Avete mai sentito parlare di selfies? Forse no, ma sicuramente quasi ognuno di voi, almeno una volta nella vita, se lo è fatto. No, non si tratta di una nuova sostanza allucinogena, bensì di un semplice, sempreverde autoritratto. Solo che, se fino a qualche secolo fa, l’autoritratto era un’opera d’arte fatta di colori ad olio o acquerelli, da qualche anno a questa parte è digitale e alla portata di tutti, è una foto scattata dall’Ipod, dallo smartphone, dalla macchina fotografica da se stessi a se stessi, e poi, ovviamente, postata sui social.

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Nei primi mesi del 2013, un artista americano, Patrick Specchio, ha pensato di attuare un esperimento: i visitatori della sua mostra erano invitati a entrare in un ascensore di un condominio di Brooklyn e scendere fino al seminterrato. All’apertura delle porte, un grande specchio accoglieva il pubblico, invitandolo a scattarsi un selfie con una macchina fotografica, proprio nell’atto di specchiarsi. Le foto raccolte in quell’occasione – oltre a poter essere postate su Facebook in real time – sono diventate una mostra di grande successo al Moma di New York, “Art in Translation: Selfie, The 20/20 Experience”. L’artista ha dichiarato di voler esplorare, attraverso questa modalità, il nuovo concetto di io e di individualità che scaturisce dalla società contemporanea, dominata dai social media, trasformando il pubblico da ricettore passivo dell’opera d’arte, a creatore attivo.

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L’esperimento di Specchio ha infoltito la sequela di riflessioni su questa vera e propria nuova mania del selfie. In principio erano i teenager a postare su MySpace ammiccanti foto, auto-scattate principalmente in bagno. Ora, con l’avvento dei social network e dei nuovi smartphone, con l’ausilio di Instagram e altri strumenti per fotografi amatoriali che rendono artistica anche la foto di un sasso, sono tantissime – e di tutte le età, i ceti, i sessi – le persone che praticano i selfies. Da Obama a Justin Bieber, da Rihanna a George Harrison, dalla casalinga al body builder, si sono messi in posa per auto scattarsi una foto.

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Anche i sociologi si sono interrogati sul fenomeno. I selfies nascono dal nuovo concetto di immagine che caratterizza l’uomo contemporaneo: non più una realtà a parte, quasi sacra, creata solo da artisti e geni, l’immagine è un elemento tanto pervasivo del nostro quotidiano, da diventare esso stesso elemento “terreno”, realtà, vita. L’io del mondo 2.0 è sottoposto e si sottopone continuamente a giudizi, commenti, opinioni che provengono da terzi, e anche l’approvazione della propria immagine è diventata fondamentale. La parola che è stata maggiormente associata a “selfies” è “narcisismo”: l’individuo ha bisogno di affermare se stesso, mostrando un’immagine anche intima di sé, che possa suscitare il consenso altrui.

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C’è, poi, un’altra spinosa questione che si pone all’attenzione: possono i selfies definirsi arte? Di sicuro è difficile chiamare arte l’auto-scatto di una 14enne in top, di fronte ad uno specchio. Ma è anche vero che la rappresentazione di sé, dal Rinascimento in poi, è stato uno dei soggetti più affascinanti e diffusi in campo artistico. E il fatto che, attualmente, ci sono 90 milioni di fotografie su Instagram taggate #me, fa sì che i selfies possano definirsi un’espressione caratterizzante dell’iconosfera contemporanea, del nostro modo di percepire il nostro mondo esteriore e interiore.

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