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Un sabato piovoso, di fronte al Pantheon: un figurante come gladiatore, le carrozze romane e un centinaio di archeologi, alcuni muniti di elmetto, che parlano ad un megafono e sorreggono striscioni.
“L’archeologia non è una merce”, “Diritti di maternità per le archeologhe”, giovani venuti dalla Sicilia, da Napoli, da Caserta, dalla Toscana che, attraverso un megafono raccontano le esperienze di chi, laureato, specializzato e dottorato, si trova a combattere per avere più diritti, per essere tutelato in un mercato di appalti al ribasso che minano la professionalità ma anche la sopravvivenza di una figura fondamentale per la tutela del patrimonio archeologico.
Tempo fa abbiamo parlato dell’anomalia italiana che non riconosce legalmente una professionalità preziosa in un paese come il nostro.
Nel 2008, a seguito della prima manifestazione degli archeologi, era approdata alla camera dei deputati la proposta di legge “Madia” che prevedeva il riconoscimento della figura professionale di archeologo e il suo inserimento nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, mentre ora l’obbligatorietà di una valutazione di impatto archeologico redatta da un professionista è prevista solo nel Codice degli Appalti.
Da allora tutto tace in Italia: non si è fatto alcun passo in avanti e così, nella piena anarchia, le tariffe si abbassano e l’assenza di una cassa sanitaria ti costringe ad andare in cantiere con la febbre per non perdere la “giornata”. Per le donne la situazione è anche peggiore, come sempre in Italia; non esistendo la professione non c’è alcun diritto di maternità, ed è spesso difficile per una mamma archeologa, dopo un periodo di assenza dal lavoro, ritrovare “il giro” e ottenere nuove commissioni.
Quello che ci si aspettava dal ministero era, inoltre, la ratifica della convenzione della Valletta siglata nel 1992 nella quale si stabilisce che chi opera nelle trasformazioni del territorio deve farsi carico degli oneri della tutela archeologica prevedendoli già a monte del bilancio le risorse necessarie. Le indagini archeologiche, se accuratamente programmate e finanziate, sono fonte di conoscenza e rappresentano un’opportunità lavorativa al contrario di quanto si continua a far credere dipingendole come un ostacolo alla realizzazione di nuove opere.
Così l’ANA, l’associazione nazionale archeologi, ha organizzato una giornata di protesta che si è conclusa con un simbolico incatenamento degli archeologi tra le colonne del pronao del Pantheon, un gesto per dimostrare che si sentono legati da un Ministero indifferente.
L’adesione alla manifestazione non è stata quella che molti speravano, a causa del mancato coinvolgimento da parte dell’ANA delle altre associazioni di categoria, e le forte critiche rivolte da queste ultime nei confronti della manifestazione stessa.
Le altre associazioni CIA, CNAP e FAP hanno guardato con sospetto alla manifestazione vista l’assenza dell’ANA dal tavolo di lavoro comune. Il sospetto non è riuscito a tramutarsi in un’adesione disinteressata, né ha spinto le altre sigle a cercare un dialogo con l’ANA per la causa. Ognuno fermo sulle proprie posizioni, nessuno ha fatto un passo verso una lotta comune; così la strada per le lotte degli archeologi si mostra sempre più in salita e disseminata di ostacoli.