Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Già Charles de Bonstetten, letterato svizzero vissuto a cavallo del XIX secolo, pensava a un giardino inglese dove conservare esempi di abitazioni di ogni paese europeo. Amico di Madame de Staël, influenzato dunque dal primo romanticismo, mirava a uno studio e al tempo stesso a una conservazione etnografica della vita rurale.
Solo nel 1891 verrà però inaugurato Skansen, su idea di Artur Hazelius, sull’isola svedese di Djurgarden, prima forma di ricostruzione di ambienti popolari per preservarne non solo l’architettura ma anche la cultura. Questo sono i musei a cielo aperto: celebrano le comunità rurali attraverso folklore, musica, abitazioni, tessuti, mobili. Una forma di dovere sociale di preservazione e valorizzazione delle forme di cultura popolari.
All’inizio era la Scandinavia a creare (o ricreare) strutture con funzioni pedagogico-illustrative; solo nel 1918 si crea il primo museo open-air fuori dalla zona nordica, in Olanda. La moda si diffonde in tutta Europa, spontaneamente fino al 1956, quand l’ICOMOS detta delle prime direttive poi stigmatizzate nel 1958 in principi per organizzare i musei open-air.
Oggi la lista è lunga: dal Lychnostatis cretese allo Zaanse Schans olandese, dal torinese PAV allo Steam inglese al Kiroshima Open air, in Giappone. Skansen è ancora oggi un modello di business vincente. Conta 1.3 milioni di visitatori ogni anno e la sua è un’offerta culturale in sintesi molto semplice. Far rivivere, dare l’impressione, della Svezia del 1800. Ci sono i pecorai e le anziane che fanno caramellare le mele, ci sono le case in legno al cui interno le giovani ragazze dalle bionde trecce tessono coperte di lana spessa, ci sono attività dedicate ai bambini.
Sono ancora formule vincenti? Sebbene continuino a diffondersi, in forme e modalità differenti, sono davvero il modo più efficiente di fare cultura – e turismo – preservando un’eredità architettonica-sociale? Forse il loro business può essere rielaborato e promosso all’interno di un senso ancor più ampio di turismo culturale.
La cultura deve fare proprie le logiche di impresa: perché non guardare allora a una forma di lucro che rielabora il concetto di museo open-air? E’ il caso degli alberghi diffusi locati sull’Appennino del sud Italia, ove Daniele Kihlgren si è fatto portatore di una mission di recupero e redestinazione ricettiva di alcuni borghi storici.
Il paradosso del diritto dei beni culturali nella doppia formula di protezione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici forse trova una chiave di lettura proprio nella formula di albergo diffuso. La compenetrazione in esso è enfatizzata in vista della fruizione del pubblico (turista). E’ una fruizione non prettamente museale, ma occorre forse disquisire sull’importanza dell’avverbio in questione.
Davide Kihlgren crede nell’integrità tra costruito storico e paesaggio circostante, nell’esistenza di un patrimonio storico minore da preservare e valorizzare, e il mezzo è la promozione turistica. L’approccio di tutela sposa il turismo come traino all’economia (dati non verificati trasmessi dall’associazione Sextantio indicano una proliferazione di 15 hotel nella zona limitrofa abruzzese, senza contare l’impiego delle persone all’interno della struttura e i vari outcome economici e sociali).
La conservazione delle tracce di vissuto, addirittura sugli intonaci, è totale; la tutela del borgo storico e del paesaggio agrario passa attraverso la memoria degli anziani, che tramandano le ricette con i prodotti del territorio e le abilità artigiane nel recupero dei mobili e nella tessitura. Tutto il borgo è interessato: l’hotel ha una struttura centrale ma è disseminato per le case disabitate, che grazie all’intervento di recupero rivivono conservando la cultura popolare originaria. Non è forse una sublimazione degli intenti etnografici dei vari De Bonstetten, Hazelius e filantropi tardo romantici? Stuzzichiamo la cultura perché essa sia vincente: un borgo rianimato da camere d’albergo può essere museo.