Basta dare un rapido sguardo alla storia dell’arte degli ultimi cento anni per rendersi conto che una delle principali peculiarità di quella che viene comunemente definita come “arte contemporanea” è la sua forte apertura nei confronti di altre discipline artistiche, come la danza, il cinema e il teatro. Si tratta di una trasformazione di linguaggio notevole, perché per la prima volta l’arte non viene più rappresentata con figure dipinte su una tela o sculture, ma anche attraverso altri strumenti e forme di comunicazione: le performances, gli happenings, i video sono solo alcuni dei nuovi mezzi utilizzati dagli artisti per veicolare messaggi, spiegare il mondo in cui viviamo e dare una chiave di lettura per il futuro.

Tra i tanti campi culturali che hanno arricchito il linguaggio dell’arte contemporanea vi è, senza dubbio, la musica. Era il 29 agosto del 1952 quando a Woodstock, nello stato di New York, venne eseguita per la prima volta in pubblico la controversa opera 4’33” di John Cage, geniale compositore e innovatore del secolo scorso. Si trattava di un brano musicale… Senza musica! La composizione, divisa in tre movimenti, era stata concepita dal suo creatore per essere suonata con qualsiasi strumento musicale e da qualunque gruppo musicale, ma sullo spartito veniva data l’indicazione di non suonare per l’intera durata del brano, ovvero i 4 minuti e 33 secondi evidenziati dal titolo.
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È una delle prime volte in cui la musica viene assunta a protagonista di una performance che ha tutti i connotati dell’opera artistica. Il pensiero di John Cage a riguardo era molto poetico: è impossibile raggiungere una situazione di silenzio assoluto, perché saremo sempre catturati da qualche pallido suono, sia esso anche il nostro respiro, il battito del nostro cuore o il rumore dei nostri passi. Ecco, dunque, che quei semplici rumori diventano le ignare note di un brano impossibile da replicare nella sua straordinaria unicità.

Dalla metà del secolo scorso in poi, la musica è entrata in maniera prepotente nel mondo dell’arte contemporanea, ma negli ultimi anni questa forma di “collaborazione” sta assumendo un volto completamente nuovo, grazie soprattutto al ruolo inedito che le viene dato da alcuni dei più importanti musei del mondo. Gli esempi che si possono fare in questo senso sono tanti: il 7 marzo 2008 il leggendario musicista inglese Mike Oldfield (famoso per classici come Tubular Bells e Moonlight Shadow) si è esibito all’interno del Guggenheim di Bilbao, presentando in anteprima, insieme a coro e orchestra, quello che finora è l’ultimo album della sua carriera, “Music of the Spheres”.
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Nel 2012, invece, il Museum of Modern Art di New York ha organizzato una retrospettiva dedicata interamente alla band tedesca dei Kraftwerk, geniali e storici pionieri della musica elettronica moderna, nonché lucidi anticipatori delle principali tendenze socio – economiche e culturali che hanno interessato il mondo dagli anni ’70 a oggi. La retrospettiva è stata spalmata nell’arco di otto giorni, ognuno dedicato a uno degli otto studio albums pubblicati finora. Il risultato? Una straordinaria commistione di musica di alta qualità e scenografie video tridimensionali. Un successo eccezionale, considerando che le otto serate sono andate “sold out” in poco tempo.
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E forse non tutti sanno che il 2 agosto di quest’anno lo stesso MOMA ha ospitato una performance molto coinvolgente del noto rapper americano Jay Z, che ha cantato per sei ore di fila il suo brano Picasso Baby davanti a un pubblico selezionato, con alcuni fortunati che hanno avuto la possibilità di interagire con lui, ballando o seguendo la performance seduti su una panchina a poca distanza dal cantante. Tra gli ospiti d’eccezione, anche la regina indiscussa della performance art, Marina Abramovic, ideatrice di questa opera corale e musa ispiratrice di un’altra famosissima artista quale Lady Gaga, che già nel 2010 aveva partecipato alla performance “The Artist is Present” (sempre al MOMA di New York), sedendosi per qualche minuto davanti alla performer e innescando una silenziosa comunicazione basata esclusivamente sul linguaggio espressivo degli sguardi e sulle emozioni.
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Gli esempi di fusione tra le due galassie della musica e dell’arte contemporanea sono tanti e di certo non ne mancheranno altri in futuro. La strada per la nascita di una vera e propria “Music Performance Art” ormai è segnata e pare che sia anche molto apprezzata dal pubblico, a giudicare dal successo ottenuto dalle performances indicate in precedenza. C’è chi potrebbe obiettare che queste siano delle mere operazioni di marketing per richiamare pubblico all’interno dei musei, ma se anche fosse così, cosa ci sarebbe di male? Oltretutto, stiamo parlando di strutture (MOMA e Guggenheim) che non sembrano affatto essere in crisi di pubblico, anzi… Più che altro, utilizzare la musica e i suoi principali protagonisti può aiutare a coinvolgere e attirare una fetta di visitatori giovani, con l’indubbio vantaggio di avvicinarli anche alla stessa arte contemporanea. E scusate se è poco…