googlebigtentNell’ottobre del 2011, il Gruppo Mediaset (d’intesa con la Act, l’associazione europea dei broadcaster commerciali) ha presentato un progetto di ricerca, intitolato “Italia: a Media Creative Nation”, affidato ad IsICult, finalizzato ad enfatizzare la centralità dei produttori di contenuto nell’economia del sistema culturale e la necessità di preservare i contenuti di qualità dai rischi di parassitismo di internet e dalla pirateria (la presentazione della nuova edizione dello studio avverrà in autunno).

Come è noto, né la “Telecom”, né i cosiddetti “aggregatori” né in generale gli “OTT” (ovvero “over the top”) investono un euro nella produzione di nuovi contenuti, e secondo alcuni analisti si assiste ad una progressiva deriva di pauperizzazione delle industrie culturali: sul banco degli “imputati”, senza dubbio in primis Google, gigante mondiale e soggetto dominante anche in Italia (come certificato ormai sia dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni sia dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, senza dimenticare i recenti interventi del Garante della Privacy).

A distanza di un anno e mezzo, Google Italia risponde alla sfida di Mediaset-Act: ha presentato ieri, 4 luglio a Roma una ricerca, intitolata “Capire il surplus. Il mondo connesso. I consumatori europei scelgono i media online”, versione italiana di un progetto mondiale – di ricerca e lobbying – affidato alla multinazionale della consulenza The Boston Consulting Group (Bcc), che è partner di Google da anni.

L’iniziativa Google “Big Tent”, una grande metaforica accogliente “tenda”, organizzata in gran stile (a partire dall’elegante sede dell’Aranciera di San Sisto a Caracalla, location per matrimoni di classe; unica pecca, una acustica pessima), si è posta come “primo evento organizzato da Google in Italia con l’obiettivo di stimolare il dialogo sul ruolo del digitale nella cultura e nei contenuti”.

In verità, l’iniziativa ha consentito di riascoltare tesi già note: la giovane Giorgia Abeltino, Senior Policy Counsel di Google Italia (di fatto, è la rappresentante istituzionale del gruppo), come sempre elegante ed appassionata, ha introdotto la giornata di lavori, intitolata “Quale è il ruolo del digitale per la cultura e per l’industria dei contenuti?”. La tesi di fondo è nota: Google è un grande estensore di accesso, un eccezionale moltiplicatore di democrazia, una grande autostrada che consente a tutti (vetture grandi e piccole, ovvero “major” ed “indie”) di andare in ogni dove, in nome di una libertà assoluta e santa.

Quel che Google minimizza – in buona fede o strumentalmente, al lettore la valutazione… – è che incontrovertibilmente le statistiche sulle industrie culturali dimostrano come in tutto il mondo la radicale crisi dei tradizionali modelli di business (nell’editoria, nella fonografia, nell’audiovisivo…) stia producendo riduzione dei fatturati e disoccupazione, e che i segnali di inversione di tendenza sono ancora eccezioni alla regola. Peraltro, i ricavi che derivano dalla rete sono ancora insufficienti a compensare la perdita di ricavi dai business model classici.

Le capacità di democratizzazione dell’accesso alla cultura provocate da internet e da “player” come Google non sono oggetto di critiche: sono dati di fatto oggettivi, e questa funzione preziosa è indiscutibile (si può discutere della qualità metodologica di Wikipedia, per esempio, ma è questione altra: la cultura “Wiki” è senza dubbio uno strumento che ha esteso lo spettro della conoscenza…).

La mattinata è stata aperta da una lunga relazione del Ministro per i Beni e le Attività Culturali Massimo Bray, che ha narrato, forse un po’ troppo autoreferenzialmente, l’esperienza della Enciclopedia Treccani, ed ha auspicato una “democratizzazione culturale”, sostenendo tra l’altro che Creative Commons è un sistema adeguato alla modernizzazione delle logiche del diritto d’autore.

Non 1 parola 1, da parte del Ministro, rispetto all’esigenza di una riforma dell’intervento pubblico che possa stimolare la produzione di nuovi contenuti di qualità.
Non 1 parola 1, da parte del Ministro, sul de-finanziamento del tax credit per il cinema.
Non 1 parola 1, da parte del Ministro, su un dicastero che non destina 1 euro 1 alla musica pop-rock ed alla multimedialità ovvero alla sperimentazione dei linguaggi

Come abbiamo già sostenuto su queste colonne, è piacevole ascoltare un Ministro che è anche un intellettuale umanista, dall’eloquio dolce e suadente, ma vorremmo anche un Ministro che si esprima in modo netto e deciso rispetto alle sue idee per risollevare le sorti delle industrie culturali nazionali, che sono tutte stremate da una crisi complessiva e pervasiva, frutto dell’assenza di una politica culturale nazionale (e di budget adeguati) e delle conseguenze di un internet sregolato (si attende da anni un regolamento Agcom).

Sono poi intervenuti Rodrigo Cipriani Foresio, Presidente di Istituto Luce Cinecittà, che si è fatto vanto dell’iscrizione dell’Archivio Luce nel Registro “Memory of the World” dell’Unesco, il programma finalizzato alla valorizzazione dei più importanti fondi archivistici mondiali.

Marco Polillo, Presidente di Confindustria Cultura Italia (Cci), ha rappresentato le tesi dei produttori e distributori di contenuto, ma con una delicatezza forse eccessiva, a fronte di quell’entusiasmo pro web che ha caratterizzato tutta la giornata.

Il Direttore della prestigiosa testata “La Civiltà Cattolica”, padre Antonio Spadaro, ha raccontato la sua esperienza con il web, sostenendo come internet sia un moltiplicatore e diffusore di conoscenza, anche dal punto di vista del Vaticano. Alcune tesi sono eccentriche: “Anche la cultura degli hacker si può ricondurre alla teologia (…) Dio aveva previsto l’incontro tra il web e la Chiesa” (sic).

C’è stato poi un breve siparietto durante il quale sono state presentate alcune “start-up” (in verità non proprio afferenti alla cultura), e quindi l’atteso intervento di Vinton (detto Vint) Gray Cerf, considerato uno dei “padri di internet”, il cui incarico la dice lunga: “Chief Internet Evangelist” di Google. Nonostante i settant’anni suonati, Cerf ha mostrato una carica energetica e passionale impressionanti, ed ha “ovviamente” descritto internet come strumento meraviglioso di crescita, democrazia, libertà, finanche ecologia (tra qualche anno, la domotica consentirà di ridurre i consumi degli elettrodomestici, facendoli gestire dal computer). Ha stupito molti dei presenti (per l’assenza di diplomazia) la sua visione del mercato italiano: “In Italia, non abbiamo un numero sufficiente di persone online con una connessione ad internet accettabile… e la responsabilità è certamente di Telecom Italia e degli altri gestori”.

Divertente (e deprimente) la battuta “qui a Roma alloggio in un bellissimo albergo, ma la connettività è disastrosa”. Da segnalare che “la Repubblica” di oggi pubblica un’intervista a Cerf, a piena pagina, a firma di Riccardo Luna (fondatore di “Wired Italia”), che ha peraltro moderato il dibattito a “Big Tent”.

Secondo Cerf, si dovrebbe lavorare sulla qualità della connessione, prima di puntare alla fruizione dei contenuti. “Contraddizioni interne del capitalismo”, verrebbe da scrivere, nella contrapposizione tra “tlc” e “ott”. Cerf, stimolata da Anna Masera de “La Stampa”, ha anche risposto in relazione al caso “datagate”: “’Potete fidarvi di Google: se fosse vero che violiamo la privacy dei nostri utenti, saremmo degli stupidi, perché nessuno ci affiderebbe più i propri dati e la nostra economia aziendale ne soffrirebbe”. Ovvio, ma l’evangelizzatore Cerf non ci ha proprio convinto, anche perché è evidente che il gigante di Mountain View predica la bontà del proprio operato e… manifesta conseguente verbo.

Unica voce lievemente fuori dal coro – rispetto allo splendido scenario rappresentato – quella di Enzo Mazza, Presidente della Federazione dell’Industria Musicale Italiana (Fimi), che ha ricordato come la rete non sia salvifica in sé, e che il diritto d’autore (finanche nel suo approccio classico) non ha impedito la nascita e lo sviluppo di decine di società che propongono un’eccellente offerta legale di musica: Mazza ha evidenziato come, per la prima volta dopo decenni, nel 2012, il fatturato mondiale dell’industria musicale mostri una lievissima crescita, anche se l’incremento del business immateriale (digitale e rete) non compensa ancora il decremento del business della vendita dei prodotti materiali (cd e dvd).

Una domanda netta, e seria, l’ha posta il cantautore Daniele Silvestri: bella la rete, fantastica la digitalizzazione, “ma io, da artista, vorrei poterci vivere”. Il che non avviene. E se non avviene per un artista affermato come lui, possiamo immaginare per milioni e milioni di autori, artisti, creativi in tutto il mondo…

La giornata s’è poi sviluppata attraverso due panel nei quali si sono confrontati operatori dell’industria editoriale (Rcs, Corriere della Sera, L’Espresso, Warner, Sony…).

Il Sottosegretario all’Editoria, Giovanni Legnini (Pd), ha sostenuto: “Lancio qui una sfida agli amici di Google: trovare una via originale in Italia per l’accordo tra editori e motori di ricerca, una sorta di accordo made in Italy… Una soluzione solida è a portata di mano, se si evitano le rigidità di partenza”. Belle intenzioni, ma, concretamente, cosa propone il Governo?!

Infine, non vogliamo entrare nel merito della ricerca Bcc, che contiene dati la cui metodologia di elaborazione non è esattamente chiara, e propone ardite concettualizzazioni e quindi scivolose quantificazioni. La domanda era: “quanto vale la cultura online?”.

Secondo gli aruspici di Boston, il “surplus del consumatore fornisce un’utile misurazione del valore economico attribuito ad un prodotto da parte dei suoi utilizzatori”: in sostanza, è la differenza tra il costo pagato (effettivamente) ed il valore attribuito al prodotto o servizio acquistato (ovvero il costo che sarebbe disponibile a sostenere per acquistare). Concetto ambiguo e dato stimabile evidentemente soltanto attraverso ricerche demoscopiche (e la strutturazione del campione non viene nemmeno indicata!).

In Italia il “peso economico del consumatore”, cioè la differenza (il “surplus”) fra il valore che questi attribuisce a ciò che legge, vede, ascolta, gioca e di cui ha esperienza “online”, ed il prezzo pagato per farlo sarebbe di 1.050 euro all’anno. Il “surplus” sarebbe invece di 711 euro per quanto riguarda i prodotti culturali tradizionali, quelli “offline”… Uno dei capitoli del report si intitola (senza alcuna autocensura alla retorica): “Le infinite opportunità a disposizione del settore”.

Le opportunità saranno anche virtualmente infinite, ma le industrie culturali per ora sbattono il grugno contro il muro: fatturati in calo, imprese che falliscono o comunque licenziano. Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare, anzi… la rete!

Da segnalare che la kermesse Big Tent s’è curiosamente tenuta esattamente lo stesso giorno in cui il quotidiano confindustriale “Il Sole 24 Ore” ha pubblicato una intervista a Carlo D’Asaro Biondo, Vice President South East Europe, Middle East e Africa di Google, il quale cerca di difendersi dalle accuse di “parassitismo” che sempre più vengono mosse nei confronti del suo gruppo. “Siamo disposti al dialogo con tutti – sostenuto D’Asaro – ma non siamo parassiti. Anzi, portiamo visibilità e ricchezza (…) Il diritto d’autore va protetto (…) I contenuti hanno un grande valore, sia economico che sociale. E i motori di ricerca possono essere degli alleati per combattere la pirateria”.

Complessivamente, una iniziativa comunque interessante, per quanto prevedibile operazione di lobbying. Non è stata però un’occasione di dibattito profondo, perché sarebbe stato necessario coinvolgere anche chi ha nei confronti del web un atteggiamento meno deferente e soprattutto non fideistico.

Nessun rappresentante della Società Italiana Autori Editori (la Siae è stata peraltro rappresentata come fortino della conservazione oscurantista, e non c’è stato contraddittorio). Nessun rappresentante dei produttori veramente indipendenti (anche l’intervento del Presidente Anica Riccardo Tozzi è apparso veramente molto poco rivendicativo) è stato coinvolto nella kermesse: curioso.
Nessun rappresentante dei broadcaster tv, che pure sono produttori di contenuti più o meno di qualità (Rai, Mediaset, Sky Italia, La7…), è stato coinvolto: curioso.
Nessun rappresentante degli autori, degli artisti, dei creativi (ci si consenta, Silvestri non sufficit) è stato coinvolto: curioso. O forse no.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult