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Incontriamo Alessandro Rak regista de “L’arte della Felicità” film d’apertura della Settimana Internazionale della Critica del Festival di Venezia 2013.
Napoletano, arriva al lido con la sua opera prima, un lungometraggio d’animazione per adulti. Si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, da sempre è legato alla fantasia, al fumetto e al disegno – “la mia prima occupazione fin da quando ero bambino” dichiara.
L’Arte della Felicità è ambientato in una Napoli cupa e degradata, porta tra l’oriente e l’occidente. Il film racconta la storia di due fratelli che attraversano un tunnel di dolore e di contraddizioni. Un rapporto intenso, in equilibrio precario: Sergio, è un tassista (ex pianista) che ha deciso di voltare le spalle alle sue speranze e ai suoi sogni. Alfredo, è il fratello maggiore che ha deciso di allontanarsi e seguire una strada diversa: abbracciare il buddismo.
La capacità di ritrovarsi, quando tutto sembra perduto, è l’arte della felicità. Una storia di finzione, ricca di elementi autobiografici che appartengono sia al regista che produttore. Tutto questo diventa una narrazione, un film d’animazione poetico dove l’elemento visivo e narrativo sono gli ingredienti più importanti.
Ci racconti questa storia e l’origine progetto?
Il progetto ha origine da un festival culturale “L’Arte della Felicità” ideato, nove anni fa, a Napoli dal produttore Luciano Stella. Una rassegna di parola, incontri e conversazioni dove hanno partecipato molti personaggi nazionali e internazionali, filosofi, monaci, da Moretti a Galimberti a Bauman e Augé. Ogni anno affronta un tema specifico che può essere l’amore, la paura e la solitudine. C’era molto materiale su questo terreno perché avevamo intervistato i nostri ospiti e il produttore ha pensato di fare un documentario in animazione che raccontasse il valore di tali esperienze condivise. Una grande passione che si è trasformata in una storia di finzione, un lungometraggio con una sceneggiatura originale.
Elemento fondamentale del film sono le musiche originali composte e dirette da Antonio Fresa e Luigi Schiavone
Abbiamo avuto la collaborazione di molti amici musicisti che hanno messo a disposizione i loro pezzi e hanno contribuito a costruire il film, a orientarlo e disorientarlo, portandolo sulla strada che poi ha preso. Sono pezzi della scena partenopea, di amici e di talenti napoletani che ascoltavamo e si sono mischiati già durante i primi processi di lavorazione del lungometraggio. Si sono miscelati diventando degli spunti e dei contributi effettivi. Abbiamo cercato, semplicemente, di coordinare questi talenti e questa voglia, in un prodotto unico.
Nel film è presente il richiamo orientale, ci spieghi il binomio Napoli- Oriente?
Questa è una fissazione del mio produttore, un grande appassionato di filosofia e religioni orientali. Un amore che ha trovato in me un terreno fertile per questo tipo di approfondimento. Prima della stesura del film, abbiamo cercato di trovare dei punti di incontro. Le filosofie e religioni orientali sono dei messaggi allo spirito di ognuno e non possono trovarci insensibili e indifferenti. Dall’altra parte il fatto di vivere a Napoli è un’altra componente del nostro essere, la mia, di Luciano come produttore e di tutte le persone che hanno partecipato. Quindi sono stati campi di esplorazione paralleli, legati a questi due anni di lavorazione. L’Arte della Felicità è stato costruito con la collaborazione di tutte le persone che hanno contribuito alla sua realizzazione. In qualche maniera il film è dedicato a tutti loro.
Cosa rappresenta per te essere qui alla Mostra del cinema di Venezia e presentare il tuo primo lungometraggio?
Ha significato molto di più l’esperienza di due anni di lavoro perché è stata continuativa e mi ha permesso di approfondire la conoscenza di molte persone. Le conseguenze di un amore non sono interessanti come l’ amore.
Il film è ambientato a Napoli sotto una pioggia incessante e alle prese con il problema dei rifiuti urbani. Cosa ha significato questa scelta?
L’idea è di raccontare come una percezione personale si possa legare a una situazione collettiva e andare a creare un clima pre apocalittico, dove quello che conta di più sono le impressioni dei singoli e non parliamo di una Napoli che è sempre così. Ma poi il cinema la fissa come un momento eterno o come un momento di preparazione a qualcosa di definitivo, un sorta di evento apocalittico. In realtà, è uno scorcio di una prospettiva personale allargata e ulteriormente incentivata da un contesto che risulta in quel momento negativo.