CLOISTER

Monti&Taft comunica con piacere che il 28 Maggio 2016 verrà inaugurato Made in Cloister, progetto di riqualificazione urbana nel cuore di uno dei quartieri a più ampio margine di miglioramento della Città di Napoli.

Monti&Taft, che ha avuto in vari modi occasione di partecipare alle fasi costitutive di questo nuovo player culturale, è certa che gli impatti che questo progetto avrà sul territorio saranno positivi e consistenti.

 

Contatti: Tel. +39 06 5759501   info@monti-taft.org     www.monti&taft.org

 

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E’ alle porte la Terza Edizione di Set Up Art Fair il 23-25 gennaio 2015 a Bologna, attesa con grande entusiasmo dato il consolidato successo che hanno avuto le prime due edizioni.

 

Organizzata presso l’Autostazione di Bologna, la fiera è uno degli appuntamenti (23-25 gennaio) imperdibili nell’ambito della cultura indipendente in Italia. Interverranno relatori di grande spessore nell’ambito internazionale: dai collezionisti ai professionisti del settore al grande pubblico, tutti scelgono Bologna come vetrina dell’arte contemporanea nel mese di gennaio.

 

Per la terza edizione si annuncia una crescente partecipazione degli espositori, da tutta Italia e dall’estero, sia di gallerie emergenti, a cui è riservato uno spazio dedicato e condizioni agevolate di partecipazione, che di realtà prestigiose e affermate presenti da tempo sul mercato, forte segnale del riconoscimento e della credibilità che SetUp è riuscita rapidamente a ottenere nel settore.

 

In questo ambito variegato la Monti&Taft partecipa al progetto di arte relazionale “I CONFINI D’EUROPA PER UN’ARTE SENZA CONFINI” a cura di Martina Cavallarin e Scatola bianca. Il piano di lavoro riguarda i temi più urgenti dell’arte contemporanea: l’arte pubblica, la riqualificazione urbana, la legislazione, l’economia nell’arte.

 

Il senso è quello di concepire questi argomenti con una visione allargata, indirizzando la rotta dell’arte italiana verso quella della comunità europea. A cominciare dalla città d’accoglienza di SetUp, Bologna, ombelico di scambi, etnici, culturali, geografici, antropologici, sociali, economici e piattaforma del piano di lavoro che sviluppa il dialogo.

 

Parte di questo progetto riguarda la conferenza sull’Economia dell’arte in Italia ed Europa che Stefano Monti presenzierà assieme a Giuseppe Stampone.

 

Durante questa conferenza si metteranno a confronto le realtà socio-economiche dell’arte contemporanea in Italia e in Europa. Si parlerà di una crescita notevole a livello internazionale dell’arte divenuta terreno fertile d’investimento finanziario e del notevole ritardo che l’Italia sconta su tale fronte.

 

Un ritardo che deve imputarsi ad un mercato ancora oggi paralizzato da eccessivi vincoli normativi e che sconta la competizione di una legislazione fiscale non uniforme in Europa. Eppure, il soggetto pubblico, così come i privati guardano con crescente interesse all’arte contemporanea come strumento di creazione del valore. In che misura, dunque, l’adeguata gestione di questi processi può impattare sull’economia locale?

 

Monti&Taft vi aspetta Sabato 24.01.2015 al Set Up Art Fair 2015 a Bologna.

 

Visualizza il programma SetUp Conferenze 2015

Monti&Taft SetUp ArtFair 2015 Bologna

eastpak6L’1 dicembre è la Giornata Mondiale contro l’AIDS. 56 artisti si sono preparati per partecipare, in collaborazione con Eastpak Artist Studio.

Il progetto ha previsto lo stravolgimento del celebre zainetto, trasformato in opera d’arte dalle mani e dal genio di creativi provenienti da tutto il mondo. L’Italia ha partecipato con le creazioni di Enrico Robusti, Maicol & Mirco, Simone Legno – Tokidoki, The Bloody Beetroots, No Curves (i primi 5 in galleria), che hanno trasformato un oggetto comune in scultura, tela, disegno, fumetto.

Le opere saranno acquistabili dal 2 dicembre e tutti i proventi andranno all’organizzazione no-profit Designers Against Aids.

Per vedere le opere di tutti gli artisti è possibile visionare il sito ufficiale del progetto.

clintonOggi siamo sommersi da personaggi celebri che pubblicano le loro foto su Instagram e sui principali social network. Ma avete mai pensato a cosa avrebbero scritto personalità illustri del passato sui loro profili? E se avessero avuto Instagram quale momento di vita avrebbero deciso di immortalare?

Ce ne fa fare un’idea il divertentissimo tumblr “Histagrams“, praticamente un Instagram della storia, che ripercorre, tramite hashtag, foto e commenti le popolari vicissitudini delle star del passato.
Scoprite come Pollock ha avuto ispirazioni geniali dalle quali è poi nato il suo inconfondibile stile, leggete i commenti che Hilary Clinton ha postato al marito quando la sua nuova stagista è stata immortalata, e interpretate gli hashtag usati da Dio, Einstein e tanti altri per comunicare i loro successi.

Ci sarà da divertirsi…

 

 

chiara10Una donna, un essere divino, eterea e sfuggente con l’oblio negli occhi, una visione in grado di dividere la sua essenza in infinite parti di un tutto, un’entità che governa l’elemento dell’acqua.

Così è la protagonista di “Split your soul endless parts of a whole”, progetto fotografico di Rachele Maggi, esordiente fotografa romana che divide le sue opere tra  fashion photography e fine-art, alla continua ricerca di quella che è l’essenza preziosa non solo della fotografia ma anche della sua anima.

“Scatto per rappresentare tutto quello che provo, è il mio modo di raccontarmi non essendo affatto abile nella parola ed avendo da molto la convinzione che siamo trafitti dalla volgarità del verbo. Diceva De Andrè nel brano “Un Matto” Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole. Ecco, spesso il “matto” è un occhio che vede laddove “la norma” si ferma”.

E allora eccola la sua normalità, una rappresentazione dell’idea che rifugge i canoni tradizionali e si insinua tra i boschi incontrando soggetti decontestualizzati eppure così reali da poterli toccare.

Se volete ammirare gli altri progetti fotografici di Rachele, questa è la sua pagina Facebook

 

model: Francesca Canella
make-up artist : Sabina Pinsone
assistant : Nicoletta Loreti

artisti30Anche l’arte si mobilita per i 30 attivisti di Greenpeace detenuti in Russia da oltre 60 giorni. Per ognuno di loro, un artista, illustratore o fumettista ha realizzato un’opera volta a ricordare i motivi che hanno mosso l’azione di questi ambientalisti, scesi in campo per difendere l’Artico e combattere lo scioglimento dei ghiacci.

Ciascuno di voi è dunque invitato a visitare il sito del progetto A30XA30, per visionare ciascuna immagine, selezionare quella che preferite e poi condividerla sui social network, al fine di diffondere il messaggio per il rispetto di questa grande risorsa. Ma soprattutto speriamo vogliate firmare l’appello per la liberazione degli Artic30.

 

Consulta il sito

Nel Febbraio del 2012 abbiamo scritto su Tafter:

“Le fiere di arte contemporanea sono uno straordinario volano di economia, sia per il territorio sia per il Paese di appartenenza, a patto che seguano delle semplici regole: siano governate da persone del settore (Curatori e Art Consultant con taglio curatoriale), siano progettate per ospitare grandi opere, siano collegate ai circuiti internazionali, siano presidiate da commissioni di esame dei vari stand (e quindi delle varie gallerie) che sappiano cosa sia la qualità delle opere e degli artisti.Tutte queste condizioni sono venute meno nell’edizione 2012 di ArteFiera Bologna Art First (questo il nome intero della manifestazione di fine Gennaio di ogni anno).”

Adesso possiamo dire che queste condizioni si sono pienamente realizzate nell’edizione 2013 di Artissima, la Fiera internazionale di Arte Contemporanea di Torino (prima settimana di Novembre).

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Cominciamo dall’inizio: cos’è una Fiera di Arte Contemporanea?

Di fiere ce ne sono centinaia; per l’esattezza 250 fiere di arte moderna e contemporanea in tutto il mondo.

Solo alcune rispondono ai requisiti di cui al virgolettato sopra e, come per tutta l’arte, solo quelle di qualità sono quelle fondamentali per il settore, per la città che le ospita e per l’economia del Paese di riferimento.

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Una fiera di qualità è gestita da un Curatore esperto, preparato e con i risultati nel background: non il curriculum, i risultati. Un professionista che abbia selezionato vari artisti e teorizzato nuovi linguaggi e nuovi filoni culturali e che, in seguito, abbia visto riconosciute le sue intuizioni e accreditati i suoi studi. Uno scienziato in piena regola, come sono gli artisti stessi, d’altronde.

Questo Curatore deve saper scegliersi il Comitato Esecutivo della fiera stessa, cioè gallerie e altri critici/curatori che garantiscano l’integrità delle gallerie partecipanti (che fanno richiesta ma devono presentare un progetto credibile, altrimenti non vengono ammesse, anche se pagano…) dal punto di vista etico, di bilancio, qualitativo e, come nel caso di Torino, della ricerca. Perché Artissima ha un’identità precisa riconosciuta a livello internazionale: è la fiera dove si presentano gli artisti di ricerca, i risultati dell’ultimo anno di esperimenti e innovazioni, il panorama aggiornato internazionale di quella che una volta avremmo chiamato Avanguardia.Dici poco. Il meglio della cultura visiva mondiale condensato in 4 giorni di eventi, una kermesse divertentissima di mostre di altissimo profilo e progetti culturali di contaminazione tra le arti che durano invece due o tre mesi dopo la chiusura di Artissima. Tutta la città è pervasa dall’arte contemporanea (come Parigi durante la FIAC a fine Ottobre e Basilea durante Art Basel a metà Giugno), comprese le famose Luci d’Artista, straordinarie e giganteggianti luminarie natalizie che la Città di Torino, anni fa, ha commissionato a molti dei migliori artisti che avessero avuto un rapporto con Torino stessa.

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Insomma, come tornare al barocco: arte ovunque ti giri. A partire dalla fiera, un fenomeno considerato commerciale che, invece, è assolutamente e altamente culturale ed economico per almeno 12 delle 250 fiere d’arte del mondo.

Ci siamo capiti?

Il meccanismo è semplice, si fa per dire: la Nazione comunica al mondo di avere un’anima colta, e una lucida e aggiornata attenzione intellettuale rispetto all’arte, disciplina che innerva la vita dell’uomo dalla notte dei tempi e gli insegna le possibilità di evoluzione (senza l’espressività non ci si specchia, senza specchi non si indagano ulteriori possibilità di evoluzione…). Una città per ogni Nazione (o due al massimo) organizza una fiera di arte contemporanea per offrire al mondo un compendio della produzione artistica dell’anno precedente (non letteralmente ma quasi) e, contestualmente, la possibilità di acquistare (e supportare) i giovani artisti o la ricerca in genere che, notoriamente, ha bisogno di risorse molto più dei fenomeni istituzionalizzati (conservatori come siamo…).

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Tutto il mondo dell’arte, dai grandi musei alle grandi gallerie fino ai collezionisti grandi e piccoli, vengono a verificare gli stati d’avanzamento dell’arte evoluta, si fermano in città per 4 giorni, visitano le mostre, comprano le opere, mangiano nei ristoranti e dormono negli hotel ma, soprattutto, portano intelligenza; si forma un circolo virtuoso che noi chiamiamo Economia Neuronale: la gente cresce, i bambini si divertono in modo intelligente, gli imprenditori sviluppano aziende in un humus molto più favorevole. L’impresa nasce dalle idee, le idee vanno nutrite con una immaginazione strutturata, tutti i giorni….

Lo scriviamo dal 1999, ma stavolta Torino ha dimostrato che si può fare. Noi parliamo tutti i giorni con gli operatori e i collezionisti internazionali, e sono tutti entusiasti di questo pezzo d’Italia. Questa è l’Italia che gli piace, questo è quello che ci chiedono: insieme ai rubinetti, al vino e al bunga bunga, noi, da sempre, siamo il Paese dell’arte.

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Per cui, adesso che abbiamo una fiera di altissimo profilo (Torino viene classificata come la quinta al mondo ed è un risultato eccellente perché ha cambiato gestione e indirizzo solo da pochissimi anni) dobbiamo risolvere un altro, annoso e dannoso problema: con un IVA ridicola al 22% sulle opere d’arte, tutto il lavoro viene vanificato.

I nostri collezionisti e tutti gli altri comprano nei Paesi evoluti, dove l’IVA sull’arte è al 7% o al 10% e le ricadute economiche, tra le quali l’enorme gettito fiscale, il lavoro dei corniciai, dei trasportatori, dei vetrai, dei galleristi e degli artisti, dei musei e degli addetti, vengono perse a favore dei Paesi che sanno fare i conti.

È una di quelle cose di cui la Nazione non può andare fiera.

 

Francesco Cascino è Contemporary Art Consultant e Presidente dell’Associazione Culturale ARTEPRIMA

 

pawel-kuczynskiPawel Kuczynski è un illustratore polacco che ha affidato alla sua creatività messaggi di libertà e giustizia. I suoi disegni sono denunce vere e proprie contro sistemi totalitari, strapoteri travestiti da democrazie, ingiustizie sociali e mancato rispetto dell’ambiente. Per le sue opere ha già vinto 92 premi e riconoscimenti internazionali. Questo creativo è la dimostrazione di quanto l’arte possa essere più incisiva di tante altre manifestazioni di dissenso e ci ricorda quanto è importante preservare la libertà di espressione in ogni sua forma: Pawel Kuczynski affida infatti alle illustrazioni la rivelazione di verità scomode inerenti l’attualità sociale e politica che riguarda tutti.

 

Scoprite tutte i disegni di Pawel Kuczynski sul suo profilo Tumblr

 

ceneandiamoE’ pieno il Palladium; è l’ultima delle tre sere della prima assoluta di “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, nel corso del decimo compleanno di Roma Europa Festival.
C’è un’atmosfera calda, il pubblico, sempre di quella tipologia un po’ “intellettuale” che è tipica di Roma Europa, ha un’età media di una trentina d’anni. Mi colpisce sentire che qualcuno sta tornando a distanza di due giorni, portando altra gente: le aspettative si alzano.
Lo spettacolo, coproduzione Roma Europa e Teatri di Roma, è ispirato al romanzo di Petros Markaris “L’esattore”, legato alla vicenda delle quattro pensionate greche che si sono tolte la vita insieme, dopo l’ennesimo taglio alla loro pensione. Si parte da un’immagine precisa del romanzo, ce lo ripetono gli attori stessi più volte: le quattro donne vengono ritrovate, due distese sul letto, due assopite ciondoloni da una sedia.

Tre sedie, un tavolo ed un fondale nero: i quattro attori non utilizzano altro per ricostruire il viaggio interiore che li ha portati ad immaginarsi il momento prima di quel tragico gesto, per ricostruire la scena della bevuta dei sonniferi mortali, dei pensieri che avranno attraversato la testa di quelle donne mentre all’unisono incastravano negli ultimi attimi vite che probabilmente non le avevano unite in precedenza tra loro, quasi a dire che non c’è bisogno di un passato comune per condividere un obiettivo finale ed estremo come quello che hanno compiuto queste donne.

L’operazione che propongono Deflorian e Tagliarini, insieme con Monica Piseddu e Valentino Villa, è di sfondamento della quarta parete di pirandelliana memoria: raccontano il travaglio dell’attore, il suo percorso verso l’assunzione delle sembianze del personaggio giocando sul non saper fingere.

Su questo doppio gioco ognuno fa il suo monologo: si parte spesso dalle azioni quotidiane, di vita nostra.
C’è la tapparella che si rompe e, andando a comprare delle cinghie di ricambio alla ferramenta di fiducia, si scopre che sta chiudendo ed intere famiglie di commessi si interrogano sul loro futuro, ci sono le bollette che non si riescono a pagare, l’affitto improvvisamente insostenibile.
Il quotidiano che diventa esempio del dramma esistenziale è però raccontato senza mai essere esasperato, il pubblico ride.
I corpi degli attori anticipano le parole, sono la vera forza dello spettacolo: Monica Piseddu sorprende il pubblico quando, con un gesto rapidissimo che parte dalle spalle, passa dal comico racconto dei suoi risvegli improvvisi nella notte a ricalcare precisamente l’immagine del romanzo da cui parte lo spettacolo di una della donne sdraiate.

Quasi senza che il pubblico se ne accorga il tavolo, ultimo degli elementi scenografici a fare il suo ingresso in scena, diventa il tavolo delle quattro donne con quattro bicchieri, la bottiglia di vodka per la certezza della creazione di un cocktail micidiale con i sonniferi, le quattro carte d’identità in ordine e le voci che rileggono il biglietto “ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Risparmierete sulle nostre quattro pensioni e vivrete meglio”. Diventa tutto nero, siamo alla ricostruzione della storia, arriva anche l’azione finale di chiusura, netta, inequivocabile: gli attori ricoprono le sedie, diventano nere anche loro, come la tovaglia sul tavolo, come il fondale del palco.

Lo spettacolo finisce, gli attori sono richiamati tre volte, lo spettacolo che avevano dichiarato di non poter fare perché ci si dispera a casa propria – mica a teatro – da soli e non con della gente che ci guarda, ha inchiodato tutti gli spettatori al palco.

“C’è grossa crisi”, direbbe qualcuno. I privati investono con oculatezza e parsimonia. Il settore pubblico è sempre più propenso a cercare fondi, piuttosto che a elargirli. L’arte e la cultura rimangono, però, dei settori di vitale importanza nel nostro Paese che richiedono cure, supporto, incentivi, sostegno.

Alla luce di questo nuovo scenario, si profila la necessità, sia per pubblici che per privati, di rivolgersi ai cittadini stessi per mantenere e tutelare fiori all’occhiello della vita culturale di una città. I fruitori stessi vengono chiamati a sostenere determinate strutture e realtà con tipologie diverse di “crowdfunding”, cioè di  “finanziamento da parte della folla”, che si personifica in elargizione di fondi, acquisto di azioni, o finanziamenti in qualità di soci.

 

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Nell’ambito del settore pubblico, è degli ultimi giorni la notizia del lancio di una raccolta di crowdfunding per salvare il portico di San Luca di Bologna, “Un passo per San Luca”. Si tratta del portico più lungo al mondo, più di 3 chilometri, costruito nel 1677, che adesso però necessita di un restauro. Si sta crepando in molti punti e per riportarlo al suo splendore è necessaria una raccolta fondi di almeno 300.000 euro. È lo scopo che si sono posti Comune di Bologna, Arcidiocesi di Bologna, Basilica di San Luca, Quartiere Saragozza, con il supporto della piattaforma web di crowdfunding territoriale, GINGER. Enti pubblici e privati, associazioni, società e semplici cittadini possono contribuire con un’offerta minima di 5 euro, oppure con un’offerta di 20 o 100 euro, che dà accesso ad alcuni vantaggi. Se la raccolta andasse a buon fine, il portico tornerebbe realmente al centro della vita della città, non solo perché fruibile e restaurato, ma anche perché espressione della collaborazione di tutta la cittadinanza al mantenimento di un’opera architettonica così prestigiosa.

 

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Esempi diversi di coinvolgimento civico provengono, invece, dai privati. È il caso del progetto “Diventa amico de laVerdi”, noto anche come “Un mattone per la cultura”. Nel 2008 la Fondazione dell’Orchestra Verdi di Milano ha acquistato il 100 per cento delle azioni della Immobiliare Rione San Gottardo, di proprietà dell’Auditorium, costituendo il primo caso in Italia e in Europa in cui un teatro è di proprietà dell’Orchestra che lo utilizza. Con lo scopo di ottenere maggiori finanziamenti, ha avuto l’autorizzazione da parte della Consob, dopo un lungo processo, di vendere il 49 per cento delle azioni ai cittadini. Ogni azione ha il costo di 6 euro e sono acquistabili in pacchetti di almeno 150 azioni. Si tratta di una chiamata alla cittadinanza per “partecipare dal punto di vista immobiliare e culturale al patrimonio della città”, come ha sostenuto il direttore generale della Fondazione, Luigi Corbani (fonte La Repubblica). Quello che la Fondazione propone a chi decide di diventare azionista dell’Orchestra Verdi è un vero e proprio progetto culturale che assicura la partecipazione diretta alla vita dell’Orchestra, concerti, eventi speciali e altri vantaggi.

Infine, un altro caso è rappresentato dal Museo Civico Gaetano Filangieri di Napoli che rischia la chiusura per mancanza di fondi e di personale. Pochi mesi fa è stata istituita una onlus, “Salviamo il museo Filangieri”, presieduta da Maria Piera Leonetti, con lo scopo di finanziare l’attività e la sopravvivenza del museo attraverso visite guidate, concerti, presentazione di libri, laboratori, concorsi e altri eventi speciali. Il prossimo, che si terrà il 16 novembre, è un’asta aperta a tutti, sia a coloro che sono interessati ad acquistare, sia a coloro che vogliono semplicemente partecipare all’evento, magari decidendo di diventare soci. Le opere messe all’asta sono state donate da 51 artisti contemporanei tra i più quotati del momento: Kounellis, Mauri e Jodice, solo per fare alcuni nomi.

 

FilangieriNaples

 

Il coinvolgimento attivo dei cittadini nella vita sociale e culturale della propria comunità è sicuramente un momento importante, positivo e, a volte, anche educativo. Il fatto che si richieda anche il loro aiuto economico e finanziario è probabilmente anche il segno che il nostro Paese ha  bisogno di politiche culturali maggiormente strutturate, regolamentate ed efficaci.

Un tumore al seno può cambiare molto la percezione delle cose, ma può farlo anche una foto. È quanto è accaduto ad Angelo e Jennifer, una giovane coppia che ha dovuto affrontare il dolore della malattia. The battle we didn’t choose”, si intitola così il progetto fotografico che Angelo Merendino ha portato avanti durante gli anni di sofferenza della moglie e che è diventato anche un libro.

 

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4 anni di calvario registrati attraverso gli occhi di un fotografo professionista, di un marito. Sono scatti intimi, dolci e crudeli insieme. Crudeli perché registrano con precisione il disfacimento di un corpo, il progredire di un malanno incurabile, la sofferenza che cambia i connotati a un volto, che alla fine conserva intatto solo il sorriso. Dolci perché ricordano quanto bella sia in fondo la vita, insegnano come si possa trovare uno scopo e una direzione anche ai giorni peggiori, trasmettono quanto importante possa essere un sentimento. Non si tratta, infatti, solo e soprattutto del resoconto di una malattia, quanto piuttosto della storia di un amore, forte e indistruttibile.

 

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Si erano sposati da appena 5 mesi Jennifer e Angelo, quando la prima ha scoperto di avere un cancro. Poi è stato un susseguirsi di dolori e paure, costellate da speranze e anche qualche gioia. La gioia di sentirsi voluti bene, di sapere vicini non solo amici e parenti, ma anche gente sconosciuta. La coppia ha deciso da subito di documentare quello che le stava accadendo, per dare una forza, una risposta e una speranza a chi, come loro, si trovava ad affrontare la stessa situazione.

Jennifer alla fine non ce l’ha fatta, eppure il suo segno la sua vicenda lo ha lasciato. Dai proventi ricavati dal libro fotografico pubblicato da Angelo Merendino è nata un’associazione no profit, “The love you share”, con lo scopo di fornire assistenza finanziaria ad altri malati di cancro.

 

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D’altra parte il prodotto artistico di Angelo ha avuto subito un incredibile successo di critica e pubblico ed è stato ospitato in mostre allestite a New York, Washington, Roma. Il suo punto di forza sta nell’aver umanizzato un capitolo doloroso della storia di molti. Il suo messaggio finale invita a trovare una luce positiva anche nel buio più profondo.

L’iniziativa di Angelo potrebbe anche non trovare d’accordo tutti. Mettere a nudo così una malattia, una persona che si ama, l’intimità e la privacy di una situazione tanto dolorosa e alla fine pubblicare un libro a riguardo potrebbe risultare esagerato, eccessivo, urtante. Forse l’unica risposta plausibile sta nel fatto che ognuno vive il dolore a suo modo, e che l’arte e la creatività possono servire, in parte, ad affrontare ad alleviare una perdita.

Nazi Art DatabaseE’ recente la notizia del ritrovamento a Monaco di Baviera circa 1.500 opere dei maestri della pittura moderna (Pablo Picasso, Henri Matisse e Marc Chagall) confiscate durante il Nazismo a collezionisti ebrei, per un valore pari a un milione di euro.
Ci troviamo al centro di un dibattito internazionale che interessa la restituzione alle famiglie ebree del loro patrimonio artistico (ora beni culturali) sottratto durante la seconda Guerra Mondiale dai Nazisti.

Ma quali norme si applicano a simili casi e, soprattutto, chi è in possesso di tali beni è tenuto a restituirli al legittimo proprietario?
La risposta non è di immediata soluzione, posto che si tratta di indagare sull’applicazione di norme internazionali e sulla loro attuazione sul piano nazionale all’interno dell’ordinamento interessato (nel nostro caso tedesco).

Sul piano internazionale, come noto, esistono due Convenzioni (Unesco 1970 e Unidroit 1995), entrambe di fatto inapplicabili a casi simili a quello qui in esame.

La Convenzione Unesco sulla illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali (1970) rappresenta un utile strumento per combattere il traffico illecito dei beni culturali con applicazione sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Sebbene prevenga la distruzione e la sottrazione di beni culturali, non è specificamente atta a regolare la sottrazione di opere d’arte da parte dei Nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale, né contiene meccanismi per la composizione di controversie di questo genere. La Convenzione semplicemente stabilisce che lo Stato al quale l’opera è restituita compensi l’acquirente in buona fede senza prevedere regole per le controversie tra privati.

La Convenzione Unidroit (1995) sulla protezione del patrimonio culturale e la lotta al traffico illecito di opere d’arte tende a supplire le lacune della Convenzione Unesco del 1970, in particolar modo, con riguardo al diritto internazionale privato e alla problematica dell’acquisto a non domino affrontata in modo differente dagli Stati contraenti. Legittimato all’azione di restituzione può essere anche un privato: chi detiene un bene che è stato rubato deve restituirlo, essendo irrilevanti i vari passaggi di proprietà a seguito dell’illecita perdita del possesso del bene. Anche se il proprietario (originario o successivo) ha acquistato in buona fede (ovvero con la dovuta diligenza), non impedisce la restituzione del bene, attribuendo al detentore unicamente il diritto ad un equo indennizzo, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso.

Le norme della Convezione Unidroit potrebbero quindi rappresentare la base per intraprendere azioni di restituzione relativamente al patrimonio sottratto dai Nazisti agli Ebrei durante il periodo bellico, ma la limitazione dei cinquant’anni da quando è avvenuta la sottrazione, imposta dalla Convenzione, per la proposizione dell’azione di restituzione, rende impossibile rivendicare beni sottratti più di 66 anni fa o comunque prima del 1963!
Allo stato quindi né la Convenzione Unesco, né la Convenzione Unidroit possono essere di ausilio alla soluzione del caso qui esaminato. Sono così stati introdotti numerosi strumenti di “soft law” che forniscono linee guida per risolvere le controversie legate alla “Nazi-era art”. Ma anche qui ci troviamo in una zona grigia, cosicché le controversie sui beni sottratti dai Nazisti sono per lo più risolte dai giudici nazionali, di volta in volta, sulla base del caso concreto e conformemente al diritto nazionale applicabile.

Una recente sentenza della Corte di Giustizia Federale Tedesca (Bundesgerichtshof) conferma che le norme generali del diritto civile prevalgono sulla legge che regola le restituzioni in Germania. In Germania, infatti, i sequestri attuati sui beni appartenenti agli Ebrei da parte dei Nazisti sono da considerarsi privi di alcun effetto e pertanto nulli a decorrere dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Al di là dei confini della legge applicabile, la restituzione include sforzi per superare gli ostacoli legali. Le difese possono fondarsi sul background storico e su speciali circostanze del caso concreto, così come condurre ad avvalersi di strumenti di “soft law” che hanno dato vita a speciali commissioni dedicate o alla adozione di sistemi di risoluzione delle controversie alternativi alla giustizia ordinaria (ADR) o ancora alla restituzione volontaria dei beni.

In Germania, nel 2003, il Governo ha costituito una Commissione Consultativa per la Restituzione dei Beni Culturali Sequestrati durante la Persecuzione Nazista, in particolare, di proprietà di famiglie ebree, per rendere efficaci i Principi della Conferenza di Washington del 1998: la mediazione obbligatoria è imposta dopo che le parti abbiano esperito ogni rimedio di legge o se le limitazioni di legge abbiano impedito la restituzione.

Ancora, la normativa sulla restituzione del 1990 (Vermogensgesetz) incoraggia le parti, privato e Stato, ad addivenire a transazioni su base amichevole. Ma ci si pone la domanda, una volta risolte tutte le questioni di legge applicabile, se l’erede sia tenuto alla restituzione e a pagare per il predecessore? La soluzione parrebbe propendere per il sì, ove il predecessore conosceva la provenienza illecita e l’erede non poteva non sapere di quella provenienza, usando la “dovuta diligenza”, secondo un principio di buona fede nell’acquisto anche a titolo successorio.
E a chi passa, una volta accertata l’illecita provenienza, la proprietà dei beni recuperati? Al legittimo proprietario, verrebbe da dire, sempre che sia stato risolto il caso sulla base del diritto nazionale applicabile che, come visto, oltre a riguardare regole di diritto interno (nel caso in esame di diritto tedesco), non appare sempre di facile soluzione.

 

 

Silvia Stabile è avvocato esperta in Diritto della Proprietà Intellettuale e Diritto dell’Arte, partner dello Studio Legale Negri-Clementi

wanderlustLa fotografia è ormai a tutti gli effetti riconoscibile come la settima arte, grazie anche alle nuove tecniche che consentono di ottenere risultati davvero straordinari. A dimostrarlo è per esempio l’opera di Joel Robison, ragazzo canadese che ama definirsi “ritrattista concettuale”. I suoi scatti si caratterizzano per l’assenza di regole nelle dimensioni, proporzioni e movimenti degli oggetti: Joel crea così atmosfere fatate, che molto ricordano la favola di “Alice nel mondo delle Meraviglie”.
Come la protagonista nata dalla penna di Lewis Carroll, così questo giovane fotografo si muove tra tazze di tè, chiavi, libri e le nostre amatissime barchette di carta.

 

Scopri tutte le fotografie di Joel Robison sul suo sito

L’epopea di Banksy a New York è finita. 31 giorni trascorsi nella Grande Mela sono bastati all’anonimo artista di strada per far parlare di sé la stampa internazionale e la gente comune che ne ha seguito l’eroiche gesta da supereroe graffitaro.

Alla fine della sua vicenda americana, quello che resta è la sensazione, spiacevole e rassicurante insieme, che l’arte di strada si conferma un outsider rispetto al senso comune e ai cliché precostituiti. Il rischio corso dallo street artist di Bristol era quello di piegarsi alle leggi di mercato con delle operazioni di marketing plateali, con delle “performance” che poco avessero a che fare con l’arte e con la strada.

E invece no. L’ultimo messaggio di Banksy è stato molto chiaro: un palloncino svolazzante sulla Long Island Expressway che raffigura le lettere bombate della sua firma, e un appello a salvare 5Pointz, un capannone nel Queens le cui pareti sono ricoperte dalle firme creative di straordinari graffitari che rischia di essere demolito per lasciare spazio a un residence di lusso.
Nell’ultima audio guida, posta a commento della sua esibizione del 31 ottobre, Banksy invita a non istituzionalizzare l’arte demandandola a chiese, istituzioni o cartelloni pubblicitari. L’arte vera è quella fatta in strada, libera e anticonformista, l’arte che non serve a decorare ma che semplicemente e con potenza “è”.

 

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New York è una città audace, ma rischia di essere inghiottita anch’essa dal perbenismo e dall’ipocrita buon senso. Banksy aveva già espresso questo parere sulla città che non dorme mai il 27 ottobre, scrivendo un articolo mai pubblicato per il New York Times: il One World Trade Center, il grattacielo in costruzione che sostituisce le Torri Gemelle dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, non è che una dichiarazione della “perdita di nervi” di una città che dovrebbe puntare su ben altro per attestare la propria capacità di ricrescita e la propria coraggiosa natura.

 

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E così, anche dopo il bagno di popolarità newyorchese, Banksy si conferma un personaggio scomodo. Le sue opere sono state cancellate e denigrate, la sua identità è stata ricercata con morbosa curiosità, il suo nome e la sua attività sono diventate per un mese le sorvegliate speciali della polizia di New York. Il sindaco Bloomberg ha definito l’arte di Banksy uno dei tanti modi con cui deturpare delle proprietà private. L’artista mascherato ha eluso, però, tutti gli ostacoli che si sono frapposti al suo traguardo e ne è uscito vincitore.

Oltre a dare una bella lezione di stile e humor a critici bigotti e ortodossi, è riuscito anche nell’intento di prendere in giro il mercato dell’arte. Lo ha fatto prima vendendo originali delle sue opere a Central Park, senza che nessuno ne fosse a conoscenza, poi dando in dono al negozio dell’usato per beneficenza, Housing Works, un suo lavoro che è stato messo all’asta online per più di 600 mila dollari. Si tratta di un quadretto pastorale che l’artista aveva acquistato dal negozio stesso a 50 euro, e che aveva rivisitato inserendovi un soldato nazista che siede pensieroso su una panchina. I soldi ricavati dalla vendita andranno a senzatetto e malati di Aids.

 

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A conclusione di questi 31 giorni di creatività, ironia, originalità, arte, mistero e anticonformismo non possiamo che sperare in una nuova serie di irriverenti performance artistiche ad opera di Banksy o di un suo coraggioso imitatore… chissà dove, chissà quando.

bambiniartePromosso dalla BBC, l’evento ‘The Your Paintings Masterpieces in Schools’ ha riscontrato grande entusiasmo in tutto il Regno Unito, coinvolgendo per tutto il mese di ottobre 27 scuole elementari e medie portando uno dei 26 dipinti selezionati tra le più famose collezioni del Paese direttamente tra i banchi di scuola per un’intera giornata. Insieme ad artisti, esperti ed insegnanti, bambine e bambini tra i 5 e i 12 anni hanno avuto la possibilità di conoscere un modo diverso e divertente di imparare.

“Mamma lo sai che oggi a scuola abbiamo visto il Castello dove è stato imprigionato il Principe del Galles Owain il Rosso? Ci hanno portato un quadro di ‘un Turner’ importante direttamente dal museo!”; “Noi abbiamo costruito neuroni e sinapsi con bastoncini palloncini colla carta e plastilina, come nel quadro cubista di Ben Nicholson!” hanno commentato tornando a casa due bimbi inglesi alunni della Trelai Primary School (Galles) e della Norton Knatchbull School (Inghilterra), due delle 27 scuole che hanno partecipato al progetto promosso da Public Catalogue Foundation, in collaborazione con la BBC ospitando rispettivamente il celebre Dolbadarn Castle, dipinto a olio da J. Mallord William Turner nel 1799–1800, normalmente esposto alla National Library of Wales, e Bocque di Ben Nicholson dipinto nel 1932, parte dell’esibizione della Arts Council Collection.

Come il proverbiale detto di Maometto e la montagna, così al posto degli alunni in gita al Museo, questa volta sono stati i dipinti conservati in questi ultimi ad entrare direttamente nelle scuole regalando una giornata davvero memorabile per tanti bambini e bambine per cui spesso è molto difficile visitare una collezione, per questioni sociali, culturali o spesso logistiche ed economiche.

Enorme la soddisfazione degli organizzatori ed insegnanti nel vedere gli alunni così curiosi, emozionati e interessati a conoscere gli autori e le storie nascoste dentro le tele. Scoprendosi grandi artisti, i piccoli hanno trascorso un’indimenticabile giornata, imparando che è bello avvicinarsi alla cultura e all’arte, così come è molto importante prendersene cura.

L’idea che i musei non siano luoghi silenziosi dall’aria seria e opprimente, visitati da critici in abiti eleganti e professori dagli occhiali spessi, ma al contrario spazi da visitare e far vivere, dove si impara giocando, è oggi condivisa da molti. Si sta infatti affermando la tendenza di proporre con le più disparate modalità innovative il coinvolgimento di grandi e piccini in maniera divertente e costruttiva.

Negli ultimi anni il ‘bambino’ sta conquistando un posto d’onore nelle sale dei musei del mondo grazie alla nascita della didattica museale per bambini che vede il diffondersi di laboratori creativi anche nelle scuole per l’infanzia e primarie.

Proliferano i musei sensibili da questo punto di vista, proponendo tanti e coinvolgenti percorsi pensati appositamente per bambini e famiglie in cui, oltre alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico, si effettuano attività di intrattenimento, gioco e creazione manuale di oggetti grazie anche all’utilizzo di filmati, diapositive, musiche e spettacoli teatrali per sperimentare e divertirsi insieme, anche con mamme e papà.

Sul portale dal simpatico nome www.quantomanca.com, che ironicamente richiama la tipica frase che i bambini annoiati rivolgono solitamente ai genitori, si trova una coloratissima mappa che raccoglie, divisi per regione, musei “a misura di bambino”, utile consiglio per trascorrere un fine settimana alternativo o una piacevole gita divertente.

Il disegno e il gioco sono infatti la “formula magica” che permette ai piccoli di sentirsi protagonisti della scoperta dell’arte, esprimendo la propria creatività e i propri sentimenti, indipendentemente dal talento, oltre a stimolare lo sviluppo della capacità di astrazione e percezione della realtà.

Ma la grande sfida del futuro è quella che si propone di sviluppare gioco e divertimento attraverso gli strumenti innovativi digitali e virtuali: oggi li chiamano musei interattivi e sono musei reali che utilizzano al loro interno tecnologie digitali, sistemi touchless, giochi, app e strumenti virtuali come proiezioni, ologrammi, immagini e stampanti a 3D, per una didattica fondata sulla partecipazione attiva, lo stupore e il coinvolgimento.

Più delle parole, sono infatti le emozioni vissute ad imprimere saldamente i contenuti nel ricordo dei bambini che, avidi di sapere e privi di pregiudizi estetici, sono forse le persone più vicine ad accogliere il messaggio dell’arte. Del resto è un concetto affermato anche da Picasso: “Ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino.”

 

ALFREDO JAAR - RENDERINGDal 1° novembre al 14 gennaio Torino torna a risplendere grazie al consolidato appuntamento “Luci d’Artista”: quella del 2013 è infatti la sedicesima edizione di una rassegna che ha regalato alla città della Mole emozioni straordinarie.
Vie, piazze, spazi comuni si trasformano ogni autunno in un magnifico museo a cielo aperto, dove non si potrà fare a meno di passeggiare con il naso all’insù. Le installazioni luminose che costelleranno Torino continuano così a stupire cittadini e visitatori, dimostrando come l’arte può diventare molto più che un semplice elemento di arredo urbano, ma un vero e proprio richiamo.

L’arte contemporanea è sempre più Pop. Non si tratta, però, della “popular art” di Andy Warhol, Keith Haring o Jeff Koons, piuttosto della commistione tra creazione artistica e personaggi della scena musicale pop odierna che ultimamente fa molto discutere. L’apripista è stata la celebre artista di Belgrado, Marina Abramovic, che ha collaborato con Lady Gaga e Jay Z. Le due icone del pop hanno affiancato la regina delle performance per aiutarla a raggiungere i 600.000 dollari necessari a dare vita a New York al suo MAI, il Marina Abramovic Institute, un centro artistico che rivoluzionerà il modo del pubblico di approcciarsi all’arte.

Lady Gaga ha posato nuda per l’artista serba e ha messo in pratica per tre giorni il famoso metodo Abramovic, il personalissimo sistema di meditazione ideato dall’artista. Jay Z ha duettato con Marina per sei ore in una sala della Pace Gallery di Manhattan, ripetendo il brano “Picasso Baby” e cimentandosi in una sorta di coreografia con scambio costante di sguardi che ha persino suscitato la commozione degli astanti. Lo scopo della Abramovic è stato raggiunto, la sua raccolta fondi su Kickstarter ha totalizzato e superato il budget previsto e il nugolo di commenti è esploso. I critici e il pubblico comune si è diviso, infatti, tra entusiasti e detrattori, anche perché i risultati di queste collaborazioni, oltre a non essere ortodossi, spesso rasentano il limite del buon gusto.

 

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Ne è ulteriore esempio l’ultima produzione di Damien Hirst che col buon gusto non è andato mai troppo d’accordo. Lo troviamo stavolta in veste di direttore artistico di un progetto fotografico davvero particolare, portato a compimento da Mariano Vivanco: Rihanna, la dea della musica pop, è stata trasformata in una Medusa mitologica, erotica e a tratti spaventosa. I capelli sono serpenti, i denti zanne velenose, il corpo mozzafiato ricorda nelle forme le sinuosità dei rettili più ammalianti. Le immagini scattate sicuramente fanno scalpore, catturano l’attenzione, centrando l’obiettivo del magazine GQ che le ha commissionate per la sua ultima copertina. Il magazine britannico compie, infatti, 25 anni il 31 ottobre e allora quale migliore occasione per far parlare di sé che associarsi ad uno degli artisti più chiacchierati della scena contemporanea e a una delle cantanti più sexy del momento?

 

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I paragoni celebri sono subito venuti a galla. Il più azzardato è quello che associa l’immagine serpentesca di Rihanna, alla celebre Gorgone di Caravaggio. Poi ci sono i tableau vivant di Cindy Sherman, Adad Hanna o del maestro Luigi Ontani, che animano i quadri tradizionali con le tre dimensioni di veri corpi umani. Infine ci sono le modelle “zuccherose” dell’americano Will Cotton, anche loro ispirate a icone pop e al mondo della pubblicità.

 

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Purtroppo per Damien Hirst, però, il suo progetto fotografico sembra animato da qualcosa di diverso rispetto a una ricerca creativa autentica. Sembra piuttosto emergere la necessità, effettivamente tipica della società contemporanea, di apparire, fare scalpore, e soprattutto farsi un bel po’ di fruttuosa pubblicità.

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Murat Palta è un illustratore turco che attraverso la sua arte ha voluto far incontrare la sua cultura con quella tipicamente occidentale. Ha preso infatti il cinema di Hollywood e le miniature ottomane fondendole insieme. Come?
Guardate le sue creazioni e capirete in che modo l’indimenticabile Uma Thurman in “Kill Bill” si trasforma in un’eroina dalle Mille e una Notte o come Marlon Brando da “Il Padrino” di Coppola veste i panni del capo dei 40 ladroni.

 

Scoprite Murat Palta sul suo sito

 

alinoviSeguo l’indicazione “Sala Conferenze”, scendo e vedo dietro la porta dalla vetrofania MAMbo una signora di mezza età che, completamente nuda, accarezza una sedia solitaria, in mezzo alla stanza come lei, facendo passetti di danza sbrinati; di fronte, pochi esseri umani, il pubblico, che se ne stanno vestiti di nero, stretti stretti come uccellini su un ramo quando fa freddo. Il silenzio. Solo, i miei tacchi che mi portano via.
Nella stessa giornata in cui Cattelan manda il duo I Soliti Idioti a ritirare un premio accademico assegnatogli per la sua carriera artistica, creando scontenti e malumori nell’ambito cattedrato, il concetto di arte mi ricorda quanto difficilmente sia riconducibile a un’ottica scientifica, a una evidenza.

Ci sediamo, con Gino Gianuizzi, a un caffè non distante dal museo, ma abbastanza distante perché ci riporti a un vissuto fatto di quotidianeità banale, un po’ così, che nulla ha a che vedere con l’arte. Ho chiesto a Gino di fare una chiacchierata con me sulla giornata di approfondimento degli studi di Francesca Alinovi, che si inaugurerà domani a Bologna, in occasione del 30ennale della scomparsa della ricercatrice del DAMS. E lui, che ai tempi di Neon>Campobase è stato il mio capo, con la sua costante gentilezza e disponibilità ha accettato.

Esordisco dicendo: “L’idea che avevo Gino, è di fare una chiacchierata di tipo informale su questa cosa. So che eri molto amico di Francesca Alinovi e vorrei incentrare il discorso su te e su come stai vivendo questo anniversario. ”

Al bar ci sediamo a un tavolino “intimo” nero con due sole sedie. Il bar è chiassoso, luminosissimo, vetrate a parete aprono scorci di strada, che gli fanno da quinta, mentre mi allontano per ordinare i nostri caffè. Dovrebbe ‘risvegliarci’ dal sogno dell’arte, e invece, per gente come noi, è solo un buon motivo per avvicinare le sedie e ripiombarci più convinti di prima.

 

G: Sono sempre un po’ imbarazzato nei bar, perché non so mai che cosa ordinare.

A: A cosa stavi lavorando prima che ti interrompessi?

G: Stavamo disponendo questi oggetti nelle teche… e beh…

A: Che effetto ti ha fatto mettere nelle teche i tuoi stessi oggetti?

G: Eh, ecco, vedi, io non sono mai stato tanto attento alla conservazione. Ho dovuto cercarli, letteralmente, a casa mia e nell’archivio di Neon.

A : Il mitico archivio…

G: Eh appunto… e mi ha fatto un certo effetto vederli mettere in una teca. Ma vedi lei, (Francesca Alinovi) aveva fatto in tempo a beccare questa meteora che era l’Enfatismo… e il materiale nelle teche parla di questo.

A: E’ stata tua l’idea di fare questa giornata di convegni?

G: Si, in occasione dell’anniversario, o meglio dei 30 anni, sono andato al MAMbo prima e poi all’Università. E hanno accettato tutti.

A:  La concomitanza con il premio Alinovi_Daolio?

G: No, li c’è stata l’influenza di Cattelan che ha dato a Barilli la dispoibilità per ritirare il premio solo in ottobre.

A: A proposito che cosa ne pensi di quello ha fatto Cattelan?

G: Mah, vedi, è stato un evento tristo, secondo me. Io non conoscevo i due comici, ma mi sono sembrati di bassa qualità. E sembrava si comportassero secondo un canovaccio prestabilito, per cui non c’è stato neppure un reale dialogo con chi era presente. Sapevano che Barilli si sarebbe infuriato e lui lo ha fatto.

A: Forse, la scelta è caduta sui due li, perché c’era l’intento di abbassare, per cosi dire, il livello pomposo del premio dato da una Università…

G: Non possiamo saperlo, può essere anche cosi, resta però da ricordare come “l’abbassamento” può essere fatto anche in chiave colta, e qui non è successo. Bassa qualità, che il riferimento alla ‘Nona Ora’ non alza.

A: Cosa ne avrebbe pensato Francesca Alinovi?

G: Mah è difficile dirlo, sono passati 30 anni, e per fortuna queste cose le sono state risparmiate…

A: Quando vi siete conosciuti?

G: Ci siamo conosciuti all’inaugurazione di Neon, era il luglio del 1981. Lei scrisse in proposito “non andavo cercando opere, ma ho trovato un clima”. Ecco, lei era percepita esattamente come noi, un’ artista tra artisti, non una critica (o una curatrice, che all’epoca non esisteva), per noi non c’era alcuna differenza tra noi e lei. Attorno alla sua figura si era creato questo clima di persone, che lei chiamò “Enfatismo”.

A: Da?

G: Enfatismo viene dagli Enfaticalisti, in Cenerentola a Parigi, di Audrey Hepburn. La protagonista parte per Parigi per “vivere” il clima che ruota intorno a questi artisti chiamati Enfaticalisti. Ecco quello il motivo, per Francesca tutto ruotava intorno all’”enfasi dell’essere”. Nelle teche vi è in mostra anno per anno il percorso della sua critica, dal 1976 al 1983, la sua tesi su C. Corsi, quella di dottorato su Manzoni, le varie collaborazioni. Ma ciò che stupisce è come, dopo aver cominciato i suoi viaggi a NYC, ci sia una grande apertura, verso la musica, ad esempio. Ecco, per lei non c’era una forma d’arte più nobile dell’altra, valutava tutto con un ampio spettro. E poi, ci sono materiali che abbiamo trovato ma che non hanno trovato spazio nelle teche. Sono i suoi studi … e questo è straordinario… perché è raro trovare quello che si nasconde sotto il mescolamento di un cervello, e invece in lei lo abbiamo ritrovato tutto: c’è Sartor Resartus per dirne uno… ritrovi tutto nei loro scritti. Aveva studiato molto, e questo la rendeva ancora più problematica.

A: Tu dici? Perché problematica?

G: Problematica da accettare nel 1980. Considera che all’epoca l’Università era ancora un ambiente chiuso, studi seri riservati a gente seria, non a gente con i capelli sparati in aria come lei. Invece lei era seria. Lavorava con serietà anche con noi che eravamo dei ragazzi, non ci trattava meno bene di come trattava gli artisti, né abbiamo mai avuto l’impressione che ci volesse vendere come una sua scoperta. Non io almeno. La sua era una partecipazione totale, un clima, come lo chiamava.

A: Aveva ritrovato in voi qualcosa di simile alla New York degli anni ’80?

G: Si. Lei si era accorta che stava succedendo qualcosa di simile qui, ma quegli anni erano diversi da oggi. E’ diverso da oggi, oggi che alla ricerca è prediletta la citazione. O la ricerca della citazione. New York era assolutamente un altro mondo, non era possibile sapere cosa succedeva. Era un viaggio poco accessibile. Ognuno di noi lavorava alla propria ricerca, metteva fuori il risultato e poi lo confrontava con gli altri. Era questo clima che ci faceva assomigliare a New York, oltre a, chiaramente, l’uso di alcuni materiali o tematiche che sembravano comparire anche in altri lavori americani. Ricordo che lei fece una recensione su Flash Art del luglio dello stesso anno, in cui parlava proprio di questa energia nuova della galleria, con le sue luci al neon sparate e il suo aperitivo…

A: Doveva essere ben l’immagine di una galleria d’arte allora…

G: Esatto era totalmente un’altra cosa. Noi eravamo li, quello che veniva fuori emergeva spontaneamente, non citavamo nessuno, era la nostra ricerca, e veniva fuori dallo stare insieme, a casa di qualcuno, o uscendo in gruppo.

A: E come hai trovato il clima oggi?

G: Come ti dicevo, Francesca beccò questa veloce meteora dell’Enfatismo, e questa si chiuse con la sua morte. Ne seguì una diaspora, ho avuto contatti con alcuni degli artisti, ma con altri niente.

A: E come vivi questo momento?

G: E’ strano. Nel senso che ritrovarci dopo 30 anni a mettere i nostri ricordi in fila… ma io sono contrario al clima del “Ti ricordi…..???” . Più che altro, volevo spezzare questa rimozione che da trent’anni avvolge la sua figura, di Francesca Alinovi infatti si parla solo per il fatto di cronaca, lei è il “Delitto del D.A.M.S.” e nulla si sa delle sue ricerche come critica d’arte.

A: Come sono stati scelti i relatori?

G:  Volevo fare una giornata studio di tipo scientifico. Quindi cercando di evitare tutte le forme di intervento non tali. Ho invitato persone che l’avevano conosciuta, per cui non è escluso del tutto il fattore affettivo. Per esempio ci sarà anche sua sorella, che per trent’anni ha allontanato tutti. E questo per me è molto bello.

A: Adesso poi che Ciancabilla sta tornando a frequentare, sembra, stabilmente l’ Italia… Leggevo dei suoi tentativi di fare un’ esposizione, ma che puntualmente sono abortiti, c’è chi parla di un’eminenza grigia… E’ per questo o perché i suoi lavori non convincono?

G: Ecco, Francesco (Ciancabilla) è un po’ “Ti ricordi come eravamo???”, non si è mosso da li. Voglio dire: se io prendessi un mio lavoro di trent’anni fa e lo mettessi fuori adesso…. Non avrebbe senso. Lui sembra voglia cavalcare il momento…

A: Posso scriverlo?

G: Si certo, infondo è questo quello cui va incontro. Anche se il serbatoio di una ricerca è sempre quello, questa fa strada e si evolve. Per esempio, tornando alle teche e al materiale, è questo il sentimento che ha fatto emergere in noi “Ci lavoriamo ancora!”, perché quel materiale ha riaperto tutte le nostre curiosità, e potrebbe interessare qualcun altro… almeno lo spero, spero che non sia un gioco fatto solo per noi perché ci piaceva.

Cosi, questa chiacchierata m’è parsa giungesse a una chiave di volta. E m’è parso che tutto ci potesse rientrare dentro come in un abbraccio. Come l’abbraccio che ci scambiamo ogni volta che ci vediamo con Gino, e come l’abbraccio quasi sulle strisce pedonali che ci siamo scambiati poco dopo. Lui tornando verso il MAMbo ed io qui a scrivere questa conversazione.

 

L’idea primigenia di Zuckeberg quando ha ideato Facebook era di creare un portale tramite il quale socializzare e fare rete. Oggi Facebook è diventato una realtà molto più articolata e complessa, e gli usi che se ne fanno si sono a dir poco moltiplicati. Facebook è diventato anche uno strumento per promuovere l’arte e la cultura, per curare la brand image di un’istituzione culturale o di un museo.

L’ha ben capito l’Essl Museum di Vienna, il museo a venti minuti dal centro della città, che raccoglie la collezione di arte contemporanea dell’austriaco Karlheinz Essl. Si tratta di un museo all’avanguardia, che basa la sua policy sul coinvolgimento diretto dei visitatori. Questi non sono semplici fruitori passivi delle opere esposte, ma sono protagonisti, soggetti direttamente coinvolti nelle attività del museo. Persino nelle sue scelte curatoriali.

La mostra LIKE IT!, inaugurata il 23 ottobre, nasce proprio seguendo i gusti degli utenti dell’Essl Museum che hanno scelto le opere da esporre tramite Facebook. L’esperienza social di LIKE IT! si è sviluppata in due fasi. Dal 30 settembre all’8 ottobre, i fan della pagina ufficiale dell’Essl Museum hanno avuto la possibilità di votare, attraverso un like, tra circa 120 opere, di varie tipologie – pitture, fotografie, video –  tutte appartenenti ad artisti della collezione, nati a partire dal 1973. Le più votate sono andate a costituire la mostra allestita nella Great Hall del museo. Una volta scelte le opere era necessario dare inizio alla seconda fase del processo: a tutti gli “Amici” Facebook del Museo è stata data la possibilità di candidarsi come curatori della mostra. 5 elementi sono stati scelti per collaborare con Andreas Hoffer, critico professionista del museo. E così, dopo un workshop intensivo di due giorni, l’allestimento ha avuto inizio e i curatori in erba hanno potuto occuparsi anche dei testi di commento a corredo delle opere.

 

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Un’opera fra tutte è stata scelta ad emblema della mostra, sia perché la più votata, sia perché effettivamente rappresentativa della natura della mostra: Estrella di Patrìcia Jagicza. Si tratta di un dipinto raffigurante una donna che si specchia in un bagno per uomini mentre si sta mascherando. È stata individuata come un simbolo del problema della privacy, del dilemma tra pubblico e privato di cui sono appunto espressione i nuovi mezzi di comunicazione digitale.

 

essl museum

 

L’esperimento con la mostra LIKE IT! è continuato anche durante la Vienna Fair, tenutasi dal 10 al 13 ottobre. I visitatori della fiera sono stati chiamati a votare, stavolta, le 5 opere che costituiscono la parte speciale della mostra “Vienna Fair – The New Contemporary Special Selection”. Il parere degli utenti di Facebook, inoltre, è richiesto per tutto il corso della mostra – che si terrà fino al 6 gennaio – attraverso commenti e like che possono determinare cambiamenti nell’allestimento.

Andreas Hoffer stesso ha spiegato la necessità di portare avanti questo esperimento di curatela social partecipata: è inutile per un museo avere una pagina Facebook, un’identità sui social network, se questi devono essere usati passivamente. I social vanno considerati uno strumento professionale vero e proprio, indispensabile se sfruttato in tutte le sue potenzialità.

 

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Ed effettivamente un prima esperienza del genere l’Essl Museum l’aveva già sperimentata con il progetto “Festival of Animals”. In quel caso erano quattro gruppi a scegliere le opere, a contribuire al catalogo della mostra e a interagire direttamente con gli artisti: i bambini di due scuole, un gruppo di donne della Caritas e i fan Facebook del museo.

Sempre Andreas Hoffer ci ha tenuto a precisare, però, che quello di LIKE IT! sarà un evento “one shot”: è assolutamente vietato ripetersi nel mondo dei social e le domande da porre al pubblico devono variare di continuo. Il caso di questo museo di Vienna va sicuramente tenuto in conto come esempio intelligente di uso dei social media, un modo interattivo e dinamico per coinvolgere pubblici sempre più vasti, soprattutto giovani, all’interno di strutture e processi che spesso sono percepiti troppo settoriali o elitari. Uno sguardo fresco e nuovo sulle cose, specialmente nel mondo dell’arte e della creatività, non fa mai male.