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Nell’ultima puntata di Report, la nota trasmissione televisiva in onda la domenica su Rai3 e condotta da Milena Gabanelli, è stato trasmesso un servizio dal titolo “Belli da Morire” di Stefania Rimini; si parlava di economia della cultura e dell’immenso patrimonio nazionale che, nonostante la sua unicità e grandi potenzialità, non rende al PIL italiano quello che dovrebbe.
Come è giusto che si faccia, la giornalista pone le solite ma fondamentali domande: come mai non si riesce a mettere a frutto tale ricchezza? Di chi è la responsabilità? E nel porre a confronto realtà estere e nostrane, riporta la testimonianza di una giovane esperta in gestione dei beni culturali. Si chiama Rosangela Arcidiacono e denuncia come le abbiano impedito di realizzare nell’ex carcere borbonico di Catania il primo museo internazionale contro la mafia, per il quale aveva già predisposto uno studio di fattibilità e trovato anche finanziatori disposti a sovvenzionarlo, promettendo che il progetto avrebbe dato lavoro sicuro a ben 50 persone. A chiuderle la porta in faccia la Soprintendenza, che in quei locali ha sede.
L’idea di questa catanese è senza dubbio ammirevole e dettata sicuramente dall’amore per la propria terra, ma deve fare i conti con l’effettiva realizzabilità e, soprattutto, con la sostenibilità a lungo termine: perché non è stata fatta menzione di costi e ricavi? Quali gli sponsor coinvolti? Che tipo di sinergie sul territorio sarebbero state attivate?
Sarebbe stato importante in tale contesto approfondire questi aspetti non certo di poco conto, al fine di far valere le proprie ragioni.
Sempre più spesso mi accorgo di come tenda a sfuggire la profonda differenza che vi è fra la cultura, le politiche a questa inerenti, e la produzione culturale. L’assunto che fino ad oggi ha prevalso indiscriminatamente in questo settore è quello che vede il pubblico come principale mecenate, al tempo stesso erogatore di finanziamenti e concessionario di spazi.
Mai come oggi è importante sottolineare come queste formule non siano le uniche risposte possibili. Il pubblico e la politica non possono essere gli unici ad investire nella riqualificazione a matrice culturale di spazi e territori, la macchina che dev’essere avviata è, in sé, più grande e complessa, e richiede una consapevolezza di fondo che ad oggi ancora manca.
Avviare e gestire progetti ed eventi culturali ha un costo che non si può pensare resti in capo alla Pubblica Amministrazione. Il Pubblico e l’Europa possono dare il contributo per la nascita delle iniziative ma la cultura deve poi trovare la sua strada per sostenersi economicamente. Per farlo ha bisogno di operare con la forma gestionale più appropriata, contare su di un team di esperti preparati e competenti, elaborare una compiuta politica di costi e ricavi e assumersi dei rischi d’impresa.
L’approccio alla cultura e alla progettazione culturale deve evolversi in senso imprenditoriale, le forme giuridiche delle organizzazioni devono essere ripensate e tarate sulle esigenze reali, bisogna ragionare sul principio di reddito e su un modello di business reale, che renda le azioni sostenibili nel lungo periodo. Le attività culturali devono essere declinate e gestite da un management competente e pronto a rischiare, un management che sappia mettere le azioni a sistema e svilupparne prodotti e servizi commercializzabili.
I progettisti culturali di domani saranno gli esperti che riusciranno a guardare alla cultura con un occhio imprenditoriale, le figure che sapranno inserire le singole attività all’interno di una cornice gestionale e processuale più complessa, nella quale competenze distinte ed eterogenee si fondono. Rendere le attività culturali sostenibili vuol dire rischiare, scommettere, investire risorse e competenze accettando una sfida che può esser vinta, se solo s’imbocca la strada giusta.