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Applausi in sala dopo la proiezione in anteprima stampa del primo film italiano in concorso: “I corpi estranei” dello sceneggiatore e regista milanese Mirko Locatelli con Filippo Timi e Jaouher Brahim e la colonna sonora dei Baustelle. Il regista arriva al Festival di Roma per presentare dopo, il primo giorno d’inverno, il suo secondo lungometraggio.
La storia è quella di Antonio (Filippo Timi), padre di un bambino con un tumore al cervello che dall’Umbria arriva a Milano, da solo, per cercare di guarire il piccolo. In ospedale la sua vita si intreccia con quella Jaber, quindici anni, scappato dal Nord Africa e dagli scontri della Primavera Araba. Jaber assiste il suo amico Youssef anche lui gravemente malato.
Due anime sole che si intrecciano, per puro caso, due corpi estranei che entrano in contatto per condividere una situazione straziante. Dopo l’iniziale diffidenza e fastidio, Antonio, un uomo umbro, semplice e pieno di preconcetti nei confronti della cultura araba, fa amicizia con Jaber e instaura un dialogo. I due si muovono in un mondo fatto di corsie di ospedali e di bancali di mercati notturni dove Pietro lavora per guadagnare due soldi e di immigrati solidali, in attesa di quel cambiamento che riporti equilibrio nelle loro esistenze. Questa conoscenza darà ad Antonio la forza e la volontà di assistere il figlio malato e di accettare che il dolore e la preghiera sono uguali in tutti i posti del mondo.
“Siamo partiti da un’immagine” – racconta Locatelli in conferenza stampa -. “Mia moglie (Giuditta Tarantelli che è anche la sceneggiatrice e co-produttrice del film) mi ha sottoposto un uomo solo con in braccio un bambino in un reparto di oncologia pediatrica. Intorno a questa immagine abbiamo creato una storia, puntando sulla fragilità dell’adulto che è anche più forte di quella del bambino. Insomma, volevamo parlare della solitudine del papà in un film non sul dolore ma appunto sulla fragilità. Così la malattia diventa solo un pretesto”.
Il regista pone l’attenzione anche sulla dignità dei protagonisti e non solo: “Antonio è un eroe silenzioso, lontano dalla famiglia per proteggere suo figlio; Jaber, poco più che un ragazzino, si muove quasi sempre nel buio, come fosse a guardia del corpo, ancora vivo, del suo amico Youssef; e quella di tutti gli uomini e le donne che lottano per la sopravvivenza, propria o dei propri cari, nella corsia dell’ospedale come tra i bancali di un mercato notturno”.
Riguardo il suo personaggio Filippo Timi dichiara: “Antonio è uno gretto, un umbro incapace di aprirsi al mondo, ma che, grazie a questa trasferta a Milano, deve confrontarsi con delle cose che lui non conosceva” e racconta anche una sua personale vicenda: “da bambino ho avuto anche io un’esperienza d’ospedale – spiega Filippo Timi -. A sei anni mi portarono infatti a Pisa perché zoppicavo e mi regalarono la prima scatolina di Lego. Poi ho scoperto, a trenta anni di distanza, che pensavano avessi un tumore alle ossa. Comunque – aggiunge – questo è il film più documentaristico che ho fatto e, devo dire, anche per questo non mi sono mai preoccupato di recitare. Ho cercato di essere solo naturale, me stesso”.
Un film dove il regista riesce a raccontare il contatto tra diversità e culture lontane, inizialmente, carico di odio e razzismo, poi evolve in accettazione e compassione.
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