Il Teatro dei Conciatori è in una traversa di Via Ostiense: è raccolto, luminoso, accogliente con locandine colorate appese ovunque che raccontano la storia di un teatro indipendente. Il palco è un cubo, è la superficie alta del cubo, nera, sopra una sedia trasparente: è questa la scenografia scelta da Marini per la messa in scena del testo di Vittorio Moroni, presentato come reading da Isabella Ferrari al Teatro Belli nel 2011, e ora interpretato da Luca De Bei, già finalista al Premio Riccione Teatro nel 2011.
Un monologo che fa leva su corde intime e sulle gabbie create dal nostro tessuto sociale. Luca De Bei, vestito di bianco, racconta il passaggio, il viaggio come lo chiama, che Andrea intraprende per diventare Aurora, il dolore e la forza di perseguire qualcosa che più che un sogno appare una necessità, quella di diventare donna per poter essere se stessa.
Luca De Bei calamita il pubblico e lo trascina nella sua prospettiva, lo porta dentro i suoi occhi.
“Essere se stessi costa”dichiarava Agrado nel film di Almodovar, enumerando i pezzi di corpo ritoccati e presentando il listino prezzi della chirurgia estetica.
Andrea esplicita i costi emotivi per diventare Aurora, l’emozione dopo ore di seduta nel vedere sparire la barba da 1 cm del viso e subito il dolore del sentirsi rifiutato dalla società, dalle maestre del figlio che dicono che è meglio se ci va la mamma a prendere il figlio a scuola. Il conflitto presente nel testo è sempre questo: Aurora che emerge, che si affaccia al mondo centimetro per centimetro e il mondo che le distrugge uno a uno i suoi punti fermi, che le porta via le persone più importanti, il lavoro. Ma c’è una forza incredibile che non abbandona mai questo personaggio, c’è una convinzione di riprenderselo il mondo e di renderlo accettabile che non lo abbandona mai, come le mani e i piedi di Andrea, che Aurora non potrà né perdere né modificare e che sono parte di lei, come tutto il resto, come gli occhi, l’unica parte di noi che se uno li sa guardare diranno sempre chi siamo.