fiatosospCostanza Quatriglio, ha la forza della determinazione dalla sua parte, è tenace, sorridente e non ha paura di dire quello che pensa.
La regista palermitana presenta Fuori Concorso a Venezia “Con il fiato sospeso”. Il film racconta la storia di Stella (Alba Rohrwacher), una studentessa della facoltà di chimica che si sente male a causa delle esposizioni a sostanze tossiche presenti nel laboratorio dove fa la ricercatrice. La sua vicenda si intreccia con il diario di Emanuele (Michele Riondino) un dottorando, morto di tumore, che ha seguito, qualche tempo prima, il suo stesso percorso universitario. La pellicola è un viaggio autentico intrapreso dalla regista dopo aver letto, alla fine del 2008, un articolo sulla chiusura del laboratorio di chimica della Facoltà di farmacia dell’Università di Catania per sospetto inquinamento ambientale. Contemporaneamente viene ritrovato un memoriale scritto da Emanuele in cui denuncia le condizioni insalubri del laboratorio di ricerca.
Oggi si attende la conclusione del processo che vede imputati i vertici della Facoltà. Anni di documentazioni e incontri, hanno dato vita a un suggestivo film, metafora di un paese che manda i suoi figli alla guerra.

 

 

Ci racconti il lavoro che avete fatto insieme?

Alba Rohrwacher: Quando Costanza mi ha coinvolto in questo progetto, ho detto subito di sì perché mi sembrava importante che questa storia venisse raccontata. Inizialmente ho sentito una grande responsabilità che nasce da un grande limite e in questo limite ha trovato una forma libera e nuova. Sentivo anche un pudore, un rispetto profondo, per chi quella storia l’aveva vissuta davvero. Abbiamo iniziato a lavorare e, in questi pochissimi giorni, abbiamo girato prima le scene nel laboratorio di ricerca e poi, quando siamo arrivati all’intervista, sapevo che c’era un’onestà, un rispetto vero e che quella intimità poteva uscire dal mio personaggio.

Costanza Quatriglio: Le ho parlato tante volte di quali potevano essere i sentimenti chiave di questa storia. Ho cercato di costruire un percorso insieme ad Alba che le permettesse di fare un’esperienza cui attingere per costruire al meglio il personaggio di Stella. Ti colpisce che questi ragazzi abbiano questa grande passione per lo studio e colpisce questo tradimento gigantesco che è sotto gli occhi di tutti. Quindi, da un lato abbiamo lavorato sui concetti e poi sull’esperienza in laboratorio. Questo esercizio ci ha permesso di creare quel cortocircuito che è alla base di quella relazione privata, intima di cui parlava Alba. Un film di finzione ma girato sulla base di un precipitato di realtà che sulla pellicola diventa potente.

 

Come attrice c’è una ricerca diversa. Come hai lavorato per interpretare questo ruolo?

A.R.: C’era un testo che aveva scritto Costanza e che poi è diventato nuovo nel momento in cui lei mi faceva le domande e si è arricchito poi di sensazioni, nate con le sequenze girate in laboratorio. Durante l’intervista e le giornate trascorse nei laboratori di ricerca, si è creato qualcosa di molto intimo, tra me, la direttrice della fotografia, Costanza, che era l’intervistatrice, e il fonico. Era come una confessione e non c’era la macchina del cinema a invadere uno spazio.

 

Si parla molto di Università per i tagli e per i tanti problemi di accesso allo studio. Quando vi siete accostate a questa storia, la morte attraverso lo studio, come vi siete sentite?

C. Q.: Ho considerato questa vicenda esemplare di uno stato dell’arte dell’Italia e del futuro dei ragazzi. Ho trovato ispirazione dal diario di Emanuele, dove denunciava le cose che non funzionavano in quel laboratorio. Non mi interessa più dire se è dimostrabile o no che la sua malattia sia connessa o no a quel laboratorio, quello che mi interessa dire è che, a volte, nell’Università si muore anche psicologicamente. Una morte come metafora del fatto che in questo paese, negli ultimi anni, si è persa completamente l’idea di progettualità del futuro. C’è troppo cinismo, si è persa l’idea di passione e di pietas, perché in questo film c’è anche l’amore per quello che fai e per il prossimo. In Italia oggi esiste solo un’Università verticistica che pubblica, pubblica, pubblica e basta.

A. R.: Questo film racconta anche un altro punto di vista, quello di chi va alla guerra e va verso la morte per una passione. Si, è vero che ci sono dei vertici che ti tradiscono, che ti vogliono schiacciare e ti portano nel baratro della morte, ma c’è anche un esercito che, dalla mattina alla sera, fa della loro vita universitaria una ragione di esistere. Queste generazioni spesso vengono rappresentate come perse, in un luogo smarrito. Invece, nel film, c’è una generazione cosciente e consapevole che cerca di modificare le cose e qualcuno che non permette di cambiarle.

 

Il film ha un linguaggio diverso, come ti sei trovata?

A. R.: Il film è nato mentre lo facevamo, eravamo coerenti con un sentimento e, per questo motivo, tutto poteva funzionare. Poteva funzionare che io venissi catapultata dentro un gruppo di ricerca vero che mi ha accolta, anche se non aveva mai avuto a che fare con il mezzo cinematografico e, in questo modo, anche l’intervista, prima approcciata con pudore, è diventata naturale. Dicevo sempre a Costanza che questo limite sarebbe diventato la forza del film.

C. Q.: Questa bellissima frase di Alba, mi è stata detta anche dai mie collaboratori che hanno sposato il progetto e lavorato in modo volontario. Ci sono tre cose di cui si parla sempre: la libertà, l’indipendenza e la solitudine. Questo film aveva il pregio della libertà, il privilegio dell’indipendenza, ma ha rischiato il dispiacere della solitudine. Per fortuna non è così: è bastato farlo vedere, le persone se ne sono innamorate e la Mostra del Cinema di Venezia lo ha voluto.

 

Quale reazione ti aspetti da Venezia?

C. Q.: Mi aspetto rispetto. Non è un “J’accuse” nei confronti dell’Università di Catania, non è un film a tesi, ma pone delle questioni e la principale si racchiude nella frase che il professore dice alla propria allieva: “Quando noi abbiamo incominciato a lavorare in laboratorio non sapevamo che l’amianto e il benzene erano cancerogeni”. Questa è il tema del film, noi viviamo in un paese che non si è mai addestrato al progresso. In Italia c’è la classe dirigente più vecchia d’Europa e se tu lavori e studi con delle categorie concettuali vecchie di sessanta anni, è chiaro che sei sempre ancorato al passato e non pensi mai al futuro. Questa è la vera riflessione.”