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Era il 15 agosto del 1969, data che nella storia della musica ha un solo significato: Woodstock
Ripercorrere cosa accadde circa 45 anni fa a Bethel, 80 km da NY, in quei pochi ettari di terra prestati quasi casualmente a quello che doveva essere un concerto estivo dedicato al rock e alla cultura hippie oggi potrebbe sembrare anacronistico e forse un po’ lo è: nulla di simile a ciò che avvenne in quei 4 giorni di concerto (che in realtà dovevano essere 3) dedicati alla Musica e alla Pace, così come recitava la locandina della manifestazione, potrebbe oggi accadere. In molti hanno provato a far rivivere il mito di quel festival, ma nessuno, nemmeno gli stessi organizzatori anni più tardi, è mai riuscito nell’impresa.
Nel bene e nel male, cerchiamo di capire perché Woodstock rimane un evento irripetibile e, nelle sue contraddizioni, rappresenta la fine di qualcosa (e l’inizio di qualcos’altro).
LA MUSICA
PRIMO GIORNO
Richie Havens
Sweetwater
Bert Sommer
Tim Hardin
Ravi Shankar
Melanie
Arlo Guthrie
Joan Baez
SECONDO GIORNO
Quill
Country Joe McDonald
John B. Sebastian
Keef Hartley
Santana
Incredible String Band
Canned Heat
Grateful Dead
Creedence Clearwater Revival
Janis Joplin
Sly & The Family Stone
The Who
Jefferson Airplane
TERZO GIORNO
Joe Cocker
Country Joe & The Fish
Leslie West/Mountain
Ten Years After
The Band
Johnny Winter
Blood Sweat And Tears
Crosby, Stills, Nash & Young
QUARTO GIORNO
Paul Butterfield Blues Band
Sha-Na-Na
Jimi Hendrix
Questa più o meno la scaletta del concerto anche se nessuno è stato poi in grado di affermare se sia stata seguita o meno. Le piogge torrenziali, i ritardi degli artisti, i guasti alle apparecchiature tecniche e i disagi dell’organizzazione hanno fatto slittare tutte le 32 esibizioni in programma, al punto di ritardare il tutto di un giorno.
Jimi Hendrix, che avrebbe dovuto suonare alle 23 del 17 agosto, si ritrovò a salire sul palco alle 4,30 del mattino successivo. Ed erano ancora tutti lì.
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La droga la faceva da padrona, è vero, ma anche uno stato mentale di rilassatezza tale da fare in modo che nulla potesse essere visto come un problema, come un ostacolo.
La musica, anche con il senno di poi e la coscienza di 45 anni in più, è l’unica cosa che tutti, indistintamente, si sentono di salvare senza se e senza ma dopo questo grande evento che non fu solo musicale, ovvio, ma anche politico e storico.
Non che le esibizioni siano state perfette, anzi: molti artisti non volevano salire sul palco e ricattavano gli organizzatori per un cachet più alto, altri avevano suonato solo davanti a poche centinaia di persone prima di allora ed erano rimasti completamente immobilizzati vedendo davanti a sé oltre mezzo milione di persone, altri ancora erano pesantemente sotto effetto di acidi e improvvisavano stonando. Ma l’atmosfera della musica, del palco, quelli la ricordano e la testimoniano tutti.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=b1S3jnFfJXM]
IL PUBBLICO
Di nomi del grande rock statunitense ce ne erano parecchi: molti più celebri oggi che allora, altre erano già consacrate stelle del firmamento musicale. Eppure, ad essere protagonista fu senza dubbio il pubblico: queste 500 mila persone completamente inaspettate che giunsero nella vallata solo per sfuggire alla metropoli, cercando di ritrovare la forza bucolica che millantavano in quegli anni proprio in quell’ampio spazio dove ogni cosa era possibile: quando dal secondo giorno di festival tutti cominciarono a togliersi i vestiti, a denudarsi, a bere, a fumare, a fare sesso libero, a cantare, ad auto-organizzarsi per poter andare avanti nonostante le difficoltà (pensate che Manhattan, a circa 100 km dalla sede dell’evento, conobbe a causa del festival l’ingorgo più terribile della sua storia), le icone che salivano sul palco, con le loro borchie e i loro giubbotti di pelle sembravano quasi superate, vecchie.
Si dice che durante il Festival nacquero 2 bambini e morirono 2 ragazzi, uno per overdose e uno schiacciato da un trattore mentre dormiva nelle campagne dopo 70 ore ininterrotte di musica.
L’ORGANIZZAZIONE
E’ forse questo il motivo più palese per cui oggi non si potrebbe mai ripetere un festival come quello del 1969. La fretta nell’organizzazione del festival che inizialmente avrebbe dovuto tenersi proprio a Woodstock, le autorizzazioni mancate, la location adattata con pochi giorni di anticipo, l’impossibilità delle forze dell’ordine di gestire uno spazio così vasto e così aperto, la mancanza di servizi igienici, l’impossibilità dopo appena 24 ore di raggiungere Bethel anche solo per portare acqua e cibo, hanno fatto si che la location divenisse, per quel weekend, una piccola comune completamente autogestita. Tutti si resero conto che stavano partecipando a qualcosa di unico e tutti si impegnarono affinché venisse rispettato il carattere pacifico dell’evento. Non ci fu nessuna rissa, nessun atto di violenza, nessun incidente.
“Un incubo di fango e stagnazione monopolizzato da intrusi con l’aria freak” lo apostrofò il New York Times durante lo svolgimento. Che poi, dopo qualche mese ammise “Lo facemmo principalmente per scoraggiare l’arrivo di altre persone. Avevamo paura che la situazione degenerasse”. Fu così che dopo qualche giorno il festival divenne “un fenomeno di innocenza”, o “un motivo d’orgoglio per lo Stato di New York”.
LA CULTURA
Ma ciò che realmente fu Woodstock lo raccontarono con parole, spesso contrastanti, i suoi protagonisti: “Ci fu la sperimentazioni di ogni tipo di droga e di esperienza lisergica ma tra libero amore e pioggia battente provammo a costruire la nostra cultura e la nostra comunità, con la nostra musica, la nostra stampa, i nostri valori, miti e leggende, per creare una pazzia autenticamente nostra in cui l’autodisciplina e la cooperazione costituivano l’unica via possibile” affermò l’attivista politico Jerry Rubin.
“Tutti flirtavano con la pazzia, improvvisando a caso, facendo pena o con risultati geniali – racconta Eddie Kramer, il tecnico del suono – Woodstock non credo sia stato l’inizio di un bel niente. E’ stato la porta dietro la quale sono rimasti sepolti gli ideali e le utopie degli anni Sessanta”.
Erano i giovani che aspiravano ad avere un posto nella società e che per tre giorni lo avevano trovato lì, in un mondo utopico fatto di sesso, droga e rock’n roll.
CHE FINE HA FATTO WOODSTOCK
La fattoria dove si svolse quel solo e unico concerto (gli organizzatori continuarono ad organizzare in un’altra location un festival omonimo una volta ogni 10 anni ma senza gli stessi risultati) è stata acquistata oggi da un imprenditore americano che vi ha fatto sorgere un museo in ricordo del concerto ma anche della cultura hippie. Sede di pellegrinaggi da parte di scolaresche e di figli dei fiori tardivi, il fantasma di quell’evento giace così nel ricordo di chi si è divertito, di chi ne è rimasto traumatizzato, di chi ne ha tratto profitti e di chi può dire di avervi partecipato.
Un lungometraggio “Woodstock: Three Days of Peace&Music”, vincitore del premio Oscar come miglior documentario, ha tentato di far rivivere ai posteri quelle sensazioni. Che nessun festival contemporaneo sarà mai più in grado di ricreare.
Purtroppo o per fortuna.