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“Piccola Patria”, in concorso nella sezione Orizzonti, è il primo film di Alessandro Rossetto. Il regista padovano ci racconta il suo “lungometraggio di finzione” dopo anni trascorsi a girare documentari. Il film, ambientato in un non luogo del Nordest, agricolo e operaio, quello delle poche parole e del molto lavoro, raccoglie storie reali che fotografa senza alcun giudizio. Una piccola patria dell’anima. Protagoniste della storia Luisa (Maria Roveran) e Renata (Roberta Da Soller) giovani anime alla ricerca di una via di fuga alla vita indolente della periferia. Utilizzano ricatti, menzogne e mercificano i loro corpi inseguendo la propria strada. Una nuova generazione che si sovrappone alla vecchia. Visioni diverse accomunate dalla medesime zone d’ombra.
Come nasce l’idea del film?
Il film nasce, qualche anno fa, come scrittura condivisa con Caterina Serra, entrambi padovani. Questa storia poteva accadere ovunque. Il film è una tragedia classica: analizzandolo non è difficile capire che abbiamo lavorato sulla schema della tragedia classica e su una miriade di piccole e medie storie che abbiamo ascoltato nel Triveneto. I temi toccati sono: difficoltà nelle relazioni, esplosione della famiglia, mercificazione del corpo dei giovani, perdita di orizzonte e speranza. Non ci sono garanzie e penso che questo sia abbastanza universale.
Come è stato il suo lavoro con gli attori del film dopo le numerose esperienze nel documentario?
Lavorando con gli attori ho cercato un’energia forte e rappresentativa, frutto di momenti magici. In qualche modo questo mio film non è dissimile dai film documentari perché lavoro sull’atmosfera, sui corpi, sugli spazi, sulla irrepetibilità dei momenti, sull’immersione dei temi attraverso l’azione, ma senza giudicare. Il magma parte dall’idea filmica che poi in qualche modo intersechi la slabbratura del territorio. Significa calare una finzione in situazioni reali.
Perché Piccola Patria?
Noi italiani abbiamo recuperato, da una quindicina di anni, questo rapporto con la patria, complici un paio di nostri Presidenti della Repubblica. Questo film è proprio una Piccola Patria dell’anima. Ho fatto un’operazione precisa per dare profondità alla storia e ai personaggi, ho voluto lavorare con il dialetto che è qualche cosa che ci prescinde. Credo che gli attori con questo recupero siano riusciti a riprendere uno status che è quello delle proprie origini, della terra e, in questo senso, della Patria.
Perché ha scelto di ambientarlo nel Nordest?
Il posto del film volontariamente non è determinato. Non è girato in una città riconoscibile. Come mi è successo in passato, cerco di lavorare su un’impressione di un territorio ma senza determinarlo, senza nominarlo. Cerco sempre e, in qualche modo l’ho fatto in questo caso, di sollevarmi spazialmente e temporalmente. Questa storia poteva essere ambientata ovunque. Possiamo trovarla a Singapore, nel Nebraska e appunto a Vicenza e a Agrigento. I temi che abbiamo affrontato appartengono a tutti e sono difficoltà relazionali amicali, amorose, conflitto generazionale e interno alle famiglie.
In che modo la sua esperienza, come documentarista, è entrata nel lungometraggio?
Non è un docu –film ma è un film di finzione dove, non in maniera inedita, sono stati usati gli strumenti del documentario. E’ vero che la mia esperienza mi ha portato a costruire una realtà di lavoro fatta di libertà e della possibilità di sostituire o adattare le scene alle situazioni che si creavano e ai personaggi. C’è un grande rispetto per quello che ti accade davanti nel momento preciso in cui ti succede, questo nel documentario è imprescindibile. Perché la realtà non si ripete.
Nel film affronta il tema della nuova generazione di immigrati.
I segni positivi in questa tragedia sono il recupero del sentimento amoroso di Luisa, la protagonista, dopo i guai che ha combinato e l’amore puro del ragazzo albanese. In questo senso credo che si possa parlare di nuovi italiani. Il nostro è un paese che soffre molto di corruzione e di degrado. Credo che questi giovani uomini e donne, provenienti da altri paesi, siano ormai parte integrante. In Triveneto questo elemento è molto importante e qui, ho voluto sottolineare il dato di speranza.
Come mai ha scelto di utilizzare il dialetto?
La lingua è uno degli ingredienti importanti per la buona riuscita del lavoro degli attori, perché gli attori dovendo lavorare con il dialetto che è una lingua pre materna hanno portato una profondità, non di tipo psicologico ma antropologico ai personaggi. Confesso che ho temuto che potessero emergere componenti folcloristiche ma dopo la prima mezza giornata di lavoro questo dubbio è stato completamente messo da parte. Conosco e uso questo dialetto, è stata la lingua con cui ho diretto gli attori. Il dialetto vive, ed è la vita di giorno in giorno che lo mantiene vivo. Lo ho utilizzato per fini cinematografici, non mi interessa fare della sociologia.