Da tanto, praticamente da un secolo, incarna nell’immaginario collettivo l’emblema dell’artista contemporaneo, nonostante siano trascorsi ormai quasi quarant’anni dalla sua morte. O meglio, incarna la “degenerazione” dell’arte contemporanea, con tutto il suo carico di occhi e nasi storti, corpi squadrati dipinti e rivisitati utilizzando punti di vista eterogenei e materiali feriali. Naturalmente parliamo di Pablo Picasso, a cui Palazzo Reale di Milano dedica un’ampia mostra retrospettiva con “capolavori” – così recita il sottotitolo – provenienti dal Museo Picasso di Parigi, in mostra fino al 27 gennaio. Sono i Picasso di Picasso, ovvero le opere che lui conservava gelosamente nella sua casa-studio. Rappresentano un percorso coerente, dagli esordi – con opere giovanili che ribadiscono quella predestinazione alla pittura che è stata sempre sottolineata in merito alla sua ricerca – alle ultime opere, che rivelano senza retorica una vitalità e una carica espressiva sempre esaltanti, nonostante fosse vicino ai cen’tanni. D’altronde è, come dire?, Picasso, il genio riconosciuto dell’arte del XX secolo, il maestro – anche a sua insaputa – di molti, di troppi, e precursore di tendenze, tra cui quella del collage e dell’utilizzo creativo di materiali riciclati, oggi tanto in voga.

È il piccolo dipinto dedicato alla morte del fraterno amico Casagemas, uno dei lavori più significativi del periodo giovanile, ad aprire la prima sezione dell’ampia esposizione. Difatti è l’ordine cronologico a scandire le sale, sempre accompagnate da apparati didattici legati agli step biografici e artistici del maestro spagnolo (è anche disponibile una videoguida da noleggiare all’ingresso della mostra, accanto alla biglietteria). Ma è la celebre Celestina a inaugurare il nucleo di autentici capolavori sparsi nelle sale – allestite con rigore minimale – del primo piano di Palazzo Reale. Opera fondamentale del “periodo blu”, rivela quell’attenzione psicologica e sociale della prima fase della ricerca di Picasso, così come il “periodo rosa” è sintetizzato dal raffinato dipinto intitolato I due fratelli, dove la purezza formale dei corpi giovanili, resi con pochi tratti, si associa a un’attenzione cromatica che poi aprirà per certi versi la strada al capolavoro cubista, Les demoisselles d’Avignon. Del periodo più celebre del maestro ci sono in mostra numerosi dipinti, alcuni di ampio formato, che rivelano una fase di ricerca frenetica, tra spazio e segno, su quella che poi diverrà una delle maggiori tendenze artistiche del secolo scorso. Ma Picasso, si sa, amava stupire, cambiare completamente genere, reinventarsi e soprattutto precorrere i tempi. E così, con un certo anticipo verso quello che poi sarà battezzato Ritorno all’ordine, ovvero quella tendenza a rientrare nei canoni della pittura che caratterizzò l’Europa e non solo degli anni Venti e Trenta, il grande Pablo ritrae il figlio Paul vestito da arlecchino e la compagna Olga su una poltrona fiorita nella sua “classica” compostezza. Ma poi la forma si scompone, la figura quasi si astrae, il segno ritorna veemente, il colore si fa irrealistico. Ed esplode, sempre con declinazioni nuove, la fantasia autentica del genio, in opere-manifesto, ma anche in opere secondarie. Perché naturalmente non si tratta “solo” di capolavori. D’altronde per capire un percorso così eterogeneo c’è bisogno anche di opere “minori”, ma non per questo secondarie rispetto ad una produzione così immensa. E poi ricordiamoci ancora una volta che sono i Picasso di Picasso. Sono quindi opere a cui il mastro teneva di più.

La mostra, promossa dal Comune di Milano e dal suo Assessorato alle attività culturali, è stata concepita con Sole 24 Cultura, che è anche l’editore del bel catalogo – ricco di apparati fotografici e documentari –, e vanta la collaborazione del Museo Picasso di Parigi. La curatela è stata infatti affidata a Anne Baldessari, direttrice dell’istituzione parigina. Nelle prime sale della mostra è invece visitabile la sezione didattica dedicata alla mostra del 1953 ospitata sempre a Palazzo Reale, dove è “tornato” nel 2001. A curarla è lo storico dell’arte italiano Francesco Poli, autore anche di un saggio dedicato a quella celebre mostra – arrivò persino Guernica – che segnò un momento fondamentale per l’Italia (e quindi per gli artisti) di allora.