the_archeaologistsIl Ministro Bray ha tentato di inserire nel decreto legge 91/2013, “Valore Cultura”, una norma per la concessione in via sperimentale di alcune strutture (in particolare monumenti minori) ai privati per far fronte alle emergenze e alle carenze di personale, ma a 20 anni dalla Legge Ronchey – che con la L. 4/1993 ha creato i “servizi aggiuntivi” – la questione del ruolo dei privati rispetto ai beni culturali rimane aperta e spinosa.

C’è chi vuole incentivarne la partecipazione, e chi, come Salvatore Settis, vede nell’apertura ai privati un’abdicazione dello Stato alle proprie responsabilità e competenze.
È palese che si potrebbe spendere meno in armi e di più in cultura e che l’evasione in Italia raggiunge livelli record privandoci di utili risorse. Investiamo solo l’1,1% del Pil in cultura a fronte di una media comunitaria del 2,2% (Eurostat) e perfino la Germania ha tagliato in tantissimi settori, ma non in cultura e istruzione.
Il punto fondamentale della discussione è, però, se e quanto è opportuno coinvolgere i privati, non se sarebbe opportuno e utile avere più soldi da movimentare per la cultura.
La paura forte è che il valore costituzionale e culturale del nostro patrimonio possa andare perso a favore di un suo utilizzo da “giacimento culturale”, abbandonando le funzioni socialmente utili a favore di scelte economicamente produttive.

Tomaso Montanari nel suo “Le Pietre e il popolo” critica in modo esemplificativo l’utilizzo di attrattori solo per racimolare un po’ di denaro con grandi eventi. Mentre il modello cui rimanda Settis è Ercolano, con la Hewlett-Packard che investe milioni in cambio solo di un “pubblico riconoscimento”. Tale modello sembra ricalcare in realtà la stessa logica dell’erogazione pubblica. C’è chi dubita che molti attrattori o beni potranno mai sostenersi autonomamente e c’è chi non vede di buon occhio il ruolo di una cultura che si (s)vende per generare denaro.

E’ probabile che molti musei o biblioteche non potranno mai essere del tutto auto-sufficienti, ma esistono infinite gradazioni di grigio. La questione diventa solo apparentemente semantica, volendo parlare non di “produzione di ricchezza”, ma di “generazione di valore”.
Si pensi a Ponte Vecchio a Firenze che è stato affittato per la sera del 29 giugno 2013 alla Ferrari Cavalcade (per 6 ore) ad un prezzo di ben 120.000 euro.

Il concetto di patrimonio e di beni culturali non può rimanere statico, ma deve svilupparsi. Si va dai “contenitori culturali” del 1993, all’idea di “attività culturali” affermatisi con il DL 368 e al Codice Urbani del 2004 che ha puntato sul “patrimonio culturale”.
Montanari fa notare la necessità di ricreare occupazione di qualità nel settore ed elenca archeologi, storici dell’arte e architetti. Si tratta di figure essenziali, ma non andrebbero trascurati manager della cultura ed economisti, perché se la filiera culturale merita professionisti di livello, questo è vero non solo per i contenuti, ma anche per la gestione e il posizionamento degli stessi.

Il sottosegretario ai Beni Culturali, Ilaria Borletti Buitoni, invita alla “predisposizione di regole chiare”. Spesso è il quadro normativo a essere difettoso, sovrabbondante e impreciso.
Esiste inoltre un problema radicale di accountability e affidabilità rispetto alla cultura. Servono indicatori che traccino con definizione le linee essenziali di ciò che avviene, chiarendone gli snodi funzionali, come i colli di bottiglia. Serve il coraggio di misurare ciò che (non) viene fatto, così da valutare in base a risultati analizzati nel dettaglio e in modo puntuale.

La sensazione forte che la cultura vada ripensata diversamente, sia come approccio che come modelli economici, è diffuso anche in “terre felici” fatte di stanziamenti statali più cospicui. Vengono, infatti, dalla Germania, da alcuni studiosi (D. Haselbach, A. Klein, P. Knusel, S. Opitz) le accuse di burocratizzazione del proprio paese, la richiesta di cancellare praticamente ogni finanziamento pubblico alla cultura e di ripartire dalla situazione post-infarto che questa scelte causerebbe (Kulturinfarkt). In Italia siamo pre-infartuati ormai da 20 anni.