labculturaSulla scena italiana il management culturale ha mosso i primi passi fra gli anni Settanta e Ottanta. Quasi un ossimoro, considerato al pari di un’eresia, si è piano piano affermato catalizzando l’interesse della comunità scientifica e diventando lo snodo focale di ricerche, pubblicazioni, convegni e disquisizioni. Volgendo lo sguardo agli ultimi venti o trent’anni si vede molta astrazione accademica di fatto basata sul principio del copia-incolla: prendiamo il management generalista, attacchiamogli l’aggettivo culturale e salveremo le sorti finanziarie della cultura.

Il sillogisma, fragile e velleitario, è nipote di Baumol e figlio di qualche economista bravo con i numeri ma estraneo alle Muse; visto che così non funziona, importiamo i protocolli gestionali delle aziende senza se e senza ma. Tuttora molti punti nevralgici del sistema culturale sono in attesa di un’analisi che si basi sulle specificità uniche della cultura e non, come di norma avviene, sulla sua acritica omologazione al paradigma manifatturiero.

In un Paese ossessionato da pezzi di carta e certificazioni non può sorprendere che il bisogno di management culturale sia stato accompagnato da un proliferare di corsi di studio, seminari, workshop e convegni connessi al patrimonio culturale e alla sua capacità di generare valore. Qui, da molti anni, si assorbe un gran numero di giovani (studenti o professionisti) che il mercato del lavoro culturale non è in grado di assorbire, vuoi per le forti barriere all’ingresso vuoi per l’insufficienza di percorsi formativi che spesso distribuiscono risposte a buon mercato senza mai circostanziare domande pertinenti.

Si deve peraltro osservare che la parziale efficacia della formazione è dovuta anche – o soprattutto? – alla mummificazione del sistema culturale, cristallizzato sotto il reticolo piuttosto blindato di una nomenklatura di vecchia generazione nella quale spesso l’esperienza cede all’automatismo compiacente e teme la sperimentazione come un grimaldello che farebbe vacillare il consenso esterno (ossia della classe politica che stabilisce le regole del gioco) e interno (ossia dei sindacati che lavorano con impegno per il mantenimento dello status quo).

Un insieme ristretto di nomi occupa gli spazi disponibili, spesso ricoprendo molteplici cariche contemporaneamente. Non sorprende dunque che il sistema cuturale italiano sia un magnifico fossile: alle nuove generazioni l’ingresso è sostanzialmente precluso e molte delle poche possibilità che si aprono non offrono la reale occasione di progredire e fare carriera. Uno stagista che conclude un master si affanna per fare il cassiere nel bookshop di un museo, con ogni probabilità lo ritroveremo a rilasciare scontrini anche a quarant’anni.

Le norme che regolano il lavoro culturale sono fortemente costrittive, e le risorse umane non possono essere valutate secondo il loro merito, né gestite secondo le necessità strategiche del datore di lavoro. Organismi anomali come le Fondazioni di Partecipazione possono considerarsi private solo sulla carta. Spesso le figure prescelte per occuparne i vertici sono nomi ripescati dalla politica locale o dalla pubblica amministrazione, insigniti del ruolo sulla base di interessi più o meno evidenti, provenienti da percorsi formativi e professionali anche molto distanti dalla gestione del patrimonio culturale.

Allo stesso tempo, rinnovare la forza lavoro esistente può risultare un’impresa ardua, se non impossibile. I posti disponibili sono pochi, le assunzioni possono considerarsi bloccate anche nel privato o “para-privato” e spesso non è possibile operare una messa in discussione dei ruoli sulla base dei risultati registrati. I bizantinismi del mercato del lavoro culturale impediscono qualsiasi possibile misurazione e valutazione di performance, tanto per i vertici quanto per i dipendenti, compresi quelli con mansioni fungibili.

Per il settore culturale il capitale umano è una risorsa fondamentale per tutte le fasi che ne declinano la vita, produzione, gestione, valorizzazione, comunicazione. Senza strategia non si può attivare alcun percorso evolutivo, il che esclude il bisogno di innovazione. Le risorse umane così finiscono per essere scelte in quanto passive, le esperienze esterne e le best practices vengono dimenticate, le relazioni con il resto del sistema culturale e con l’economia territoriale vengono snobbate. La cultura italiana è descritta da una mappa di poli verticali che si ignorano reciprocamente e si considerano nemici.

Quando si parla del problema delle competenze degli operatori culturali, tematica tutt’altro che nuova sull’orizzonte del dibattito, si fa riferimento a molti dei ragionamenti appena esposti. E’ dalla fine degli anni Novanta che s’invoca la necessità di creare una nuova e più moderna “cultura dell’impresa culturale” (Lucio Argano, 1998), procedendo con una valutazione degli effettivi bisogni formativi e d’impiego in ambito gestionale rispetto al settore. Il processo di rinnovamento organizzativo delle istituzioni e delle organizzazioni artistico-culturali e l’inquadramento delle figure professionali dal punto di vista giuridico, della spendibilità dei titoli, dei meccanismi di valutazione, selezione e reclutamento sono svolte essenziali, la cui necessità è stata denunciata a gran voce da diversi anni.

In questi tempi di profonda crisi, in cui si assiste alla progressiva riduzione del sostegno pubblico alla cultura, è fondamentale ragionare sulle fonti alternative di finanziamento. Questo non vuol dire pensare in maniera esclusiva al fundraising e ai contratti di sponsorizzazione, ma piuttosto impegnarsi nella definizione pratica di modelli di business che, pur considerando queste voci d’entrata, vedano nella generazione autonoma di reddito il motore fondamentale della sostenibilità economica. In altre parole, è giunto il momento di passare dalla teoria alla pratica.

I manager culturali dovrebbero saper interpretare il ruolo che la cultura (già) occupa in un paradigma economico inedito, in una società tendenzialmente cosmopolita e relazionale. E’ tempo di sperimentare nuovi indirizzi strategici che si fondino sui profili specifici della cultura come prodotto multidimensionale, capace di penetrare nuovi mercati, di ibridare produzioni eterogenee, di dar forma a modelli sociali che accrescano la qualità della vita urbana. Convegni e tavole rotonde non bastano più. Il thread dei prossimi anni deve mescolare visioni ed esperienze, e immaginare scenari liberi da dogmi e luoghi comuni.