La realtà e la vita e la morte di Pino si sostituivano nella mia mente al ricordo dei libri letti, degli eroi del passato, del futurismo e del dadaismo da me amati, reclamando, in luogo di un divertito rifacimento parodico-letterario, la celebrazione di una tragedia familiare e politica, che andava rappresentata, anche in pittura, più o meno con i mezzi di sempre.

Risulta interessante rileggere queste annotazioni di Enrico Baj in merito al suo (capo)lavoro forse più celebre: “I funerali dell’anarchico Pinelli”, eseguito del 1972 in seguito alle drammatiche – e note – vicende che portarono alla morte di Galli.
All’epoca Baj, tra i protagonisti delle vicende artistiche d’avanguardia nell’Europa degli anni Sessanta e Settanta – la nascita della Patafisica, i contatti con Breton e i Surrealisti, giusto per citare due tappe essenziali del suo percorso – sentì il dovere di confrontarsi con la storia a lui contemporanea, mediante un processo di proposizione esemplare di un luttuoso fatto dalle infinite connotazioni di stampo politico e sociale. Questa icona dell’arte italiana del secolo scorso proprio in questi giorni è “tornata” nello spazio in cui era stata concepita, ovvero nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano. Torna a casa poiché proprio lì oltre quattro decenni fa Baj la installò, a stretto contatto con lo spazio frantumato e provato dai bombardamenti della celebre sala dove ha esposto anche Picasso durante la sua mostra degli anni Cinquanta. Maestosa, drammatica e polifonica nel corale grido di dolore muto dei personaggi raffigurati dopo aver digerito spasmi di iconografie legate proprio al capolavoro del maestro catalano, “Guernica” naturalmente.

Dopo che l’opera di Baj fu installata nella sala delle cariatidi, per uno strano scherzo del destino, a poche ore dall’inaugurazione fu ucciso il commissario Calabresi, che proprio sulla morte di Pinelli stava indagando. Perciò la mostra fu preventivamente chiusa “per motivi tecnici”. E saltò naturalmente anche la vernice.

Sagome ritagliate, tessuti, materiali polimaterici e senz’altro la pittura. Il collage di Baj è, coerentemente con il resto della sua produzione, denso di sollecitazioni tattili, eccessivo ma rigoroso, vivace ed energico. Ma soprattutto intimo, nonostante le dimensioni monumentali – oltre sette metri di larghezza – che preoccuparono non poco la moglie di Pinelli quando lui glielo propose come dono – quasi un “risarcimento” estetico a una dramma privato e collettivo – dopo la chiusura “forzata” della mostra a Palazzo Reale. Lei quindi non accettò, perciò l’artista penso bene di venderlo all’amico e gallerista Giorgio Marconi, che infatti lo acquisì senza esitare. Ovviamente i proventi furono destinati alla moglie e alle figlie di Pinelli, per “farle studiare”.

Ed è Giorgio Marconi, insieme a Dario Fo e alla vedova di Baj a introdurre il pregevole catalogo edito da Skira (Baj, un quadro. I funerali dell’anarchico Pinelli; 22,5×24 cm, 144 pp., 14 b/n brossura. Testi italiano/inglese) per questa seconda ‘visita’ dei “Funerali” nella sala delle cariatidi. Foto dell’allestimento del 1972, momenti del concepimento – Baj a lavoro nel suo studio tra fogli e piccoli pannelli dipinti come studi preparatori –, e un testo dello stesso maestro che esplicita con chiarezza la poetica di cui è intrisa la sua opera-manifesto, completano il ricco volume che propone anche le pagine b/n del (primo) catalogo.

Quello citato di Marconi, è un testo scritto da un amico, da un compagno sodale che ha collezionato a lungo le opere di Baj, e che da un po’ di anni ha proposto in dono l’opera a Milano per vederla esposta in permanenza in un adeguato spazio pubblico. E sarebbe interessante se le istituzioni ascoltassero la sua richiesta. “I funerali dell’anarchico Pinelli” meritano d’altronde la contemplazione perpetua del pubblico.

La mostra è aperta fino al 2 settembre ed è ad ingresso gratuito.