Due rassegne di cinema indiano nel mese di dicembre in Italia: Bollywood al Teatro Quirinetta di Roma dal 29 novembre al 9 dicembre e River to River a Firenze dal 7 al 13 dicembre e poi a Roma al cinema Trevi dal 14 al 16 dicembre.
Ma perché tanto cinema indiano in occidente dove di certo non mancano film, festival e rassegne?

Per capire cosa significa il cinema per gli indiani, basterebbe fare l’esperienza di vedere un film in una sala indiana, dove lo spettatore non è passivo ma interagisce con il film: la gente canta perché già conosce le canzoni dei film trasmesse in anteprima alla radio o in televisione, piange alle loro storie, recita le battute più famose. In alcune zone remote del subcontinente il cinema, proiettato anche su un telo con il pubblico seduto a gambe incrociate a terra, è stato una fonte di informazione, di rappresentazione della realtà o dei sogni della gente. L’India può vantare dai 13 ai 15 milioni di spettatori al giorno e una produzione annua di circa 1.000 film, superiore a quella americana. Inoltre sarebbe più corretto parlare di cinematografie indiane, in quanto l’India è una repubblica federale con 26 governi statali e con 20 lingue ufficiali e ogni regione produce film nella propria lingua che si fonde sempre di più con l’inglese, formando un nuovo “hinglish”(da “hindi” e “english”).
La produzione del cinema indiano era già stata apprezzata all’estero ai primi del ‘900, con film in cui le parti femminili erano recitate ancora da attori maschili, il primo film a soggetto mitologico Raja Harishchandra del 1913 di Dada Sahab Phalke, tratto dal Mahabharata (in programma nella rassegna di Firenze domenica 9 dicembre), ricevette critiche favorevoli anche fuori dai confini nazionali. Già all’epoca i film muti non mancavano di rappresentare alcuni intervalli di varietà con danze e musica, perché la musica ha sempre fatto parte dell’estetica indiana e non è solo un’acquisizione recente di Bollywood. La danza e la musica sono vissute come forme di linguaggio alla stregua dei dialoghi.

Il cinema indiano ha conquistato già molti paesi esteri, oltre quelli dell’estremo Oriente: Africa e Medio Oriente in cui film indiani vengono programmati regolarmente, i paesi dell’Europa dell’est, e negli ultimi anni Stati Uniti ed Europa occidentale. All’inizio il pubblico estero era costituito principalmente dai Non Resident Indians, emigrati in occidente con la nostalgia della Madre India ma in seguito dopo l’onda New Age, la diffusione delle discipline e filosofie orientali (yoga, meditazione etc.) gli occidentali hanno dimostrato di apprezzare il cinema indiano che ha prodotto un giro d’affari enorme. Inizialmente i film indiani sono stati proiettati principalmente nel circuito dei Festival internazionali. Quest’anno a Cannes erano presenti diversi film ed intere rassegne dedicate sono diventate regolari appuntamenti, non solo per addetti ai lavori ma anche per il grande pubblico. Originariamente i Festival prediligevano i film d’autore indiani (con la meravigliosa fotografia in bianco e nero, carica di suggestioni), rispetto a quelli di puro intrattenimento stile Bollywood (fusione tra Bombay e Hollywood) basati sulla formula masala (in hindi “miscela di spezie”) che iniziano nel dopoguerra: storie semplici, romantiche, a lieto fine, forti passioni, melodrammi, con un numero minimo di canzoni accompagnate da danze e siparietti comici intrisi di una visione del mondo induista. Come noi abbiamo avuto il cinema dei “telefoni bianchi”, l’India ha creato Bollywood, finalizzata all’evasione, a far dimenticare i problemi della povertà, anche attraverso locations lussuose o paesaggi turistici internazionali, come le Alpi svizzere o Venezia.
La leadership indiana ha presto compreso la funzione di questo straordinario strumento di comunicazione, e istruzione, e dagli anni ’60, ha programmato una serie di investimenti a favore del cinema, con lo scopo di promuovere la propria immagine all’estero.

Ma il cinema d’autore, che si rivolge alla mente dello spettatore, ha un pubblico limitato e dopo che Bollywood, attento alla reazione emotiva dello spettatore, è entrato in crisi negli anni ’80 (i ¾ della produzione non raggiungeva le sale), si è affermato, soprattutto a livello internazionale il “cinema di mezzo” (Mira Nair, Deepa Metha), un compromesso tra il cinema d’autore/sperimentale e quello commerciale indirizzato a soddisfare i gusti del pubblico, con maggiore attenzione agli incassi. Nel 1983 Gandhi, film anglo-indiano, vince l’Oscar. Dalla new economy degli anni ’90 il cinema indiano ha tratto nuovo impulso, indirizzandosi verso tematiche più aderenti alla realtà: conflitti generazionali, i problemi degli indiani all’estero, i matrimoni combinati (tradizione ancora praticata in India), i problemi dell’urbanizzazione, la condizione della donna etc. Gli investimenti esteri hanno determinato un ampliamento dei suoi generi: gialli, film di fantascienza, polizieschi, drammatici, storici etc., andando incontro ad un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo e iniziando ad avere la considerazione della critica internazionale più esigente. Sembra finita così la dicotomia tra cinema commerciale e cinema parallelo.
Il segreto del successo della settima arte indiana anche in occidente risiede, oltre che nell’imponente macchina produttiva, nella realizzazione di prodotti ben confezionati che nulla hanno da invidiare, in quanto a linguaggio e tecniche cinematografiche, ai prodotti americani. Si tratta di film in grado di essere apprezzati da un vasto pubblico, che fanno divertire, curatissimi da un punto di vista musicale e coreutico, capaci di toccare i sentimenti e le emozioni della gente, divenendo così il luogo dove si avverano i sogni dell’uomo comune, dove la giustizia trionfa. Un esempio su tutti, il film della regista Mira Nair, che vive all’estero dal 1976: Monsoon Wedding, premiato a Venezia (2001), nella formula masala. Questo film ha avuto più successo tra il grande pubblico del suo più impegnato Salaam Bombay! (premiato a Cannes), film realista sui bambini di strada dell’odierna Mumbay, che ha ottenuto come risultato la creazione della fondazione Salaam Balak, con diversi sedi in India, per i bambini di strada.

Molti registi indiani vivono all’estero e quindi ben conoscono la cultura, i gusti delle popolazioni non indiane e sono estimatori del cinema occidentale: non a caso le commedie sentimentali del cinema americano e francese sono state una fonte di ispirazione per film indiani di successo. Inoltre le multisale hanno favorito una diversificazione dei prodotti. Rimane una perplessità nei confronti di film sempre più occidentalizzati: riuscirà il cinema indiano a non perdere la propria autonomia e cifra stilistica nel suo andare incontro ad un pubblico sempre più globalizzato? Un esempio, sono inglesi sia il regista che lo sceneggiatore del film premio Oscar The Millionaire (Danny Boyle, e Simon Beaufoy) ma in molti sono convinti di aver visto un film indiano, senza sapere che l’unica sopravvivenza indiana, oltre l’ambientazione, è la musica!