L’arte contemporanea, proiettata verso una progressiva astrazione, sembra alienarsi sempre di più dal reale, eppure le sculture di Louise Berliawsky Nevelson (Pereyaslav, Kiev 1899 – New York 1988) ci raccontano la sua esistenza di artista-donna: “Gli uomini non lavorano in questo modo, diventano troppo attaccati, troppo impegnati nel mestiere o nella tecnica… Il mio lavoro è delicato… La vera forma è delicata. In esso c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è al femminile”.

Questa retrospettiva ripercorre mirabilmente, con le oltre settanta opere esposte presso il Museo Fondazione Roma nella sede di Palazzo Sciarra, il percorso artistico di Lady Lou, che ha attraversato il secolo scorso con una passione per l’arte iniziata già a nove anni (alla domanda su cosa avrebbe fatto da grande, rispose: “Sarò un’artista. No, voglio fare lo scultore, non voglio che il colore mi aiuti”) e una determinazione ineguagliabile: “Se tu sai ciò che possiedi sai che non c’è nessuno sulla terra che può distoglierti da questo”. La prima metà del secolo non deve essere stata facile per una donna di origine russa, ebrea, emigrante (smise di parlare per sei mesi a seguito della partenza del padre e lo raggiunse negli Stati Uniti nel 1905), divorziata (sposò nel 1920 Charles Nevelson da cui si separò dopo una decina di anni e da cui ebbe un figlio) e artista (studiò canto, teatro, danza, frequentò l’Art Students League e i corsi di Hans Hofmann).

Del suo primo periodo di artista (1930-33) troviamo in mostra i disegni, semplici linee che indicano

il volume della figura femminile, padroneggiando lo spazio. I suoi viaggi in Europa la mettono in contatto con il cubismo, l’arte africana e Picasso – delle cui opere, nonostante il rifiuto per ogni etichetta, dichiarerà l’influenza – e quelli in Messico e Guatemala con l’arte precolombiana e indoamericana. La linea quale elemento arcaico, nelle sue prime sculture, risente della collaborazione a New York con Diego Rivera e Frida Kahlo. Le prime sale ospitano le opere in nero (“Quando mi sono innamorata del nero, per me conteneva tutti i colori”), degli anni ’50 e ’60, realizzate con legni trovati in strada. In questi assemblages si legge la vita di Louise: i recuperi lignei, la cassetta da carpentiere, ovvero il riferimento al padre Isaac, taglialegna, commerciante di legname e carpentiere e al nonno che in Russia possedeva boschi e legname; il periodo del nero (nigredo) è, non a caso, successivo alla morte del padre (1946), a quella del suo gallerista Nierendorf (1947) e alla crisi depressiva che colpì Louise.
Nella quinta sala contrastano alcune opere in bianco (albedo): Dawn’s Host e Columns from Dawn’s Wedding Feast, due totem a tema nuziale del 1959. La trasmutazione della materia, la metamorfosi degli oggetti, non poteva che concludersi – al termine del percorso espositivo – con l’ultima fase alchemica: l’oro (“Volevo dimostrare che il legno recuperato nella strada può essere oro”), The Golden Pearl (1962) e Royal Winds (1960) sono i risultati dell’opus artistico della sciamana Louise. Ma il riferimento all’oro dell’arte sacra e delle icone russe sembra ineludibile.

Il filo conduttore delle opere di Louise è il tempo, la memoria. Il passato, il recupero dell’objet trouvé (i ready-made, Kurt Schwitters, Duchamp); il presente, l’assemblaggio di un vissuto intimo di cui l’artista distilla la poesia, che riordina, a partire dal 1955, in spazi precisi, teatri della memoria disposti in cassette di legno, tabernacoli o secrétaire, e che armonizza attraverso l’omogeneizzazione cromatica di contenuti e contenitori (nero, bianco e oro) e l’equilibrio di vuoti e pieni, una scrittura fatta di ombre (“Architetto dell’Ombra” era una definizione che le piaceva); infine il futuro della nuova vita artistica data agli oggetti, oltre quella per cui erano stati creati, i nuovi materiali, i metalli, per le monumentali installazioni di cui in mostra è possibile vedere alcune foto e video (Sky Tree, 1977, in acciaio dipinto di nero, a San Francisco, Embarcadero Center). Autocreazione di se stessa la ricordiamo, oltre che per la sue sculture, non solo per la bellezza, i foulard, le ciglia finte e i vestiti eccentrici, ma soprattutto per il suo sguardo intelligente e volitivo.

 

 

 

 

 

Foto

– Louise Nevelson, ca. 1979 / Basil Langton, photographer.
Louise Nevelson papers, Archives of American Art, Smithsonian Institution

–  Louise Nevelson – Royal Tide III, 1960
Legno dipinto nero
202 x 153 x 41 cm
Louisiana Museum of Modern Art, Humlebaek
© Louise Nevelson by SIAE 2013

– Louise Nevelson – Column from Dawn?s Wedding Feast, 1959
Legno dipinto bianco, cm 239,4 x 45,7 x 45,7
Column from Dawn?s Wedding, 1959
Legno dipinto bianco cm 239,7 x 27,9 x 27,9
The Menil collection, Houston
© Louise Nevelson by SIAE 2013