italian museum signIn Italia, negli ultimi vent’anni, il ruolo del privato nel settore culturale si è costruito e giocato principalmente sul fronte dei servizi aggiuntivi. Facendo il loro ingresso con la Legge Ronchey del 1993 ed ampliando progressivamente il loro raggio d’azione con le misure normative che sono seguite – dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 al Decreto Legge 159 del 2007 – imprese e organizzazioni hanno provato ad introdursi nel mercato dei servizi culturali, fronteggiando numerose difficoltà, dall’inadeguatezza normativa alle restrizioni amministrative imposte.

Se inizialmente la Legge Ronchey ha previsto la concessione di un set ristretto di servizi – nello specifico: il servizio editoriale, di vendita e riproduzione, i servizi di caffetteria e ristorazione e la vendita di beni legati all’informazione museale – perseguendo criteri di convenienza finanziaria e aumento della qualità offerta, col passare degli anni è cresciuto il numero delle attività affidate a soggetti esterni all’amministrazione pubblica. Sempre più spesso sono i servizi afferenti la gestione ordinaria ad essere dati in concessione, dalla gestione delle biglietterie alla vigilanza delle sale, insieme ad attività strettamente connesse alla valorizzazione, come ad esempio la didattica. Il Codice Urbani ha posto l’accento sulla volontà di favorire forme di sussidiarietà orizzontale nella gestione del patrimonio e i “servizi al pubblico” sono oggi diventati, a tutti gli effetti, un tassello nel più ampio piano di valorizzazione delle strutture culturali.

L’evoluzione del contesto e delle stesse attività culturali rendono oggi particolarmente manifesti i limiti e le criticità dell’assetto giuridico vigente, che dovrebbe essere rivisto e aggiornato da molteplici punti di vista, dalle modalità di esternalizzazione dei servizi alla durata degli affidamenti, dalla sperimentazione di forme innovative di collaborazione alla concessione di una maggiore autonomia decisionale ai privati.

Il mondo dei servizi aggiuntivi in Italia si trova ad affrontare una situazione di forte confusione, le esperienze maturate negli ultimi vent’anni presentano oggi un settore frammentato, poco trasparente, dall’apparente scarsa redditività, popolato da soggetti imprenditoriali incapaci di progettare i servizi e la valorizzazione in un’ottica ad ampio spettro. Si pone la forte necessità di rivederne le dinamiche e la regolamentazione, così da far evolvere il settore e i suoi protagonisti.

In questa fase di transizione sempre più spesso viene chiamato in campo il Facility Management, quale potenziale best practice per il settore culturale, vera e propria chiave di volta per avviare una nuova fase della gestione pubblico-privata della cultura. In estrema sintesi, per Facility Management s’intende il coordinamento unitario di tutte le attività che non rientrano nel core-business aziendale ma che sono tuttavia necessarie per il funzionamento dell’organizzazione. A caratterizzare con forza questo approccio è l’affidamento unitario di tutte le attività non core – quindi di servizi fra loro anche molto diversi – ad una singola impresa o ATI, che ne cura la gestione in un’ottica integrata, riducendo i costi amministrativi e gestionali legati alla diversificazione dei contratti e agevolando l’accorpamento di alcune prestazioni. Il fornitore che subentra s’impegna a predisporre una sorta di cabina di regia sulle varie attività – si pensi ad esempio al Global Service – deve per questo possedere un insieme di competenze ampio e diversificato ed è spesso vincolato da accordi e contratti basati sulle performance

Ma il sistema culturale italiano è pronta ad accogliere il Facility Management?
L’ecosistema italiano della cultura può essere efficacemente paragonato ad un museo diffuso, una rete che ospita quattro o cinque attrattori e circuiti di grande richiamo, ma che annovera poi un fitto tessuto di istituti culturali di dimensioni minori, disseminati capillarmente sul territorio nazionale. Per ricchezza e frammentazione il patrimonio culturale italiano può considerarsi unico e non si può non prendere atto di tale unicità anche nelle scelte amministrative.

Il Facility Management può rivelarsi uno strumento adeguato anche per la gestione dei servizi culturali nei sistemi minori? Le nostre imprese sono giunte ad uno stato di maturità che consenta loro di competere con i grandi gruppi internazionali attivi nel settore? Se così non fosse, questi soggetti sarebbero gli unici a beneficiare dell’apertura del mercato e, ancora una volta, assisteremo inerti alla colonizzazione delle nostre risorse.

Prima di rivolgere tutte le attenzioni ad uno strumento come il facility management forse dovremo partire dai limiti strutturali della situazione attuale per sostenere la nascita e la crescita delle PMI del settore culturale, guidandole all’interno di sistemi territoriali ben oliati, capaci di trasformare gli attrattori culturali in fonti di ricchezza da ridistribuire sul territorio. I musei, le aree archeologiche e i siti culturali sono catalizzatori di flussi, attorno ai quali possono nascere e svilupparsi tutta una serie di servizi, dal retail al turismo, alle nuove tecnologie – che possono costituire terreno fertile per una generazione di startup e micro imprese innovative.

Un giorno, forse, queste imprese saranno maturate ad un punto tale da poter competere con i grandi player internazionali e l’apertura del mercato non potrà che essere lo step fondamentale per proseguire con una crescita virtuosa. Fino a quel momento, non possiamo pensare di fronteggiare i giganti con le nostre sole mani e dobbiamo saper valutare attentamente i retroscena di ogni scelta di gestione afferente il patrimonio.