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MARFA GIRL
Regia di Larry Clark
Drammatico – 106′
USA 2012
La giuria del Festival, questa volta in sintonia con critica e pubblico, ha assegnato il Marc’Aurelio d’Oro per il miglior film a “Marfa Girl”, che più indipendente di così non si può: visibile da tutti i cibernauti solo su web, senza essere accusati di pirateria, dal 20 novembre sottotitolato in italiano.
Protagonista del film è l’adolescenza, tema caro al fotografo-regista e provocatore Larry Clark, autore di “Ken Park”. Ispiratrice del film è Marfa, cittadina del Texas, a pochi chilometri dal confine con il Messico, crocevia di diverse culture ed etnie (bianchi-americani e messicani-americani), luogo di conflitti, contraddizioni e atmosfere new age. L’adolescenza dunque quale età di confine vista in una terra di confine. Marfa è una cittadina di frontiera, con tutti i suoi problemi relativi all’immigrazione e ai contrasti tra i diversi ceti: artisti, poliziotti di frontiera bianchi ed ex immigrati, disoccupati.
Adolescenti che sperimentano la vita e i piaceri, sesso e droga, ma quali saranno i loro confini? Quando finirà la loro iniziazione e diventeranno adulti? Un’adolescenza che sembra non conoscere l’aids. Adam (Adam Mediano), un sedicenne di origini messicane che si fida ciecamente di Inez, la sua fidanzata, ma che non la ripaga con altrettanta lealtà o libertà, si lascia infatti sedurre dalla moglie (ragazza madre) di un galeotto. Un poliziotto bianco rigido conservatore ma con una personalità paranoica, con ossessioni sessuali, che tiene sotto controllo i giovani di Marfa ma più per soddisfare le sue perversioni che per mantenere l’ordine. Corteggia una cassiera ma con il solo intento di portarsela a letto, la divisa non potrebbe che avere la meglio sulla donna di colore, la violenza non è nelle scene ma nella schiacciante prevaricazione dei ruoli. In una cittadina che sembra immobile come il deserto che la circonda in realtà molte cose accadono. Una giovane e bella artista (Drake Burnette), ospite di una fondazione e cresciuta da un padre hippie, crede nell’amore libero portando scompiglio tra i giovani ispanici e si trova presto ad avere a che fare con il poliziotto deviato sessualmente. Personaggi borderline figli di una terra di confine. Larry Clark sembra voler soltanto fotografare la realtà di Marfa, un documentario senza una trama apparente, ma il suo obiettivo scava fino in fondo tutti i personaggi del film e la bella colonna sonora lega egregiamente le scene. Lui stesso ha dichiarato: “Sono stato un artista per molti, molti anni e non sono interessato a fare film per soldi”.
E LA CHIAMANO ESTATE
Regia di Paolo Franchi
Drammatico – 89′
Italia 2012
La stampa che ha assistito alla proiezione del film al Festival non è stata clemente, con i suoi fischi e insulti al film; identiche esternazioni hanno accompagnato la premiazione. Se i giornalisti si chiedevano quali fossero stati i requisiti di tale candidatura ora la critica ed il pubblico si interrogano sulle motivazioni dei verdetti della giuria.
Il film è la storia di un coppia di quarantenni uniti da un rapporto sentimentale apparentemente platonico. Ma non è il sesso che manca a Dino, lui lo soddisfa in modo compulsivo e trasgressivo con prostitute e scambisti, all’insaputa di Anna, con la quale ha soltanto un rapporto affettuoso.
Dietro Dino aleggia una personalità controversa e sofferente, ma di cui non si definiscono mai bene i contorni o le cause. Se visto in senso psico-patologico il suo comportamento è poco approfondito ed indagato: non è sufficiente il suicidio di un fratello a motivare una sessualità perseguita solo al di fuori del rapporto di coppia e che per esistere ha bisogno dell’assenza dei sentimenti. Su un piano più generale c’è il tema, socialmente rilevante, della sessualità, spesso maschile, vissuta in netta separazione dai sentimenti e, peggio ancora, all’insaputa del partner. Poco credibili appaiono infatti i rimorsi e l’amore di Dino nei confronti di Anna, la ricerca di un piacere trasgressivo è una libertà egoisticamente consentita solo a lui, con lei che non condivide le proprie fantasie o avventure erotiche. Dino non tenta in alcun modo di coinvolgere Anna nella sua sfera sessuale e magari farla diventare sua compagna di giochi piccanti: dice di amarla ma la lascia priva di piacere, escludendola da ogni suo desiderio. Sente Anna come qualcosa di suo, ne gestisce l’assenza di piacere o all’acme del suo delirio va alla ricerca di ex partner di Anna a cui proporre un incontro sessuale con lei, un cadeau per lenire i suoi sensi di colpa?!
Piuttosto banale è la personalità di Anna, speriamo non più attuale: lei ama incondizionatamente, passivamente Dino e si accontenta dei suoi “sono stanco” ogni volta che rientra in piena notte dopo scorribande sessuali, e quando vede sul telefonino l’altro mondo di Dino, anche se non si può definire una ‘scoperta’ perché chiunque si sarebbe posto interrogativi e avrebbe intuito il suo mondo parallelo. Si concede allora un’evasione con un improbabile ragazzo infatuato di lei. Ma non si tratta di una presa di coscienza cui segue una ribellione o reazione.
Non scandalizza il tema scabroso trattato – uomini che vanno con prostitute e club privé non sono eventi così rari – quanto il modo piuttosto superficiale con cui è stato elaborato.
Il tormentone della lettera attraverso la quale Dino racconta ad Anna la verità, che il regista Paolo Franchi ripropone per almeno quattro o cinque volte, toglie ai traumi di Dino ogni sofferta credibilità e autenticità al suo tormento interiore.
Si tratta di uno di quei casi in cui non basta il tema scabroso, l’audacia, o immagini che non lasciano spazio alla fantasia, a fare un film alternativo, originale, che emoziona o irrita. Qui i personaggi tutt’al più annoiano, stancando lo spettatore, con una ripetitività di situazioni, che nulla aggiungono alla storia.
Ci auguriamo che Nicoletta Mantovani, che ammiriamo per il suo coraggio ma che non sembra aver aggiunto un prodotto di qualità alla Pavarotti international, faccia parlare ancora di sé in futuro per opere degne di un nome così prestigioso nell’ambito culturale.
NARMADA
Regia di Manon Ott e Grégory Cohen
Documentario – 47′
Francia 2012
Narmada, da fiume sacro a “tempio dell’India moderna”, è arrivato al Festival. Il mediometraggio in concorso, di Manon Ott e Grégory Cohen, è stato proiettato al Maxxi, scelto quest’anno, oltre all’Auditorium, quale sede del Festival del Cinema di Roma.
Ai due registi, presenti in sala, va senz’altro riconosciuto il merito per la scelta di portare sugli schermi internazionali il problema sociale, economico e politico del progetto della costruzione di mega-dighe in India.
Il loro lavoro documentaristico dà tuttavia per scontati alcuni aspetti del problema, forse per il timore di giudicare e di non essere obiettivi nei confronti di un problema interno del subcontinente indiano, ma solo apparentemente.
Narmada è un fiume conteso tra i diversi interessi economici e i diritti della popolazione che, da sempre, vive sulle terre fertilizzate dalle sue acque. Narmada è un fiume di circa 1300 km che attraversa tre stati dell’India: Madhya Pradesh, Maharashtra e Gujarat, prima di sfociare nel mare a nord di Mumbay.
E’ uno dei corsi d’acqua più sacri dell’India: ritrovamenti archeologici dimostrano che le sue vallate erano abitate dal paleolitico ed è oggetto, dalla fine degli anni ’80, del Narmada Valley Development Plan (NVDP), un sistema di oltre 3000 dighe (di cui 30 molto grandi) che è destinato a cambiare l’idrologia e la morfologia del territorio circostante. Ma il problema non è soltanto ambientale: innalzamento del livello di umidità, l’aumento delle piogge e l’abbassamento della temperatura, con l’allegamento di vaste terre, riguarda oltre 3 milioni di persone che vivono in villaggi vicino al fiume.
Dal 1985-86 la gente che vive sul Narmada, gli adivasi, i Bhil e gli attivisti protestano perché la compagnia Narmada Hydroelectric Development Corporation (NHDC), che sta realizzando le mega-dighe (Sardar Sarovar, Maheshwar e Omkareshwar), ignora quanto decretato dal Narmada Water Dispute Tribunal che ha stabilito l’obbligo di dare a tutte le persone, obbligate ad un re-insediamento forzato, nuove terre almeno un anno prima dell’allagamento della zona da loro abitata.
Nel film il problema sembra toccare solo poche persone locali, ma è necessario ricordare che in India i cosiddetti tribali, definiti dal governo indiano scheduled tribes, sono complessivamente più della popolazione italiana, circa 90 milioni di persone.
Nel 1993 la Banca mondiale ha abbandonato il progetto della NHDC; nel 2000 una task-force di esperti internazionali, voluta dal Ministero dello Sviluppo tedesco ha dato una pessima valutazione del progetto e successivamente la Siemens ha rinunciato alla propria partecipazione.
Il territorio, uno di più fertili dell’India, è abitato da migliaia di famiglie di contadini che rischiano di venire annegate, rimanere senza casa e senza risorse economiche. Un dramma che rischia di fare più vittime di una calamità naturale come lo tsunami.
Il problema energetico ed idrico potrebbe essere risolto diversamente: il progetto presentato dal Narmada Bachao Andolan (NBA) prevede la costruzione di tante piccole dighe e lo sfruttamento dell’energia solare, di cui oggi l’India è un leader mondiale.
Molte proteste sono state messe in campo e molti attivisti sono stati arrestati, ma nonostante ciò le conquiste legali di tante battaglie non si traducono in fatti. Non è un caso il susseguirsi di diversi processi per corruzione legati alle dighe, di cui non è fatto cenno nel filmato. Nel 2009 le Autorità arrivarono ad ammettere che il reinsediamento ha riguardato solo il 3% della popolazione.
Per tali motivi, da anni, il NBA lancia la sua forma pacifica di protesta, quella insegnata da Gandhi, la Satyagraha (fermo nella verità): abitanti ed attivisti si immergono fino alla gola nel fiume minacciando di lasciarsi annegare se non vengono ascoltati, questo nel tentativo di contrastare l’innalzamento illegale dei livelli dell’acqua di queste mega-dighe. Tali proteste, l’ultima a settembre del 2012, non potevano essere, per ragioni di tempo, incluse nella pellicola, che però poteva risultare più incisiva attraverso maggiori notizie oppure l’uso di un ritmo più serrato, con sequenze meno lunghe e a volte ripetitive.
LE SPOSE CELESTI DEI MARI DELLA PIANURA
Regia di Alexey Fedorchenko
Sperimentale – 106′
Russia 2012
Se avete intenzione di non perdervi il film di uno dei registi più innovativi del Festival, “Le spose celesti dei Mari della pianura” sappiate che acquisterete un biglietto per un teletrasporto. Alexey Fedorchenko, che potremmo definire rappresentante della corrente: ‘realismo magico’, ha presentato finora i suoi film a Venezia per i quali ha ottenenuto sempre dei premi.
Le sue spose celesti ci conducono in un viaggio nelle terre lontane e innevate di Russia tra i Mari, una etnia dai tratti fortemente pagani, gente che sembra vivere nel periodo dell’infanzia dell’umanità, che dimora in case di tronchi di legno, dove contano gli istinti primari e la donna, madre-natura, fila le trame dei rapporti con gli altri: uomo, famiglia e società.
Si tratta di brevi profili di donne, ma la vera e stupenda protagonista del film sembra essere la natura. Una natura incontaminata, dura, glaciale, bellissima, dipinta come nei quadri fiamminghi dalla mirabile fotografia di Shandor Berkeshy. Le scene dei boschi di betulla, dai tronchi bianchi screziati di nero immersi in paesaggi innevati, bianco su bianco, sono natura in 3D che esce dallo schermo.
Una film antropologico e magico allo stesso tempo, dove la vita è scandita dai ritmi e divinità naturali, s’invoca la “madre della nascita” sotto un albero centenario, si fanno offerte a divinità naturali, si cerca di rabbonire una enorme betulla causa di disgrazie dopo che è stata offesa.
La sessualità è vissuta in modo naturale, spontaneo e senza inibizioni. Una donna-orco, Ovda, richiede anche lei un po’ d’amore e vuole passare una sola notte con il marito di una donna del villaggio. La moglie del prescelto rifiuta, ma anche lei dovrà rinunciare all’amore del suo uomo. Donne che desiderano sesso e sono felici dopo averlo fatto. Donne che fanno l’amore con la natura: come la giovane donna che offre il suo corpo nudo al vento e il suo amico scopre che non è la figlia del vento, ma la sua amante. Un film pagano, tratto dal libro di Denis Osokin, che ci racconta la vita dei Mari con le sue superstizioni. Sebbene il film sia costituito da 23 episodi, come i capitoli di un libro, mantiene la sua unitarietà. Deliziosa la carrellata finale delle attrici tutte in costume tradizionale.
MAINS DANS LA MAIN
Regia di Valérie Donzelli
Commedia – 85′
Francia 2012
La trentanovenne Valèrie Donzelli, che ha abbandonato i suoi studi di architettura per dedicarsi alla recitazione, ha iniziato con piccoli ruoli nel cinema e poi per farsi conoscere dal grande pubblico in televisione. Decisivo è stato l’incontro con Jérémie Elkaïm, suo compagno di vita e protagonista anche del film proiettato al Festival; insieme hanno scritto “La guerra è dichiarata”, apprezzato da pubblico e critica, ispirato alla vicenda autobiografica della grave malattia del figlio.
Mains dans la main è una commedia spumeggiante, raffinata, elegante, dall’inconfondibile tocco ed ironia francese. I due protagonisti sembrano gli eterni opposti inconciliabili: Hélène (la brava Valérie Lemercier) è la sofisticata direttrice della scuola di danza dell’Opéra Garnier, mentre Joachim (Jérémie Elkaïm) vive in periferia e lavora in un negozio di vetri e specchi. Lei, sola, nella sua vita dorata e lui in un appartamento sovraffollato (con sorella, interpretata da Valérie Donzelli, nipoti, cognato e nonna centenaria). I due si incontrano per caso e quasi per caso si baciano. Sembra che la storia tra loro debba finire lì, ma il bacio produce un sortilegio: non riescono più ad allontanarsi l’uno dall’altra e così le due vite apparentemente inconciliabili trovano dei compromessi esilaranti. Un nuovo bacio scioglierà l’incantesimo e lui potrà dire la frase d’effetto: “non ti lascio per allontanarmi da te ma per ritrovare me stesso”. Chissà quante donne l’hanno sentito dire?! Ma l’amore ed il destino non hanno ancora messo la parola ‘fine’ alla loro storia.
L’eleganza del film è dovuta anche alle diverse scene di danza che sapientemente intervallano la storia, piccoli quadri di Degas in una Parigi contemporanea.