Se seguite l’hashtag internazionale #freedompress oggi, troverete tutti i 140 caratteri dedicati alla giornata mondiale per la libertà di stampa. Ventiquattro ore per diffondere i numeri di giornalisti uccisi sul campo al fine di informare l’opinione pubblica, e i dati relativi al controllo dei governi o grandi gruppi finanziari di quanto viene pubblicato nei giornali o registrato nei servizi televisivi. Nella classifica redatta ogni anno dalla World Association of Newspapers and News Publisher e pubblicata nella versione cartacea di La Stampa, vengono contati 68 giornalisti uccisi solo nel 2012 mentre svolgevano il proprio lavoro ( il numero tuttavia oscilla perché secondo l’Unesco sono 121, 90 invece secondo Reportes sans frontieres e 70 secondo il Committee to Protect Journalists). Si tratta di omicidi, nella maggior parte dei casi rimasti impuniti, in alcune zone del mondo in cui lavorare in sicurezza non è affatto scontato.

Sono 7 i giornalisti uccisi in Pakistan, uno in Cambogia, Indonesia, Filippine, Thailandia, due in Bangladesh ed in India; se ci spostiamo in Africa, 14 reporters hanno perso la vita in Somalia, 16 nella sanguinosa guerra in corso in Siria, 3 in Iraq, uno in Sud Sudan, Tanzania, Nigeria. In medio Oriente sono 7, tra cui uno in Egitto e Libano, 3 in Iraq, 2 in Palestina. Spostandosi in America sono 12 coloro che sono stati uccisi sul campo: 6 in Messico, 5 Brasile ed uno in Colombia.

Nonostante gli appelli, le petizioni e le giornate celebrative come quella attuale, non si ferma quindi la carneficina dei professionisti dell’informazione, dipendenti sul campo di e per un’opinione pubblica che spesso li ignora o ben presto se ne dimentica. L’ultimo tentativo di sensibilizzazione è stato l’iniziativa di “A day without News”, volta a far comprendere in modo concreto cosa e come sarebbe l’informazione se non ci fossero reporter pronti a rischiare la vita per portare alla propria redazione una notizia. Esempio di questo giornalismo solitario fatto di impegno e dedizione è l’inviato della Stampa, Domenico Quirico, di cui la redazione non ha notizie dallo scorso 9 aprile, mentre portava incessantemente avanti il suo dovere di raccontare ed informare in Siria.

È proprio questa la parola che dovrebbe essere celebrata in queste 24 ore: informare. L’informazione non è la semplice comunicazione, come ben riportano i manuali e le regole deontologiche. Perché libertà di stampa non vuol dire solo poter lavorare in sicurezza, senza rischiare la vita per rendere consapevole l’opinione pubblica di quanto avviene nel mondo: la libertà per un giornalista consiste innanzitutto nella possibilità di scegliere in modo indipendente quale sia la notizia degna di pubblicazione e diffusione, un lusso che ben pochi professionisti si possono permettere.

Perché c’è una minaccia più subdola e meno evidente della guerra, finalizzata non ad informare, ma ad orientare l’opinione pubblica a seconda dell’interesse di chi i giornali li controlla. Uno degli ostacoli per la libertà di stampa sono spesso infatti gli stessi editori, una categoria che non svolge in modo esclusivo ed unico questo mestiere. L’editoria pura non esiste infatti neanche nei tanto decantati paesi democratici; basta guardare la cartina redatta da “Reporters without borders” e seguire la pratica legenda, che indica in modo preoccupante come l’Italia presenta problemi sensibili nella libera diffusione delle notizie. Perché non tutto può essere considerato realmente una news, e spesso un avvenimento viene fatto passare per tale solo perché fa comodo a qualcuno. Indirizzare l’opinione pubblica vuol dire infatti innanzitutto guadagnare, attraverso la pubblicità, politica o commerciale che sia, di cui le testate non possono più fare a meno, ma che sta trasformando i giornali in meri contenitori di comunicazioni e non di informazioni, uccidendo così metaforicamente anche la stessa figura del giornalista, da reporter dedito alla verità sostanziale dei fatti da riportare con lealtà e buona fede, a redattore di autentiche campagne mediatiche.