Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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L’attuale crisi economica ha seriamente messo sotto scacco le modalità di comprensione e di misura dello sviluppo economico. Un numero crescente di economisti, sociologi e policy-makers suggeriscono a più voci che indici tradizionali del benessere, come il PIL, abbiano fatto il loro tempo e cercano di sostituirli con altre misure più ampie che riguardano la sostenibilità, la felicità o il benessere individuale.
Ne sono testimonianza le parole del premio Nobel Joseph Stigliz: “Ciò che misuri influenza ciò che fai. Se utilizziamo misure sbagliate, ambiremo a traguardi sbagliati.”
A tal proposito un primo elemento di riflessione riguarda la valutazione degli investimenti culturali. La mancanza, a tutt’oggi, di indicatori in grado di restituire la realtà del contributo delle varie dimensioni materiali e immateriali del settore culturale in termini di crescita é ormai oggetto di studi e di ricerche, congiuntamente con quei lavori che tendono a individuare per il futuro un indicatore diverso e complementare al PIL in grado di rappresentare più correttamente lo stato di salute, il benessere di una data società .
In effetti, data l’attuale crisi economica e sociale, il dibattito sulla cultura e sul ruolo che essa svolge all’interno dei meccanismi di sviluppo di comunità e Paesi – oltre che dei singoli individui che vi agiscono – è quanto mai vivace. In Italia il settore culturale è stato ed è oggetto di critiche e di tagli economici, in particolar modo nella passata legislatura, in quanto ritenuta cosa superflua o un lusso per pochi eletti. Questo si deve alla considerazione che essa sia esterna o legata, pur non condizionandolo, al cosiddetto Welfare State. Eppure la cultura si dimostra essere una necessità per la crescita di un individuo, di una comunità ineludibile al contesto socio – economico cui appartiene.
Nel nostro Paese il dibattito istituzionale e sociale sul settore culturale si è spesso arenato sul ruolo da essi svolto e su una contraddizione interpretativa, che vede la cultura da un lato come fattore di riconoscimento e di compiacimento narcisistico di una élite, dall’altro quale nuova interpretazione di fattori culturali legati inscindibilmente alla capacità di innovazione e al dinamismo di una determinata collettività.
La staticità della prima concezione è evidente nella scarsità dei feedback sulla economia reale, che un consumo unidirezionale – dallo sviluppo alla fruizione – è in grado di generare. Nonostante non sia del tutto improduttiva (un reddito elevato agevola un alto consumo di beni e attività culturali), quindi, questo tipo di concezione non è sostenibile nel lungo periodo perché non è dinamica, perché si basa su di un legame debole con lo sviluppo di un territorio, di un Paese legato cioè, a un epifenomeno sociale: il successo delle classi privilegiate.
La seconda concezione, viceversa, si basa su un binomio forte: capacità di innovazione e sviluppo. Questo legame forte si innesta su un circolo virtuoso e destinato ad autoalimentarsi e accrescersi in una dimensione sia sincronica, che diacronica. La teoria economica del dinamismo, proposta da Edmund Phelps fa riferimento alla fertilità dell’economia nello sviluppare idee innovative, che possano essere realizzabili con la tecnologia disponibile, ed anche alla capacità di selezionare idee sviluppabili. Per dinamismo non si fa qui riferimento soltanto alla capacità di aumentare la produttività, bensì al dinamismo sociale, alla fecondità di un Paese in termini di idee innovative applicabili sul mercato, nonché alla benevolenza dell’ambiente economico verso le nuove idee.
Secondo Phelps creatività e dinamismo sono legati alle istituzioni e ai valori, elementi cruciali della cultura di un Paese. Essi si intrecciano con il disegno economico del sistema Paese, determinando, infine, la capacità di innovare e crescere. Al contrario del dinamismo imprenditoriale, alla capacità di intrapresa e di avventura, la struttura profonda dei valori e delle istituzioni di un determinato sistema Paese non è facilmente individuabile, né è facile ricostruire il nesso causa – effetto fra le prime e le seconde.
La cultura può essere considerata come una matrice strutturale di relazioni e valori, che ha meccanismi principalmente non intenzionali, complessi e non gestibili in modo centralizzato. Insieme di attività espressive spontanee, la cultura nasce e si accresce in ambienti favorevoli al suo sviluppo, generando a sua volta altre nuove forme di espressione della creatività umana, innovando in maniera pervasiva la società tutta.
Uno studio realizzato da Kea nel 2006, per conto della Comunità Europea, mostra che le industrie culturali e creative sono composte da imprese altamente innovative, con un grande potenziale economico che contribuisce al 2,6% del Pil dell’UE.
Ma cosa si intende per “industrie creative”? Una prima definizione è stata elaborata ad opera della Creative Task Force del Dipartimento per la Cultura, Media e Sport del Regno Unito, a cui ha fatto seguito uno studio e un monitoraggio della performance dei settori creativi, intesi cioè quei settori di attività economica dove l’attività individuale, l’abilità e il talento sono gli input principali del processo produttivo e rappresentano un potenziale di ricchezza e crescita economica in termini di crescita della proprietà intellettuale.
Da tutto ciò emerge una relazione tra il miglioramento della forza lavoro, intesa quale risorsa umana, e la conseguente capacità di produzione positiva in senso economico. Riuscire a risolvere problemi, sfidare le proprie capacità, sviluppare nuove idee in un ambiente stimolante dona al singolo un senso di impegno e di crescita personale, che innesca un circolo virtuoso destinato a sfociare in innovazione creativa per l’industria e per la comunità stessa, destinataria finale della trasformazione degli input produttivi. Come reso evidente anche da uno studio del 2009 dell’Istituto Tagliacarne (in collaborazione con il Mibac), la creatività da un lato rientra negli input della cultura, ma dall’altro lato è questa ultima stessa a caratterizzarsi quale motore di sviluppo e potenziamento della creatività.
Ora, lo sviluppo delle industrie culturali e creative è caratterizzato da una evoluzione molto rapida, dovuta principalmente all’evolversi delle tecnologie digitali. Il vantaggio dell’ampliamento e del miglioramento dei contenuti culturali, dovuto alla presenza delle tecnologie dell’informazione nel settore culturale, è controbilanciato da una necessità più elevata della presenza di tali tecnologie all’interno del settore, che richiede maggiori investimenti. Questo si traduce in una difficoltà dovuta principalmente ai costi e ai tempi di attesa per registrare i flussi finanziari positivi. Per dirla con Keynes, se sul lungo periodo “saremo tutti morti”, il rischio è di non vedere il verificarsi degli effetti positivi sul lungo termine dei flussi finanziari dedicati alla cultura, a causa di uno “spread” temporale fra il momento in cui tali flussi vengono posti in essere e gli effetti positivi che ne susseguono. Inoltre le necessità tecniche specifiche che il settore manifesta mutano continuamente, generando un’ulteriore esigenza di formazione permanente al fine di una migliore corrispondenza tra l’offerta di competenze e la domanda del mercato del lavoro.
Come tracciare una via possibile di bilanciamento sostenibile nel lungo periodo fra offerta e domanda? Come evitare il pericolo del delinearsi di una forbice fra due tipologie di lavoro: quello altamente qualificato e quello scarsamente qualificato? Pericolo e contraddizione già espressa da Richard Florida nel suo The Flight of the Creative Class ed evidente nell’evoluzione attuale del mercato del lavoro dei Paesi sviluppati.
I continui progressi della tecnologia mettono in luce una esigenza ed insieme rispondono ai quesiti qui posti. Da un lato si evidenza la imprescindibile necessità di un sistema Paese volto a potenziare le occasioni di formazione continua, dall’altro il bisogno fondamentale di unire mondi che in Italia sono spesso distanti e non comunicanti fra loro: ricerca e impresa. Investire nell’impresa, includendo la formazione di start-up per lo sviluppo innovativo, accrescere la formazione professionale di alto livello, investire nella produzione di prototipi brevettabili e nella creazione di spin-off e altre applicazioni commerciabili sono elementi fondamentali su cui puntare per lo sviluppo del sistema Italia, da troppo tempo situato come “moderate innovator” nella Innovation Union Scoreboard dell’UE.
Non è un caso se, ancora l’UE, nel suo Libro Verde evidenzia in modo particolare l’importanza della cooperazione fra scuole d’arte e design, università e imprese per raggiungere l’obiettivo di una migliore corrispondenza fra offerta di competenze e domanda del mercato del lavoro. La cultura è in grado di impegnare risorse e competenze presenti in un determinato territorio, irrobustendo la creatività e la capacità di innovazione delle comunità con ricadute positive in termini di professionalità sui territori stessi. Ed è questo a dar luogo, infine, a una evoluzione di tipo endogeno dei sistemi economici locali verso uno sviluppo e una crescita sostenibili.