Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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In pochi giorni si è consumato il rito annuale della presentazione dei Rapporti sull’economia della cultura nel nostro Paese. Figli di una stirpe blasonata e prolifica, mostrano in modo chiaro il dna dei progenitori: giustificare l’esistenza della cultura non come un’inutile decorazione ma come uno snodo per la crescita del Paese, con metafore tratte dalla chimica organica, dall’ingegneria meccanica, dalla sociologia; dimostrare che la cultura genera una cascata di effetti economici e finanziari sull’economia italiana: il MiBAC aveva azzardato un moltiplicatore di 16, il Rapporto Symbola si limita a 1,7 e nessuno ha il buon senso di ammettere che ogni attività legale genera un impatto sull’economia, che i turisti non sono per forza motivati da intenzioni culturali, che ogni iniziativa, anche se non culturale, riesce ad accrescere il giro d’affari di alberghi e ristoranti; chiedere nuove norme che inseriscano per l’ennesima volta obblighi e divieti, dopo aver già fallito con l’esenzione fiscale per le donazioni, che rimuove un vincolo ma non crea una motivazione, con la creazione dei poli museali autonomi che replicano gli stessi disastri dei musei, uffici periferici delle Soprintendenze, con la trasformazione estetica degli enti lirici in fondazioni, e così di seguito; chiedere, a gran voce, più denaro pubblico e privato, magari introducendo ulteriori normative che predispongono una griglia ma non possono incidere sui vincoli dei bilanci pubblici né sulla volontà delle imprese private.
Così, si racconta che la cultura italiana è importante e rispettata in tutto il mondo (lo sapevamo già); che il benessere degli italiani e le sorti dell’economia possono essere rafforzati dalla cultura (il che è innegabile); che il turismo internazionale va consolidato (lo dicono in tanti, ma evidentemente non hanno mai parlato con un fiorentino o un veneziano); che dentro il regno della cultura hanno piena cittadinanza i creativi (etichetta molto in voga negli anni più recenti usata per includere architetti, chef, ceramisti e sarti). Si indicano possibili percorsi che dovrebbero convincere le organizzazioni culturali a pensare e agire imprenditorialmente, l’economia privata a finanziare progetti culturali, la società a donare qualcosa; obiettivi condivisibili ma tuttora lontani nonostante (o a causa di?) l’inondazione normativa e regolamentare degli ultimi quindici anni. E si fornisce una fotografia dimensionale che, aggregando per categorie attività eterogenee e possibilmente in evoluzione, perde di vista i processi, le dinamiche, le relazioni causali e dunque anche le credibili opportunità che un sistema culturale funzionante potrebbe regalare a sé stesso e alla società italiana. Dire teatro o museo non basta più, sarebbe più utile analizzare la fenomenologia dell’offerta culturale nella sua complessità e nella sua collocazione territoriale negli spazi urbani in pieno fermento.
Il paradosso è che quando i posteri leggeranno la sequenza dei rapporti sull’economia della cultura scopriranno che la cultura italiana è statica e ossessionata dal proprio ruolo istituzionale; che si sente trascurata dal dibattito e dalle imprese; che è rimasta più o meno nello stesso assetto e nelle stesse dimensioni per un paio di decenni; che ogni tanto cerca di attivare strumenti di marketing e di attrazione di nuovi finanziatori. In tutto questo l’unico argomento assente (spesso anche nella realtà) è quello semantico e strategico: di che cosa parliamo quando parliamo di cutura? Esporre dipinti o mettere in scena un’opera come si faceva oltre un secolo fa si può ritenere culturale? O non siamo diventati soltanto un enorme museo a cielo aperto che conserva tutto (anzi lo protegge, presupponendo l’esistenza di una minaccia) senza mai poterne estrarre il valore? Il nume della cultura italiana è Tantalo, che vede ma non tocca, e soprattutto non si può nutrire: vive accanto a un bellissimo frigorifero ma non vuole cucinare il cibo conservato dentro. Sarà vero che con la cultura si mangia, ma forse sarebbe più utile capire chi mangia, come e perché.
Magari potremmo indicare ai posteri alcune cose cruciali: deregolamentare e incentivare, in modo che finalmente l’offerta culturale si assuma qualche responsabilità e senta il dovere di diventare affidabile; selezionare e incoraggiare le risorse umane, abbandonando velocemente la smania bizantina di concorsi, bandi e percorsi formalmente ineccepibili e sostanzialmente opachi e truffaldini, accettando la necessità di negoziati trasparenti e flessibilità strategica; premiare il grado di innovazione sui metodi e sui contenuti di progetti e azioni culturali, in modo da sostenere l’ibridazione con il resto dell’economia e della società; introdurre massicciamente l’arte e la cultura nei percorsi formativi, che oggi le ignorano o le riducono a un elenco di tediose nozioni da imparare a memoria. In sintesi, superare il complesso di Edipo (lo hanno fatto i nostri padri, non c’è motivo di discuterne), l’ansia da prestazione (guardano tutti la tv e solo pochi dotti frequentano i luoghi della cultura), la rimozione psicanalitica (il successo della cultura non è connesso alla sua capacità dialogica ma all’attrazione di masse informi), la nostalgia senile (un tempo le cose andavano meglio, erano tutti colti), la paura della morte (senza soldi pubblici la cultura fallirà). Più che un rapporto, serve il medico dei pazzi.