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Accompagnata dalla musica del Trio Helianthus e dalle improvvisazioni al sassofono di Gabriele Coen, Galatea Ranzi rivive con “Le Parole sono un mare“, giovedì 22 novembre nella Sala Teatro Studio dell’Auditorium, le storie di vita quotidiana di Terenzio, Anna e un anonimo falegname che tra affanno e disincanto animano il ghetto di Roma tra Cinquecento e Settecento. Il testo, scritto da Ennio Speranza, è messo in scena da Stefano Cioffi.
Tafter, come mediapartner dello spettacolo, ha intervistato Ennio Speranza che ci conduce nel significato di questo spettacolo e nella valenza che esso, alla luce anche della guerra che si sta scatenando tra Israeliani e Palestinesi, trasmette.
Le parole sono un mare. Così si intitola questo coinvolgente spettacolo teatrale che metterete in scena all’Auditorium il 22 novembre a Roma. Qual è il significato intrinseco di questo titolo?
Il titolo, come nelle migliori tradizioni, si riferisce a una frase del testo, ma non vuole avere un significato preciso o univoco. Si parte da alcune considerazioni sulla trasfomazione del termine veneziano ‘ghet’, ossia ‘fonderia’, che per leggendaria metonimia ha indicato il sestiere in cui sono stati confinati gli ebrei a Venezia e che è finito per diventare un termine generale.
Nello spettacolo si rivive in particolare un data, il 26 luglio del 1555. Cosa accadeva in quel giorno agli ebrei romani?
Il 26 luglio 1555 fu il giorno in cui gli ebrei romani cominciarono a comparire in pubblico come il regolamento di applicazione della bolla papale “Cum nimis absurdum” prescriveva, ossia con un segno distintivo di colore giallo: un berretto gli uomini, un altro segno di facile riconoscimento le donne, cioè un quadrato di stoffa di un cubito e mezzo di lato, da portare intorno alla testa.
Come si articolerà lo spettacolo e come siete riusciti a far divenire attuali delle storie ebraiche accompagnate da musiche antiche?
Abbiamo scelto una strada che privilegiasse l’invenzione, il racconto quotidiano, la messa in scena di personaggi romanzeschi, ma in qualche modo aderenti alla realtà storica. Si tratta di veri e propri racconti o monologhi in miniatura intervallati da musiche attinenti e da brevissimi documenti d’epoca. Tra questi spicca la storia di Anna dal Monte, ebrea romana di 18 anni che nel 1749 fu segregata per tredici giorni con lo scopo di farla convertire al cristianesimo. Una prassi che all’epoca non era infrequente.
Quali sono le difficoltà che avete incontrato nella messa in scena dello spettacolo per quanto riguarda sia la regia che la recitazione e la musica?
Nessuna difficoltà vera e propria, le musiche si adattano magnificamente ai percorsi del testo. La recitazione aderisce a vari registri, ora leggero ora drammatico, e spesso si intreccerà con le musiche creando una sorta di scambio emotivo.