il jazz con un cromatismo forte e ricco. Potrebbe sembrare una contraddizione se pensiamo all’assenza di colore ma, i grandi fotografi del passato, erano quelli che raccontavano al meglio la ricchezza dei volti e dei luoghi. Anche quella del jazz con i suoni immaginati…

Cosa è cambiato, in te e nella tua musica, dopo l’esperienza dei 50 anni “suonati”?
(
Patrizia Meloni)
Il numero. Da 50 a 51! A parte gli scherzi ho sempre detto che a cinquant’anni non cambia niente ma si modifica la percezione della realtà in relazione a ciò che si fa.
La mattina del 10 febbraio del 2011, giorno del mio cinquantesimo compleanno, fu pubblicato un mio pezzo sulla Nuova Sardegna e che io avevo pensato di intitolare “50 anni di non bilanci”.
In quell’articolo scrivo che non me li sento addosso e che niente cambia. Solo che il nuovo compito sarà molto più difficile e complesso: sarà quello di mettere la musica al servizio della vita per provare nel mio piccolo a migliorarla, utilizzando lo strumento che meglio conosco, il suono.
In realtà dopo la folle esperienza di “50” dello scorso anno mi sono reso conto che qualcosa è cambiato. In questo 2012 sono stato male due volte e tutti mi dicevano “guarda che hai cinquant’anni…”.
Chissà che non siano gli altri a vedere (e decidere) a che punto siamo e quanti anni abbiamo…