A luci spente dietro le quinte del festival più frizzante dell’autunno milanese: una lunga conversazione con i suoi due direttori,  il duo Rossini/Beretta, sparring partners della kermesse meneghina, che a una sola voce riflettono sul Festival e sul suo rapporto con Milano, l’Italia, il Mondo. Una reale Impresa Culturale fatta di giovani che hanno idee chiarissime, visione internazionale, e voglia di dire la propria.

Direttori, com’è andata quest’anno?
Ogni edizione è una scommessa rispetto alla città e al riscontro del pubblico. Non abbiamo ancora dati definitivi sulle presenze complessive e i passaggi in sala (NdA: l’intervista risale al 9 ottobre 2102), ma già dagli abbonamenti venduti, riscontriamo una costante crescita. Ad esempio comparando i dati fra 2011 e 2012 sulle vendite pre-festival degli abbonamenti, abbiamo un netto rialzo. Il nostro pubblico è principalmente di milanesi, sebbene sia in aumento anche la presenza di persone che vengono da fuori.
L’identità però del MFF è ancora cittadina anche se da anni l’offerta è a livello internazionale.
MFF mantiene una dimensione capillare sulla città, anche perché con gli anni, abbiamo lavorato molto per incrociare fasce d’età diverse, dai giovani che ci seguono fin dagli esordi, fino ai cinefili maturi, grazie alla collaborazione con altre sale cinematografiche cittadine.
Viviamo una sorta di paradosso: normalmente chi va in sala ha un’età medio-alta, mentre si pensa che i giovani si limitino a scaricare i film dalla rete. Invece da noi va tutto al contrario!
Il programma ormai è strutturato in modo da soddisfare diversi pubblici e fasce orarie:il Lunedì pomeriggio alle 15 ha un timbro diverso rispetto al Sabato  sera. Coinvolgiamo la signora anziana, come il giovane universitario.

Il cuore dell’edizione 2012 è la rassegna Anni 80: come è nata l’idea?
Abbiamo visto i primi film fra i primi anni Ottanta e Novanta, decennio nel quale siamo cresciuti da spettatori, con un immaginario italiano che non ci fa impazzire. Volevamo capirci di più.
È sempre stato definito come decennio oscuro, opaco: invece abbiamo scoperto che è ricco di talenti, produzione e contenuti. Non potevamo non offrire il frutto delle nostre ricerche al Pubblico. È andata molto bene.
Normalmente il Cinema Italiano vive dell’eredità, a tratti pesante,dei Grandi Maestri, che vengono sempre riproposti e rivisti in rassegne. Ma il Cinema degli Anni Ottanta non si vedeva da vent’anni. Nomi come Francesco Calogero, Felice Farina, Gianluca Fumagalli non si sono più sentiti dai tempi dell’uscita dei loro film. Questo Cinema a suo tempo ha ottenuto un buon riscontro critica, ma il sistema non ha saputo diffonderlo. Sono dunque scomparsi dalla memoria anche con l’arrivo degli Anni 90, che hanno sancito lo stra-potere mediatico della TV con l’introduzione di un altro modo di vedere i film.

C’è un atto politico in questa scelta di approfondimento sugli Anni ’80, diciamo proprio adesso che qualcosa è cambiato nel sistema televisivo?
Effettivamente l’idea è nata in concomitanza della salita del Governo Monti, che simbolicamente ha chiuso una fase della nostra storia mediatica, dove la Politica ha sgorgato per anni dalla televisione. La decisione è stata però casuale. Non abbiamo mai voluto collegare le cose in modo diretto. Simbolicamente abbiamo sentito un cambio e abbiamo voluto tornare alle origini di quel percorso di ascesa dell’influenza televisiva.
Nella rassegna, c’è un film che più di tutti rappresenta quel momento, fra i più interessanti, ovvero Ladri di saponette di Maurizio Nichetti. Il lungometraggio fu finanziato da Fininvest che negli Anni Ottanta era anche un laboratorio di produzione cinematografica, supportando fra gli altri anche Salvatores con Kamikazen, ultima notte a Milano…era un’altra azienda.
Ladri di saponette non veniva diffuso da allora: racconta come la Tv abbia fagocitato il Cinema imponendo un’altra forma di visione allo spettatore, un’altra abitudine, con l’introduzione delle interruzioni pubblicitarie. Da allora l’andare in sala ha perso la sua importanza di evento sociale, per essere sostituito dal divano casalingo e da una certa fruizione passiva dello spettatore.
Lì si sono costruiti gli italiani di oggi.. o per meglio dire si sono addormentati!
Abbiamo impostato la Rassegna Anni ’80 come qualcosa che vada aldilà di un punto della situazione in chiave accademica-storica. È più una mappatura di tensioni dell’immaginario, ovvero di storie che si raccontano e di memorie che si disvelano: avevamo perso la memoria su quel periodo. Molte storie sono arrivate in corso d’opera, nel senso che sopraggiungevano dal racconto dei registi stessi che ci segnalavano nomi, cosa cercare, cosa riportare alla luce. Alla fine abbiamo raccolto una rosa di film così cospicua che abbiamo deciso di dividerla in due atti. Uno quest’anno e possibilmente la seconda parte per l’anno prossimo.

Perchè è nata a Milano?
Milano è la patria di un certo cinema indipendente un po’ auto-referenziale: le radici vanno individuate proprio negli Anni Ottanta, con la nascita del Festival Filmmaker, e con il contributo distributivo di Indigena, entrambe raccontate durante la nostra rassegna.
Rivedendo questi film e parlandone con autori, da Salvatores che è arrivato all’Oscar, a Gianluca Fumagalli purtroppo invisibile, l’opinione è comune: girare a Milano allora era facilissimo. La gara con i muletti in Stazione Centrale di Salvatores o le riprese sulla neonata metro – linea due di Fumagalli, sono state realizzate con richiesta di un semplice permesso. Al giorno d’oggi è difficile pensare di girare da indipendente ma anche con una produzione in città, le autorizzazioni non sono più così semplici, e sono complesse e costose.
Milano è un po’ ostile come set e molti registi milanesi, da Silvio Soldini a Alina Marazzi, sono migrati a Torino, o altrove.
Il cinema ha nuovi baricentri in Italia: Milano e la Lombardia forse hanno perso un’opportunità di protagonismo. Nel nostro piccolo ce ne accorgiamo anche noi: l’occupazione di suolo pubblico per la sistemazione di un maxi-schermo, anche a scopi culturali, prevede comunque un onere gravoso per noi che organizziamo il Festival.
Eppure ci sentiamo di offrire un servizio alla città: usiamo lo spazio pubblico per offrire cultura. Al parco Sempione si è creata una situazione così virtuosa che alle 2 -3 di notte dovevamo invitare le persone ad uscire, perché la percezione del luogo, di sera solitamente inaccogliente, era cambiata.

Milano può essere un baricentro, nel momento in cui riuscirà a creare una sinergia fra le varie realtà e non un clima di competizione. Ci sono 7 festival operativi in città, alcuni con una lunga tradizione. Troviamo, allora, un po’ provinciale che Milano viva del riflesso di altre kermesse riproponendone e sfruttandone il marchio in città.
Noi ad esempio proponiamo una selezione di 250 film, frutto di una ricerca inedita che ci occupa per un anno: molti di questi film non verranno distribuiti, lasciando il pubblico mancante di questa opportunità. Non mettere a disposizione questo patrimonio per la collettività è un peccato.
Quasi il 95% dei film che proiettiamo non va in sala: questo fa di noi un’eccellenza, ma dimostra la carenza del sistema cinematografico. MFF costruisce la sua visibilità all’Estero. Ha un nome sempre più riconosciuto nel circuito dei registi indipendenti. Si affezionano per la nostra formula informale: noi portiamo pubblico vero, ampio e non solo professionista.

Un commento sull’affollamento dell’offerta culturale cittadina in Settembre: le Vie del Cinema, Mi-To…
Nel caso delle Vie del cinema, Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera di Milano ha suggerito di aprire un dialogo con l’Agis che organizza la manifestazione veneziana per capire come risolvere la sovrapposizione di date. Ci proveremo. Dal nostro punto di vista, il brand cinematografico non è Venezia, o Cannes, o Locarno, ma Milano stessa con la sua indagine intorno al cinema e la sua offerta capace di soddisfare i giovani come gli anziani. Con Mi-To, abbiamo in passato già collaborato. Forse si potrebbero creare delle sinergie, più che altro per il pubblico. Avere troppe manifestazioni culturali in corso, staccate una dall’altra, finisce per pesare sul portafoglio, magari si potrebbe pensare a una card per i festival di Settembre.

Com’è il rapporto con le Istituzioni Pubbliche?
Dato che il MFF nasce come progetto indipendente, nel tempo ha creato qualche problema. Noi non siamo né accademici, né istituzionali, ma degli appassionati trentenni che parlano il linguaggio del contemporaneo.
Il Comune ci sostiene con un contributo, che ha decretato un riconoscimento istituzionale per la nostra iniziativa. L’impatto dell’evento sulla comunità è stato così forte che era difficile negarne l’importanza. Sicuramente lo scatto è avvenuto nel 2001, quando abbiamo avuto accesso allo Strehler, sebbene MFF sia nomade, senza fissa dimora.
Rispetto al potenziale di valore che produciamo, non abbiamo ancora un riconoscimento economico corrispondente.
Ogni anno il nostro impegno si profonde anche per la ricerca delle sale e il loro noleggio. Ogni qualvolta entriamo in una location, interveniamo tecnicamente per rendere agibile e fruibile lo spazio, con sistema di qualità: lo facciamo a nostre spese. Dunque riceviamo un contributo ma comunque dobbiamo corrispondere oneri per utilizzo degli spazi.
Pensiamo che in proporzione al potenziale di valore che produciamo, non abbiamo un riconoscimento economico corrispondente. Siamo valorizzati, ma in misura contenuta.
Otteniamo dal Programma Media della Comunità Europea, che eroga fondi per produzioni e festival, un riscontro di gran lunga superiore rispetto a quanto riceviamo da Roma. Riceviamo dall’Europa il massimo del bando, circa 35.000 Euro. Questo dato ci fa capire che all’Estero il nostro lavoro è riconosciuto e valutato di conseguenza. Certo, il Ministero della Cultura ha raddoppiato quest’anno il suo contributo, dando 15.000 Euro, ma è un po’ poco, anche a fronte della dispersione dei fondi da parte del governo centrale su realtà più piccole.

Qual’ è il vostro rapporto con i partner?
Abbiamo difficoltà nel costruire rapporti continuativi con i partner. Non c’è ancora una buona politica di de-fiscalizzazione sul contributo per le imprese culturali, come in tanti altri Paesi dell’Eu e del mondo. Non sappiamo dire perché questo tema non sia affrontato soprattutto in tempo di crisi.
A un’azienda non conviene ancora sostenere un festival, una mostra, produrre film. È anche vero che la crisi economica è  stata una sorta di pretesto per alcune aziende private per chiudere le collaborazioni. Spesso dipende anche da cambiamenti degli interlocutori: nuovi Brand Manager non sempre continuano sulla strada dei predecessori. In particolare abbiamo riscontrato una certa paura nell’investire su partner culturali indipendenti e senza nomi di richiamo. Molti puntano sulla stabilità e sul richiamo di un marchio storico. Bisognerebbe poter fare uno studio comparato su come negli ultimi 5 anni siano variati i partner di festival come Torino, Lecce, Firenze, Taormina, rispetto a quelli di Venezia. La scarsità di risorse rende più prudenti i partner, ma a volte ci sembra che l’imprenditoria italiana abbia perso un po’ coraggio.
Quest’anno alcuni partner hanno riconfermato la fiducia in noi, mentre ne abbiamo coinvolti di nuovi, ma generalmente la difficoltà rimane sempre quella di convincere che se anche non abbiamo le grandi star o non usciamo nella rassegna stampa di grandi testate nazionali, produciamo valore per le persone che ci frequentano. Il compito di un direttore artistico è mediare fra i suoi sogni e il budget disponibile: non possiamo però fermarci alle prime difficoltà. Ci troviamo già a lavoro avviato con un decimo del budget che ci serve: non per questo ci arrendiamo e facciamo di necessità virtù. In passato abbiamo sempre coinvolto registi stranieri per la retrospettiva, come nel 2011 Jonathan Demme, premiato con l’Oscar. Era la prima retrospettiva completa sulla sua opera e chiaramente ha impegnato una grossa fetta di budget. Nel 2012 abbiamo invece puntato a un lavoro con i registi italiani, facendoci conoscere sul nostro territorio. Proiettare Colpire al cuore di Gianni Amelio, che è anche direttore del Festival di Torino, e riceverne i complimenti da “collega”, nonostante la differenza d’esperienza e d’età, è decisamente una bella esperienza, che ti ripaga di altre difficoltà. Inoltre, la nostra proposta culturale trova riscontro anche all’estero. Ad esempio, abbiamo omaggiato il filmaker inglese Ben Rivers e poco dopo il regista è stato ospite al New York Anthology Archive, il tempio del cinema indie americano. In un certo senso, è la conferma che la nostra ricerca va nel senso giusto.

Che futuro prospettate per il Milano Film Festival?
Molti pensano che il festival potrebbe diventare una forma di distribuzione alternativa. In MFF mediamente ciascun film ha 3 passaggi per 700/800 spettatori: significa che ogni film può essere visto da 2500 persone. I film provengono da Paesi fuori dai circuiti prevalenti del cinema, come la Cambogia o il Kazakistan: per i registi è una grande opportunità. In più sono sottotitolati e al nostro pubblico questo non crea disagio; capiscono che se non li vedono qui, non li troveranno altrove. Speriamo, come quest’anno, che i distributori allarghino il dialogo anche con Festival come il nostro, riconoscendo la nostra posizione. I risultati di un film di ricerca affascinante come La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli, che ha fatto il tutto esaurito, sono stati un buon esempio di questo tipo di collaborazione. Avremmo potuto proiettarlo anche dieci volte e sarebbe andato altrettanto bene, perché crediamo di essere riusciti a promuoverlo nel modo giusto.

E come è nata la scelta del Festival diffuso sulla città?
Il nostro modello di riferimento è il Festival del Cinema di Berlino, che coinvolge più di trenta sale: parliamo di una metropoli europea dove i mezzi pubblici sono a disposizione per tutta la notte.
Per Milano è una scommessa, ma anche la volontà di arrivare al pubblico, alla cittadinanza.   Il cuore è ovviamente il teatro Strehler, insieme al Parco Sempione, ma con gli anni abbiamo attivato una rete di collaborazioni con Sale storiche delle città e cinema indipendenti che resistono alla logica dei multi-sala, rimanendo “istituzioni garanti” per il pubblico dei quartieri. Inoltre si è generato un ulteriore valore: lo scambio dei pubblici. I giovani vanno in periferia, e gli spettatori tradizionali delle sale vengono in contatto con film diversi dal solito, magari in lingua con i sottotitoli. Parliamo del Cinema Ariosto, della Sala Rosetum, del Cinema San Fedele e poi dello Spazio Oberdan e del Cinema Palestrina. Anche questo è un modo per riappropriarsi di spazi pubblici. Il nostro sogno sarebbe fare MFF nelle sale che hanno chiuso. Abbiamo corteggiato il President o il Manzoni, ma senza una volontà istituzionale l’entusiasmo dal basso non è efficace. Per creare un’alternativa alla riconversione di ogni spazio in negozio di moda, crediamo ci sia bisogno di un maggior dialogo. Quando sentiamo alcuni ventenni che dicono che Milano è bellissima durante il MFF e durante il Salone del Mobile, siamo decisamente orgogliosi, perché significa che creiamo memoria nella città. Abbiamo un impatto forte nell’immaginario a fronte di due budget, il nostro e quello del Salone, per nulla equiparabili. Per altri versi, ci sono delle debolezze su cui c’è ancora molto da lavorare, Milano, di fondo, per un pubblico di festival-goer – ovvero di chi frequenta i Festival – non è una città accogliente ed è costosa, oltretutto nelle date vicine alla settimana della moda le tariffe salgono enormemente. Anche per questo, quest’anno, è stato fondamentale l’aiuto del Comune per realizzare la Casa dei registi, un ostello dove accogliere gli ospiti e farli conoscere tra loro. Un progetto di accoglienza che il Festival pratica da anni, ma che per questa edizione ha trovato un supporto logistico da parte delle istituzioni di qualità. Far conoscere tra loro i registi crediamo sia una chiave per far girare le idee. Inoltre, rientra in certa idea di socialità e di riscoperta dello spazio pubblico a fini culturali tipica di esterni, l’associazione che produce il Festival e con cui collaboriamo da anni.

Vi sentite dei bamboccioni?
Per nulla. Certo, possiamo dire che per fare il Festival ci si deve mettere molta passione. Non abbiamo un cachet di livello istituzionale e entrambi, nella vita, abbiamo altri lavori. Ci impegniamo dunque nelle notti, nei week-end e ritagliando gli spazi per il festival senza sosta, animati da un grande entusiasmo. Siamo una squadra di trentenni, e anche meno, con una rete di collaboratori sparsi in Italia e all’estero e, durante la manifestazione, lavorano sul festival un centinaio di persone. Siamo quindi anche una giovane industria culturale. Alcune persone si formano da noi e poi seguono la loro strada, altre rimangono. Di fondo, però, essere giovani non dovrebbe diventare un alibi per non dare il giusto riconoscimento al valore che siamo capaci di generare.