“La cosa più dura è tornare sempre a scoprire ciò che già si sa”. Questa è la citazione con cui si apre il 25esimo Rapporto Eurispes, quasi mille pagine che fotografano, come ogni anno, quali sono i pensieri e la percezione che gli italiani hanno di sé, ma soprattutto come si comportano. Un’indagine che va dall’economia, alla politica, ma che ritrae in particolar modo l’andamento della società italiana, i suoi timori, vizi e virtù.

E la fotografia scattata da questo rapporto, che sancisce il quarto di secolo dell’istituto che lo ha redatto, non è tra le più incoraggianti. Se la ricchezza di un paese consiste nel puntare sulle proprie risorse umane, dotate delle capacità per far crescere l’economia (non a caso i paesi in crescita oggigiorno sono quelli che hanno ridotto al loro interno le diseguaglianze sociali), l’Italia non sembra seguire questa tendenza.

Un paese vecchio, sfiduciato, maschilista, con una forte emarginazione sociale e con un sistema di informazione troppo strumentalizzato dalla politica. Questa potrebbe essere la sintesi delle mille pagine di tabelle, percentuali e relazioni. Ma andiamo con ordine:

 

Donne

A riprova che spesso la donna lavoratrice deve fare una scelta tra la sua carriera e gli affetti domestici, la percentuale della classe dirigente al femminile nel nostro paese è del 35,5% contro il 64,5% degli uomini (un calo rispetto al 2010 quando la percentuale aveva raggiunto il 37%). Questo non significa che le donne non abbiano intenzione di lavorare: a causa della crisi economica (nel 2012 7 italiani su 10 hanno visto nettamente peggiorare la propria situazione economica personale), infatti, la tipologia dei contratti al femminile full time è arrivata al 92,3% e le donne nella pubblica amministrazione sono il 55% del totale. Lavorano quindi, ma raramente riescono a raggiungere le posizioni di comando ancora riservate all’universo maschile: non a caso su 5.560 individui che contano in Italia, le donne sono il 15%, mentre gli uomini l’85%. Il 50,9% delle lavoratrici non è soddisfatta della propria retribuzione, solo il 49,5% considera i propri orari giornalieri soddisfacenti, mentre il 63,2% non si sente realizzata per la propria carriera. Il 40%, infine, non sente valorizzate le proprie capacità.

Lavoro

Il tasso di disoccupazione è aumentato dal 6,1% del 2007 all’11,2% (dato Istat aggiornato al 1 febbraio che segnala 3 milioni dei senza occupazione in Italia). Il lavoro viene considerato tra gli Italiani una priorità, e non a caso questi dati rappresentano la preoccupazione principale tra l’opinione pubblica. Il clima di incertezza lavorativa rende gli italiani sfiduciati per la realizzazione dei progetti futuri (il 64,1% risponde negativamente, il 24,5% per niente, il 39,6% poco). Non solo: sembra che la pratica della raccomandazione non stia perdendo la sua efficacia. Il mercato del lavoro infatti pur essendo in piena crisi si conferma assoggettato al sistema delle conoscenze secondo il 44,5% degli intervistati (solo 17,4% non è d’accordo con questa affermazione). Non a caso il 21% ammette di aver trovato il posto di lavoro tramite raccomandazione, mentre il 27% ha inviato una semplice candidatura spontanea (solo il 5,1% si è rivolto invece ad una agenzia per il lavoro).

Giovani

Se la penuria di lavoro è il cruccio degli italiani, ancora più preoccupazione desta la disoccupazione giovanile, arrivata al 37,1% . Sempre più giovani decidono, inoltre, di non proseguire gli studi universitari proprio perché sfiduciati da uno scenario in cui i laureati disoccupati (18%) superano il tasso di diplomati disoccupati (12,6%). L’università italiana ha visto perciò notevolmente ridurre il numero delle iscrizioni, calate di 60mila unità negli ultimi 10 anni. Anche nel settore della ricerca la situazione per le nuove generazioni non sembra migliorare: tra coloro che hanno ottenuto il titolo di dottori di ricerca nel 2010 il 10% si è recato all’estero per continuare la propria carriera universitaria (nel 2006 era il 7%). Tuttavia, per ammissione dello stesso Istituto Eurispes non è possibile effettuare una stima specifica, dal momento che nel nostro paese non esiste un registro che riporti e censisca il flusso di ricercatori che lasciano l’Italia. “Quello che emerge è che coloro che hanno sviluppato un alto livello di specializzazione e formazione dimostrano maggiore propensione ad emigrare per migliorare le proprie opportunità professionali – come recita il rapporto- e il bilancio dei ricercatori in entrate rispetto a quelli in uscita nel nostro paese risulta essere decisamente in deficit: se il 16,2% lascia l’Italia, solo il 3% sceglie il nostro paese per attività di ricerca”. Inoltre, una volta emigrati, difficilmente i nostri ricercatori decidono di rientrare in patria. Non solo ricercatori, ma anche lavoratori qualificati e laureati eccellenti: dal 2002 al 2011 è infatti triplicato il numero dei laureati che ha lasciato l’Italia per cercare un’occupazione professionale soddisfacente all’estero. Secondo l’Istituto per la competitività (Icom) questa fuga dei cervelli costa all’Italia 1,2 miliardi di euro, spesa destinata a crescere nei prossimi anni. Se tali flussi resteranno immutati, entro il 2020 lasceranno l’Italia 30.000 ricercatori, a fronte dei 3.000 che arriveranno. Che l’Italia non sia un paese per giovani lo confermano i dati sull’età della classe dirigente italiana: il 79,5% di loro ha infatti più di cinquant’anni (dal 1992 ad oggi l’aumento degli ultrasessantacinquenni è passato dal 25,2% al 39,3% )

 

Immigrazione

Il tasso di immigrazione è cresciuto in maniera costante tra il 2009/2011 e oltre ad aumentare il numero di minori in arrivo nel nostro paese sono cresciti anche gli stranieri istruiti che migrano in Italia. Pur essendo il lavoro la motivazione principale che spinge gli immigrati a scegliere la penisola italiana (concentrandosi in particolar modo in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Lazio), una volta giunti gli immigrati rinunciano alla propria professionalità, collocandosi principalmente nel settore dei servizi che ha assorbito il 57% dei lavoratori stranieri nel 2010. Gli immigrati, inoltre, risultano ottimi contribuenti e sempre più spesso sposano il sogno di acquistare una casa

 

Mezzi di comunicazione di massa

Il calo dell’interesse da parte dell’opinione pubblica di quanto scritto sulla carta stampata è palesemente testimoniato dal calo delle vendite dei giornali: la diffusione media giornaliera è scesa infatti a 4,5 milioni di copie. Il 37,9% afferma di non comprare mai un quotidiano, mentre il 22,3% si documenta principalmente online. Questo è dovuto soprattutto al fenomeno dell’informazione auto-organizzata: sempre più spesso infatti le notizie vengono diffuse attraverso il web da cittadini ed utenti (il citizen journalism) e trasmessi in maniera virale grazia all’ausilio dei social network. Forte l’impatto dell’utilizzo del cellulare, in quanto strumento principale per creare comunicazione immediatamente fruibile. L’informazione è quindi non più basata sull’utente che passivamente riceve le notizie, ma che partecipa attivamente, sfruttando le potenzialità di internet. Questo fenomeno da una parte risulta essere rischioso per la veridicità delle notizie diffuse, dall’altra però denota però una crescente sfiducia da parte del cittadino nei confronti dell’informazione istituzionale, orientata ad influenzare l’opinione pubblica e avvertita da quest’ultima eccessivamente influenzata dalla politica: in particolar modo questa manipolazione è percepita per la televisione.