Fino al 27 Gennaio a Firenze, la mostra Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo  di Palazzo Strozzi è l’affresco di un decennio che porta addosso l’etichetta omogeneizzante del fascismo ed è un affresco che narra un decennio culturalmente più articolato e complesso,  oltre il modo in cui nel nostro immaginario siamo soliti inquadrarlo.

Forse tra quelle di quest’autunno non è la mostra di maggior richiamo, non è Picasso né Vermeer, non ci sono Cézanne né impressionisti sui manifesti a farne un sicuro successo di pubblico, ma “Anni Trenta” , organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi (a cura di Antonello Negri con Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti e Susanna Ragionieri per la sezione Firenze, con catalogo edito da Giunti) è una mostra interessante e stimolante: oltre  il valore degli artisti e la bellezza sospesa e spesso malinconica delle opere esposte, allarga l’orizzonte  su  anni ricordati per  e marchiati dal fascismo e tuttavia ricchi di fermenti creativi e dibattiti culturali, ricostruiti, pezzo dopo pezzo,  come in un mosaico o in un documentario.

È un’occasione rara, questa, per vedere opere che all’epoca furono al centro del dibattitto artistico, esposte in Biennali, Quadriennali e mostre sindacali, partecipanti ai premi e discusse sulle riviste: opere, fra gli altri, di Carrà, Morandi, de Chirico e Savinio, Carlo Levi, Casorati, Nathan, Achille Lega, Soffici, Sbisà, Thayaht, de Pisis, Scipione, Maraini, Campigli; opere, spesso in prestito da collezioni private e da bistrattati musei di provincia, che fanno pensare a quale valore si nasconda in quella fitta costellazione di presìdi di cultura di cui è punteggiato il nostro territorio, al di là dei musei pop e delle esposizioni-evento delle capitali.

La scelta di allestire dal punto di vista dei contemporanei contribuisce ad immergere il visitatore in quegli anni senza il filtro di categorie critiche successive, ma accompagnati da didascalie efficaci per contenuto e per grafica (tra cui ricordi di bambina di Franca Valeri e, più avanti, commenti di Dario Fo).

Nelle prime sale sono esposte opere raggruppate per  centri artistici (Roma, Milano, Torino, Firenze, Trieste) e già emergono eterogeneità e localismi, poi si passa ai giovani dove troviamo Guttuso e Pirandello, Licini, Birolli, Sassu, Cagli, Mafai e Marini, futuristi accanto ad astrattisti, inseriti nella categoria di “irrealisti” dalla critica del tempo e c’è un Fontana prima di Fontana, prima dei buchi e prima dei tagli. Si prosegue indagando il tema dei rapporti con l’estero, in particolare Parigi e poi con la Germania nazista, per concludere poi nella Firenze delle riviste e del Gabinetto Vieusseux diretto da Montale, del Maggio Musicale, di Ottone Rosai che in questi anni decora il bar della stazione di Santa Maria Novella (capolavoro anni’30 di Michelucci) e dipinge vicoli ombrosi e sospesi.

E sospese sono le atmosfere (come nello sguardo congelato della Donna al caffè di Donghi  o nel retro dell’Arturo Ferrarin di Wildt che sembra un grido senza bocca), quasi attese distanti dell’ormai prossimo disastro e di una frattura altrettanto prossima nell’arte e nella società.
Sezioni in cui il contesto storico-politico emerge con più forza sono l’arte pubblica, potente strumento di propaganda del regime, con uno sguardo sui cartoni di Sironi, Funi e Severini e contrasti con i premi Cremona e Bergamo e l’articolo di Interlandi sull’”arte degenerata” (etichetta che include persino Terragni poco dopo la costruzione della Casa del fascio di Como).

Ma non solo pittura e scultura, le brevi incursioni in campi affini restituiscono l’immagine di un’epoca alla soglia di un cambiamento: frammenti  di film e foto dalle Triennali del ‘33 e del ‘36 mostrano l’affacciarsi di un nuovo modo funzionalista  di abitare mentre nasce il disegno industriale. Tra design ed arti applicate si  fronteggiano lampade, sedie tubolari di Terragni, ceramiche Ginori disegnate da Giò Ponti ed un granchio inatteso di Fontana. L’allestimento qui si apre all’interazione, non ipertecnologica ma significativa, legata ai momenti epocali in cui la creatività si separa dalla manualità e la comunicazione diventa di massa: una stampante 3d per assistere alla realizzazione di oggetti (i propri il mercoledì) o la sala radio per conquistarsi 3 minuti di celebrità retrò con la propria intervista (riproposte giovedì su controradio).

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E mentre si ascoltano la magniloquente dichiarazione di guerra o Parlami d’amore Mariù , i cinguettii delle pause o, sulla lunghezza d’onda di 425 metri,  il primo concerto trasmesso dalla radio, l’atmosfera è quella di un tramonto.
Ed è un’atmosfera da ricercare e assaporare con lentezza, che permea la città, anche “oltre” lo spazio espositivo del Palazzo, per la rete di eventi e proposte collaterali di cui è intessuta: dai martedì al cinema Odeon ai cicli di conferenze, dai mercoledì di scambi linguistici di Let’s talk about art ai giovedì  di creatività e concerti in cortile, dal progetto A più voci per persone con Alzheimer ai laboratori per bambini di Mille e una storia, ideati dal Dipartimento educativo della Fondazione e dislocati nelle biblioteche, dall’ App che permette di confrontare luoghi di Firenze come erano negli anni ’30 alle visite guidate.
In questo senso la missione della Fondazione  “non solo mostre”  è perseguita con coerenza: dalla sua istituzione, nel 2006, (soci fondatori sono Comune, Provincia, Camera di Commercio di Firenze ed i partner privati di APPS) con una  governance basata sul partenariato pubblico-privato,  l’offerta culturale della città si è fatta più ampia e diversificata rispetto ai classici itinerari fiorentini, sia per chi torna a visitare Firenze (pur avendo già fatto la fila agli Uffizi e fotografato Santa Croce) sia per chi vive a Firenze (basti pensare alla risposta alla sete di contemporaneo della Strozzina, nei cui sotterranei si è inaugurata pochi giorni fa Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea).

Per approfondimenti:
http://www.palazzostrozzi.org/