Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Tra Scilla e Cariddi si cucina tanto e si parla in continuazione di pietanze, pranzi e cose conviviali. Buon segno? Chissà. Sicuramente sulla sponda siciliana, all’ombra di una pineta enorme e protetti dalla falce del porto, si trovano ricette semplici ma di grande effetto. Tra i piatti più amati dai messinesi brillano gli involtini di carne, che sotto la mera etichetta di “braciole” rivelano l’intelligenza della cucina povera. Pochi ingredienti, un po’ di maestria nella preparazione, e possibilmente un rudimentale barbecue (nell’idioma locale “u fucuni”) per mescolare il sapore della carbonella con il ventaglio dei blu che affrescano il mare dello Stretto. Gli involtini sono ben più che una pietanza. Molte infanzie, adolescenze ed età mature sono state segnate dalle “braciolate” settembrine in campagna, a suggellare un’estate in uscita e affrontare con la giusta energia il ritorno in città.
Ingredienti:
Gli ingredienti non si possono misurare, qui conta l’occhio e la mano dell’artefice. Servono poche cose: fettine di carne (manzo o vitella, ma ci si avventura anche con il maiale, che non sbaglia un colpo), pangrattato, pecorino grattugiato, olio in quantità, un tocco di caciocavallo ragusano. La cosa ha i suoi profili rituali. La carne va tagliata a fettine minime e battuta con decisione in modo da sfibrarla e renderla tenera. In una ciotola si mescolino pangrattato, pecorino e olio fino a ottenere un ripieno non più secco ma non ancora troppo umido. La cosa si può arricchire con degli atomi di aglio e qualche brandello di prezzemolo, e naturalmente è il caso di non lesinare il sale. Questo basta, anche se non manca chi aggiunge pezzetti di pomodoro, prosciutto cotto e quant’altro, violando di fatto la logica della pietanza.
La preparazione:
Stendere una fettina, passarci sopra le dita oliate, deporre un gruzzolo di ripieno, mettere un tocco di caciocavallo e arrotolare. Per la riuscita occorre piegare i bordi a tasca mentre si arrotola: il pollice e l’indice fanno girare la fettina, il medio piega il bordo verso l’interno, l’effetto è un involtino opportunamente capace di proteggere il proprio ripieno dalla forza di gravità. Infilare ogni involtino in uno spiedino di legno, alternandola con una foglia di alloro o con una fettina di cipolla bianca, che daranno un supplemento di sapore anche grazie alla brace.
Da abbinare con:
Mentre si preparano gli involtini si chiacchiera e si scherza. La musica da ascoltare è vintage ma infallibile: quel calderone di melodie e ritmi prodotto negli anni Ottanta dai “Kunsertu”, un gruppo che anticipava di almeno dieci anni forme e stili di un sincreti-smo radicato nella storia e capace di guardare lontano.
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Se si dispone di un amico dalla voce soave gli si può chiedere di leggere dei versi di Pascoli, che a Messina trascorse i migliori anni della sua vita (lo scrisse con chiarezza una volta tornato in Garfagnana): “La luna s’è levata dal monte. Le acque ondeggiano sotto il chiarore. Una vela. Come una vela? Non è il Serchio, è lo Stretto. E quel monte è l’Aspromonte. Quel lido ebbe primo di tutti il nome d’Italia. E il campaniletto di San Nicolò? Quella è la lanterna del Faro … Nel cielo illuminato tintinnano tetracordi ed eptacordi” (prefazione ai Poemetti, 1900).
Il dipinto è inevitabilmente il ritratto di ignoto di Antonello da Messina, che ammicca enigmaticamente ai visitatori del Museo Mandralisca di Cefalù. Ci ha scritto Consolo nel “Sorriso dell’ignoto marinaio” che può far bene rileggere mentre si digeriscono gli involtini (di norma se ne mangia un numero biblico e spesso inconfessabile). Volendo accentuare le assonanze fisiognomiche si può andare al Museo Regionale di Messina e riconoscere le espressioni locali nel magnifico Polittico di San Gregorio, che “Antonellus messanensis pinxit” come recita il cartiglio dipinto ai piedi di Maria.
Volendo rimettersi la coscienza a posto si può vedere un film tutto messinese, quel “La gentilezza del tocco” di Francesco Calogero che ha vinto insieme a “Mignon deve partire” la prima edizione del Premio Sacher. Storia ambientata tra città e campagna, fatta di equivoci un po’ francesi (à la Eric Rohmer) e di ironie molto sicule.
Ah, il vino non può che essere il grandioso “Rosso del Soprano” prodotto sulle colline messinesi da Geraci. Fratello minore del più blasonato “Palari” ha il vantaggio di non essere stato rinchiuso in barrique, ne guadagna il sapore rotondo ma con qualche mini-ma asprezza verace. Il vitigno è ovviamente un Faro D.O.C.