sacgrA poche settimane dalla chiusura della 70ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, mentre c’è chi ancora discute sulla novità, divenuta un vero e proprio casus nazionale, della vittoria di un documentario, emerge con una certa chiarezza un nuovo orientamento del cinema verso la marginalità del tessuto urbano.
Sembra infatti che il cinema, indipendentemente dalla sua geografia e dai suoi territori di provenienza, si stia orientando verso una rappresentazione delle periferie e del conflitto, non condotto da una classe sociale specifica, ma da singoli individui e a partire da questioni personali.

È quello che appare in film come Locke (Inghilterra), Stray Dogs (Cina) o Tom à la ferme (Canada). Ed è tanto più interessante se, a dimostrarlo, sono anche due dei film italiani in concorso. Di là dal diverso genere, Sacro GRA di Gianfranco Rosi (un documentario) e L’Intrepido di Gianni Amelio (una commedia amara) offrono uno sguardo finalmente lontano dal cliché della città-panorama, con una visione più realistica di Milano e Roma, non a caso le città italiane più grandi e quelle con una periferia più estesa.

La Milano di Amelio, attraversata da un’umanità precaria, vede il protagonista del film Antonio Pane (interpretato da Antonio Albanese) vivere il buio lavorativo e umano della crisi economica. La grande città non è più un luogo di sogni e di speranze, come già d’altro canto il cinema militante degli anni ’70 aveva lasciato intuire, ma un insieme di spazi aperti e conflittuali, in cui non c’è più posto per rincorrere i miti consumistici del guadagno e del successo perseguiti dalla mitologia della Milano da bere degli anni ’80.
L’intrepido trova la propria collocazione specifica nella città dei cantieri della zona Garibaldi e nelle zone nord della Ghisolfa e della Bovisa, non a caso i luoghi dove Testori e Bianciardi avevano ambientato le vicende dei protagonisti dei loro romanzi. Quelli attraversati da Amelio sono spazi di spaesamento che, mimeticamente, fanno da eco alla dimensione di vuoto esistenziale e di ricerca della sussistenza da parte dei personaggi.
La vicenda è quella di un onesto lavoratore dai mille mestieri, ingaggiato da un’organizzazione paracriminale allo scopo di fare “rimpiazzi”, di sostituire cioè quei lavoratori salariati che prendono un congedo per un giorno o addirittura solo per alcune ore. In questo eccesso di zelo per il lavoro, divenuto un vero e proprio miraggio per il quale si è pronti a tutto, non c’è più spazio né per l’immaginario del centro storico, tanto caro all’urbis italiana, né per i luoghi dello shopping o del consumo tardo-capitalista.

Gli spazi colonizzati dall’umanità che popola il film di Amelio, come anche quella protagonista del documentario di Gianfranco Rosi, sono cantieri, cavalcavia, svincoli a ridosso di arterie stradali, luoghi di percorrenza trafficati e rumorosissimi. Ed è proprio il rumore a martellare la trama sonora di Sacro GRA, il film sul grande raccordo anulare e discusso vincitore del Leone d’Oro.
Come un anello di Saturno, recitano i titoli di testa, il GRA circonda Roma e segna una frattura geografica tra i colli e la città, tra la periferia e la campagna o, più idealmente, tra il mito della fondazione dell’Urbe e la sua permanenza nella memoria contemporanea. Il GRA, Sacro come il Graal in un gioco di parole voluto, è una minaccia e una dannazione per chi ne fruisce: fagocitante e ostile, viene connotato sin dalle prime inquadrature, in cui un’ambulanza soccorre la vittima di un incidente, come luogo di pericoli e di solitudine e diventa in questo senso la metafora del cittadino metropolitano, unito artificialmente agli altri in una rotta comune segnata dall’attraversamento dello stesso non-luogo, ma isolato nel suo dirigersi verso destinazioni tutte diverse, incurante del percorso degli altri. Ai suoi bordi sopravvive un’umanità residuale, gregaria.
Un uomo cura le palme dal punteruolo rosso, due transessuali vivono su una roulotte, un pescatore intesse le reti per praticare il suo antico mestiere nei canali del Tevere, due ragazze fanno le ballerine in un locale notturno per il piacere dei giovani di periferia, alcune prostitute si accalcano davanti ad un camioncino ambulante per consumare un panino nella notte.
Sono i piccoli eroi a cui il film vuole dare dignità. I loro luoghi sono case cadenti, edifici percossi senza sosta dal rumore, vecchie dimore romane ridotte a isole in mezzo al traffico e al cui interno i nobili proprietari ripropongono a se stessi l’autocelebrazione delle proprie ricchezze.
Quella descritta è dunque un’umanità desolata, eppure attaccata al proprio microcosmo e, proprio per questo, emblematica nella sua resistenza. In una casa popolare spiata dalla macchina da presa attraverso le finestre aperte, l’occhio di Rosi fa intravedere spiragli di una quotidianità povera, eppure costellata da piccoli eventi formidabili come osservare il panorama dalla finestra, o affettare una melanzana marcia per recuperarne i pezzi intatti con lo stupore di chi assiste a un miracolo. Ed è proprio la dimensione miracolistica, vicina al realismo magico di Miracolo a Milano, ad essere recuperata da questo nuovo cinema urbano, al cui centro c’è un’umanità che resiste nella sua umiltà e che cerca di guadagnare la propria sopravvivenza, come le palme contro le aggressioni del punteruolo rosso.

I centri, di Roma come anche di Milano, invece, rimangono ai margini dell’inquadratura, lontani e inarrivabili. In questa disgregazione dell’unità urbana come concetto e come spazio, la collocazione della macchina da presa extra moenia, in quei luoghi altri e ritenuti poco interessanti dal cinema postmoderno, segna un ritorno dello sguardo cinematografico al realismo. Là dove il sogno della città è stato tradito e i suoi frammenti non sono più ricomponibili in un quadro organico, le periferie sembrano essere quei luoghi di resistenza dove si fa spazio la ricerca di un’identità e di un significato nuovi.