Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
Partita IVA 03068171200 | Codice Fiscale/Numero iscrizione registro imprese di Roma 03068171200
CCIAA R.E.A. RM - 1367791 | Capitale sociale: €10.000 i.v.
La relazione fra pubblico e privato nella gestione e nella valorizzazione della cultura ha sempre costituito un tema caldo, un nodo da sciogliere, in un Paese che come il nostro è nato guardando ai beni culturali da una prospettiva centralista e che per molti versi ancora stenta a mutare la sua prospettiva. Imprese culturali e creative, start up, organizzazioni di terzo settore operanti a diverso livello nell’ambito- dalla conservazione alla valorizzazione, dalla formazione alla progettazione – da sempre si scontrano con la difficoltà di ricavarsi un ruolo legittimo al fianco del potere pubblico, dovendo confrontarsi al tempo stesso con il mercato e la sua domanda. Colpito duramente dalla tempesta economica e finanziaria che dal 2007 si è abbattuta sull’orizzonte internazionale, questo tessuto imprenditoriale, fatto di persone, idee e progettualità, è la frangia del settore culturale e creativo che si mette maggiormente in gioco, accettando in prima persona la sfida di fare cultura in un Paese centralista e burocratizzato come l’Italia e confrontandosi continuamente col mercato e con la redditività degli investimenti intrapresi.
Chi decide di fare cultura si assume il compito di immaginare il futuro, di sperimentare idee, progetti, prodotti e servizi ad alto valore aggiunto e si prefigge l’obiettivo di dare vita a modelli di attività e produzione sostenibili, capaci di generare output che incontrino i desideri della domanda e sappiano stimolarli, restando competitivi sul mercato. Non è forse a tutti quei soggetti che decidono di assumere un approccio imprenditoriale nei confronti delle attività culturali e creative che dovrebbe andare il sostegno pubblico e comunitario in una congiuntura difficile come quella attuale? Come suggerisce lo stesso Libro Verde della Comunità Europea, è la nascita di nuove imprese, soprattutto nei settori di riferimento, a rappresentare uno dei mezzi più efficienti per lo sviluppo del sistema economico e sempre cultura e creatività costituiscono due leve strategiche per la riconversione dei territori, colpiti dalla crisi dell’industria e della manifattura.
Di sostegno si è effettivamente parlato, ma forse nella confusione del momento si è perso di vista l’obiettivo di fondo, ovvero l’introduzione di misure che supportino lo sviluppo di un comparto, laddove per comparto si vogliono intendere le realtà imprenditoriali e di terzo settore che concorrono in prima persona a dare vita alle attività, al fianco del pubblico, assumendosi il rischio.
Mi riferisco alla proposta, avanzata in relazione al ciclo di programmazione dei fondi comunitari 2014-2020, di costituire un Fondo per la Progettualità Culturale concepito, in ultima istanza, per il finanziamento degli Studi di Fattibilità Esecutivi: naturali e possibile committenze dalla Pubblica Amministrazione alle grandi società di consulenza, come Federculture, la Fondazione Fitzcarraldo, Struttura e la stessa Monti&Taft, per fare solo alcuni nomi. Tale misura dovrebbe concorrere in modo forte alla riqualificazione della progettualità portata avanti dalla Pubblica Amministrazione, facilitando la concertazione interistituzionale e stimolando al tempo stesso la partecipazione del privato alle iniziative realizzate, beneficiarie di una maggiore “certificazione di sicurezza” dal punto di vista della resa economica e finanziaria.
Ponendosi l’obiettivo della crescita sistemica del settore culturale, forse l’istituzione di una misura forte come quella del Fondo di Garanzia diventa legittima, forse, se pensata in relazione alle Micro e Piccole Medie Imprese, alle start up e alle organizzazioni di terzo settore che a diverso titolo provano a concorrere sul mercato,sull’onda della crisi e della burocrazia. Incentivi per l’imprenditoria giovanile, agevolazioni per le nuove assunzioni, benefici fiscali, sussidi per la ricerca e l’internazionalizzazione dei prodotti e dei servizi sono solo alcuni delle misure che potrebbero rientrare nella sfera d’azione di un fondo pensato appositamente per il sostegno delle imprese e delle organizzazioni culturali italiane, in un’ottica di reale apertura al privato, profit e non profit.
Foto di Ian Lyam Design
In Italia, negli ultimi vent’anni, il ruolo del privato nel settore culturale si è costruito e giocato principalmente sul fronte dei servizi aggiuntivi. Facendo il loro ingresso con la Legge Ronchey del 1993 ed ampliando progressivamente il loro raggio d’azione con le misure normative che sono seguite – dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 al Decreto Legge 159 del 2007 – imprese e organizzazioni hanno provato ad introdursi nel mercato dei servizi culturali, fronteggiando numerose difficoltà, dall’inadeguatezza normativa alle restrizioni amministrative imposte.
Se inizialmente la Legge Ronchey ha previsto la concessione di un set ristretto di servizi – nello specifico: il servizio editoriale, di vendita e riproduzione, i servizi di caffetteria e ristorazione e la vendita di beni legati all’informazione museale – perseguendo criteri di convenienza finanziaria e aumento della qualità offerta, col passare degli anni è cresciuto il numero delle attività affidate a soggetti esterni all’amministrazione pubblica. Sempre più spesso sono i servizi afferenti la gestione ordinaria ad essere dati in concessione, dalla gestione delle biglietterie alla vigilanza delle sale, insieme ad attività strettamente connesse alla valorizzazione, come ad esempio la didattica. Il Codice Urbani ha posto l’accento sulla volontà di favorire forme di sussidiarietà orizzontale nella gestione del patrimonio e i “servizi al pubblico” sono oggi diventati, a tutti gli effetti, un tassello nel più ampio piano di valorizzazione delle strutture culturali.
L’evoluzione del contesto e delle stesse attività culturali rendono oggi particolarmente manifesti i limiti e le criticità dell’assetto giuridico vigente, che dovrebbe essere rivisto e aggiornato da molteplici punti di vista, dalle modalità di esternalizzazione dei servizi alla durata degli affidamenti, dalla sperimentazione di forme innovative di collaborazione alla concessione di una maggiore autonomia decisionale ai privati.
Il mondo dei servizi aggiuntivi in Italia si trova ad affrontare una situazione di forte confusione, le esperienze maturate negli ultimi vent’anni presentano oggi un settore frammentato, poco trasparente, dall’apparente scarsa redditività, popolato da soggetti imprenditoriali incapaci di progettare i servizi e la valorizzazione in un’ottica ad ampio spettro. Si pone la forte necessità di rivederne le dinamiche e la regolamentazione, così da far evolvere il settore e i suoi protagonisti.
In questa fase di transizione sempre più spesso viene chiamato in campo il Facility Management, quale potenziale best practice per il settore culturale, vera e propria chiave di volta per avviare una nuova fase della gestione pubblico-privata della cultura. In estrema sintesi, per Facility Management s’intende il coordinamento unitario di tutte le attività che non rientrano nel core-business aziendale ma che sono tuttavia necessarie per il funzionamento dell’organizzazione. A caratterizzare con forza questo approccio è l’affidamento unitario di tutte le attività non core – quindi di servizi fra loro anche molto diversi – ad una singola impresa o ATI, che ne cura la gestione in un’ottica integrata, riducendo i costi amministrativi e gestionali legati alla diversificazione dei contratti e agevolando l’accorpamento di alcune prestazioni. Il fornitore che subentra s’impegna a predisporre una sorta di cabina di regia sulle varie attività – si pensi ad esempio al Global Service – deve per questo possedere un insieme di competenze ampio e diversificato ed è spesso vincolato da accordi e contratti basati sulle performance
Ma il sistema culturale italiano è pronta ad accogliere il Facility Management?
L’ecosistema italiano della cultura può essere efficacemente paragonato ad un museo diffuso, una rete che ospita quattro o cinque attrattori e circuiti di grande richiamo, ma che annovera poi un fitto tessuto di istituti culturali di dimensioni minori, disseminati capillarmente sul territorio nazionale. Per ricchezza e frammentazione il patrimonio culturale italiano può considerarsi unico e non si può non prendere atto di tale unicità anche nelle scelte amministrative.
Il Facility Management può rivelarsi uno strumento adeguato anche per la gestione dei servizi culturali nei sistemi minori? Le nostre imprese sono giunte ad uno stato di maturità che consenta loro di competere con i grandi gruppi internazionali attivi nel settore? Se così non fosse, questi soggetti sarebbero gli unici a beneficiare dell’apertura del mercato e, ancora una volta, assisteremo inerti alla colonizzazione delle nostre risorse.
Prima di rivolgere tutte le attenzioni ad uno strumento come il facility management forse dovremo partire dai limiti strutturali della situazione attuale per sostenere la nascita e la crescita delle PMI del settore culturale, guidandole all’interno di sistemi territoriali ben oliati, capaci di trasformare gli attrattori culturali in fonti di ricchezza da ridistribuire sul territorio. I musei, le aree archeologiche e i siti culturali sono catalizzatori di flussi, attorno ai quali possono nascere e svilupparsi tutta una serie di servizi, dal retail al turismo, alle nuove tecnologie – che possono costituire terreno fertile per una generazione di startup e micro imprese innovative.
Un giorno, forse, queste imprese saranno maturate ad un punto tale da poter competere con i grandi player internazionali e l’apertura del mercato non potrà che essere lo step fondamentale per proseguire con una crescita virtuosa. Fino a quel momento, non possiamo pensare di fronteggiare i giganti con le nostre sole mani e dobbiamo saper valutare attentamente i retroscena di ogni scelta di gestione afferente il patrimonio.
In un momento difficile come questo per le imprese italiane, ci sono notizie che aiutano a sperare. L’Associazione “Il Paesaggio dell’Eccellenza” ha infatti ricevuto il prestigioso Premio Internazionale sullo Sviluppo Locale. La consegna del riconoscimento è avvenuta lo scorso 4 ottobre a Cluses, il più famoso distretto industriale francese.
Questa realtà marchigiana e italiana è stata premiata per la capacità di coinvolgere aziende diverse su temi di interesse generale, riservando grande attenzione per la preservazione del paesaggio, la tutela di prodotti di qualità e la valorizzazione del lavoro. Il Paesaggio dell’Eccellenza è inoltre da sempre impegnato a conservare quella memoria storica delle imprese e delle competenze professionali che hanno fatto del Made in Italy un valore riconosciuto in tutto il mondo.
Abbiamo voluto saperne di più dell’attività di questa associazione culturale, rivolgendo qualche domanda al direttore Alessandro Carlorosi.
Quando e come nasce l’Associazione “Il Paesaggio dell’Eccellenza”?
L’Associazione “Il Paesaggio dell’Eccellenza” nasce da un’ipotesi progettuale partita nel 2003 su proposta del gruppo FIMAG iniziative Guzzini, che ha istituito un comitato promotore cui hanno aderito il Comune di Recanati, l’Università di Camerino e lo Studio Conti.
Dal comitato promotore è stato elaborato un documento progettuale per la costituzioni di un Centro Studi e documentazione della realtà produttiva del distretto recanatese. Successivamente sono state coinvolte altre importanti imprese del territorio, delle vallate del Potenza e del Musone, distretto a cavallo tra le province di Macerata e Ancona a forte vocazione multisettoriale, che hanno deciso di aderire a questo progetto culturale.
Nel 2005 si è deciso di istituire questa associazione no profit. Aderirono circa 20 imprese ed alcuni enti locali, come appunto l’Università di Camerino, il Comune di Recanati, la Camera di Commercio di Macerata, formando un fronte comune estremamente eterogeneo, ma motivato nel raggiungere le finalità del Paesaggio dell’Eccellenza.
Quali le finalità che l’Associazione si è posta? Con quali risultati fino ad ora?
Le finalità sono quelle di perseguire scopi culturali, di promozione e valorizzazione del patrimonio industriale ed artigianale, inteso come complesso di tradizioni ed esperienze innovative, in riferimento a tecniche, tecnologie, attività della produzione, professioni, uomini e imprese. Più in generale ci impegniamo nella conservazione, valorizzazione e promozione della cultura di impresa e del paesaggio marchigiano quale elemento coesivo.
E’ stato fondamentale fare una prima consultazione con tutti gli imprenditori associati, ascoltandoli uno ad uno, cercando una via comune sulla quale abbiamo cominciato a lavorare.
La necessità primaria è stata quella di avviare rapporti con le scuole e i giovani, coinvolgendo gli istituti locali e gli stessi docenti su questi temi. Il risultato è stato quello di avvicinare, con attività concrete, l’impresa alla scuola.
Iniziative, eventi e attività hanno invece portato alla costituzione del museo del patrimonio industriale, uno tra i primi obiettivi posti nel progetto, creando in questo modo un luogo fisico per far conoscere questo patrimonio e queste storie.
Sul fronte iniziative è interessante ricordare le partecipazioni annuali alla Settimana della Cultura d’Impresa promossa da Confindustria e organizzata da Museimpresa. In queste occasioni abbiamo portato, spesso nelle Università del territorio, delle iniziative mirate a trasferire esperienze locali e nazionali, sui temi legati al lavoro e alla cultura d’impresa, invitando ad esempio importanti professionisti del settore.
Alla costituzione del museo ha contribuito anche tutto il lavoro di raccolta della documentazione che è avvenuto a seguito della realizzazione di eventi o iniziative mirate, come l’organizzazione del concorso fotografico “Paesaggi del Lavoro”. Il contest ha permesso a molti fotografi di entrare nelle imprese e raccontare i luoghi del lavoro e analizzare il rapporto tra architettura industriale e paesaggio, costituendo così un fondo di circa 500 immagini di grande valore documentativo.
Il Museo, denominato Centro Studi Il Paesaggio dell’Eccellenza, ha trovato sede stabile nel giugno del 2010 presso la Galleria Civica Guzzini a Recanati e ospita un’area permanente che racconta l’Associazione e uno spazio dove si alternano esposizioni e iniziative organizzate dall’Associazione o in alcuni casi dalle imprese associate.
Cosa ha significato vincere il Premio Internazionale di Sviluppo Locale?
Sicuramente è stata una grande soddisfazione per il lavoro svolto in questi anni, cominciato da zero, attraverso cui si è potuto creare un qualcosa che non esisteva nel nostro territorio. Grande soddisfazione anche per le imprese e gli enti associati, che hanno investito tempo e denaro in un progetto culturale che sta dando frutti soddisfacenti, iniziando ad essere considerato a livello nazionale ed internazionale per la sua capacità di aver messo insieme aziende eterogenee, sia in dimensioni che in produzione, con istituzioni pubbliche.
Nel contesto del Premio Internazionale di Sviluppo Locale abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con altre case history, a livello internazionale, provenienti ad esempio da Tunisia, Argentina, Marocco e altri progetti simili in altri Paesi.
In che modo l’Associazione si impegna nel sostenere le imprese del territorio, molte delle quali colpite dalla crisi?
Il ruolo dell’Associazione è quello di lavorare su un piano differente da quello del business e di profitto economico delle aziende. Vogliamo fornire un terreno comune, quello della cultura, in cui identificarsi e poter partire, creando una nuova occasione di dialogo tra le imprese, associate e non, e soprattutto tra le aziende e le istituzioni pubbliche per dare una solida base alla crescita futura delle comunità.
Quello dell’Associazione rappresenta un modo per far rete?
Attraverso il nostro progetto, negli incontri associativi, sono nate opportunità per le imprese, come commissioni di lavori sul territorio, che contribuiscono al miglioramento del paesaggio e dei centri storici, o addirittura il semplice incontro tra imprenditori durante un evento o una riunione, hanno avviato strategie comuni in campo economico. C’è un bilancio sociale, ma anche risultati in termini di possibilità di collaborazioni tra le imprese, che sono state poi proseguite sul piano commerciale autonomamente.
Ovviamente la rete è nata e prosegue con il principale intento di lavorare sul terreno della Cultura d’Impresa a favore del territorio con tante iniziative in cantiere o da avviare.
Quale collocazione ritiene avranno le imprese marchigiane e italiane nel prossimo futuro, anche in considerazione della concorrenza estera?
A mio avviso hanno tutti i numeri sul piano industriale e del lavoro per competere; hanno meno numeri sul piano burocratico, creditizio e in termini di politiche industriali del nostro Paese. Molto spesso, per tali motivazioni, ascoltiamo imprenditori con progetti interessanti che trovano però difficoltà a realizzarli nel contesto nazionale. Le nostre imprese possiedono però tutte le caratteristiche per vincere la crisi e la concorrenza estera.
Nello specifico, le aziende marchigiane puntano ad un ritorno sulla produzione, non dei grandi numeri, ma dall’elevata qualità. In questo caso l’associazionismo può essere utile per esportare l’idea di fronte unito.
In questo momento lo scenario economico vede venir meno l’esternalizzazione di alcune fasi produttive per gli elevati costi, soprattutto nel controllo, nella gestione e nel trasporto dei beni, che rischiano di far uscire i prodotti dal prezzo di mercato.
Le imprese del nostro distretto hanno la straordinaria capacità di ideare e realizzare i loro prodotti totalmente al loro interno, in una filiera estremamente corta che garantisce l’elevata qualità del prodotto e la capacità di creare ricchezza economica e sociale sul territorio.
Si tornerà dunque a produrre interamente in Italia?
Questo non so dirlo. Ma posso assicurare che esistono molte imprese nella Marche, è bene dirlo, che vantano 50, 100 anni di esperienza. Hanno dunque produzioni totalmente interne, poiché in questi anni si è creata una competenza molto alta e specializzata, e anche la tecnologia è all’avanguardia, grazie agli investimenti fatti nel tempo.
Ci sono dunque le possibilità per affermarci e farci ancora valere.
Associati de “Il Paesaggio dell’Eccellenza”
Acrilux – Banca di Credito Cooperativo di Recanati e Colmurano – Brandoni – Campetella Robotic Center – Castagnari Organetti – Clementoni – Fbt elettronica – Garofoli Vini – Pigini Fisarmoniche – Rainbow – Soema – Studio Conti – Valenti&Co.
Gruppo Guzzini: Fratelli Guzzini – Gitronica – iGuzzini illuminazione – Teuco
Gruppo Garofoli: Garofoli Porte – Gidea
Gruppo Pigini: Eko Music Group – Eli edizioni – Rotopress International – Tecnostampa
Gruppo Somi: Somidesign – Somipress
Soci onorari
Comune di Recanati – Fondazione ITS Recanati – ITIS “E. Mattei” Recanati – Università di Camerino
Nel nostro Paese, ancora oggi, si realizzano spot o campagne pubblicitarie in cui si tende a rappresentare la famiglia in modo molto tradizionale, come era negli anni ’50 o ’60: il papà che lavora fuori casa, la mamma casalinga, i figli che studiano e hanno necessità di ricche colazioni e sostanziose merende (benché l’obesità infantile sia piaga riconosciuta).
Questi stereotipi non sono più totalmente in linea con la nostra società, che è cambiata, si è evoluta e in cui i ruoli si sono modificati: il papà oggi cambia i pannolini, la mamma lavora anche fuori casa, ecc. Non siamo certo ai livelli del nord Europa, ma ritengo giusto che la pubblicità rifletta la società contemporanea.
E’ quindi corretto che si tenga conto anche delle situazioni non tradizionali (se vogliamo usare questa terminologia), delle diversità (tema che sarà proprio al centro della Nona Conferenza Internazionale della comunicazione sociale che come Unicom stiamo organizzando al fianco di Pubblicità Progresso per il prossimo 18 novembre a Milano, dedicata a “Il valore della diversità – Verso una nuova cultura di genere”).
Ben venga, dunque, se la pubblicità adeguandosi ai tempi, contribuisce ad un cambio di mentalità.
Non trovo invece che sia corretto strumentalizzare questi temi (omofobia, violenza sulle donne ecc.) perché, purtroppo, fanno scalpore e quindi fanno sì che si parli di quello o quell’altro spot.
Riguardo all’infelice affermazione di Guido Barilla, si può leggere in due modi differenti. Può essere stata frutto di una svista, carpita a tradimento da un abile conduttore. Diciamo che da un capitano d’azienda ci si aspetterebbe più capacità di reazione e più prontezza, invece sembra sia caduto molto ingenuamente nella trappola che gli era stata tesa.
Viceversa potremmo sospettare che si sia voluto esprimere in questi termini proprio per sfruttare lo scalpore che ne è derivato, ma in questo caso si è rivelata un’arma a doppio taglio, un vero boomerang.
Un ultimo commento lo lascio alla nuova comunicazione di Enel “#Guerrieri”: trovo l’idea creativa interessante, capace di generare il coinvolgimento e di far sentire protagonista la gente comune con i suoi problemi quotidiani, a patto che non sia un modo di accattivarsi questo target in vista di future operazioni finanziarie.
… quindi sì alla vita reale, no alle strumentalizzazioni.
Donatella Consolandi è Presidente Unicom – Unione Nazionale Imprese di Comunicazione
TechCrunch è l’evento che per due giorni (26 e 27 settembre) al Maxxi di Roma ha reso protagonisti progetti e scommesse per il futuro. Start-up vincitrice della II edizione di questo appuntamento internazionale è GiPStech.
GiPStech, selezionata tra 200 candidature, è una tecnologia per la geolocalizzazione indoor, utilizzabile in assenza di copertura del segnale GPS, non usa Wi-fi, ma il campo magnetico terrestre. Utilizzabile negli spazi interni, come per esempio i musei, è stata scelta come l’idea imprenditoriale digitale più interessante tra 8 finaliste. I suoi fondatori: Matteo Faggin, Gaetano D’Aquila e Giuseppe Fedele, si aggiudicano 2 biglietti per il prossimo Disrupt SF e il premio, offerto da Populis, consistente in un finanziamento da 10.000 euro più un pacchetto di visibilità da 40.000 euro sulle media properties di Populis, fondata da Luca Ascani e Salvatore Esposito.
Tra i progetti interessanti Fluentify, una delle finaliste, piattaforma attraverso cui entrare in contatto con docenti di madrelingua, a scelta, con cui conversare online. Il progetto non è una novità in assoluto, ma sicuramente utile nel campo dell’apprendimento linguistico. Molte start-up presenti non erano orientate ai consumatori, ma all’offerta di servizi alle aziende, come per es. BeMyEye (servizio che consente di vedere cosa accade nei negozi di un’azienda) o Vivocha (offerta di assistenza da parte delle aziende ai propri clienti, che spesso abbandonano un acquisto online proprio per la mancanza di supporto).
Techcrunch, in collaborazione con Populis, ha dimostrato anche quest’anno di essere il palcoscenico dell’imprenditoria digitale, attenta alle innovazioni in campo informatico e impegnata a dare visibilità alle start-up digitali italiane. Il bilancio dell’edizione 2013: un migliaio di partecipanti, oltre cento giornalisti, decine di relatori affermati nel campo, presentati e intervistati da Marco Montemagno, come l’investitore israeliano Yossi Vardi, Francesco Caio (Responsabile di Agenda digitale), Renato Soru (Co Founder di Tiscali), Lucas Carné (co founder e CEO di Privalia), John Underkoffler (founder di Oblong e ideatore dell’interfaccia del film Minority Report), Steffi Czerny (founder delle conferenze tech DLD e DLD Women) e molti altri.
Tra gli interventi più significativi quello della giovane Amelia Showalter (Former Director of Digital Analytics della campagna per la rielezione a presidente di Obama) che ha dimostrato come una squadra di 18 giovanissimi scrittori di email si sia occupata, con successo, della raccolta fondi per la campagna volta alla rielezione di Obama. Questi diversi stili di email venivano testati continuamente per capire quale funzionava, dovevano essere il più possibile diversi e a volte quello esteticamente migliore non otteneva i risultati sperati. Era necessario inventare, osare, perché il pubblico è diverso, per appartenenza sociale, cultura etc. Questa squadra di giovanissimi, su cui Obama ha puntato, è stata vincente e la fiducia nei giovani è stato forse il messaggio più utile che Amelia poteva darci.
John Underkoffler ha illustrato come la tecnologia ‘touch’ sia superata: quella del film Minority Report non era un effetto speciale, ma è ciò che già esiste; ad oggi è infatti possibile con dei gesti davanti ad uno schermo, senza toccarlo come nel film, far eseguire funzioni ad un pc o spostare contenuti da un dispositivo all’altro.
L’investitore francese Fabrice Grinda, oltre ad organizzare numerosi incontri, ha rappresentato l’utilità sociale dei nuovi prodotti informatici che ci consentiranno in breve tempo di abbattere i costi dell’energia solare, della purificazione dell’acqua, di eliminare gli incidenti stradali grazie al self-driving, di computerizzare il controllo sulla nostra salute. Forse non tutti sanno che in Estonia il 24% della popolazione ha votato online nel 2011, il 93% paga online tasse, spese scolastiche e sanità, ma che soprattutto l’Africa è economicamente in crescita. Se gli scenari di guerra o depressivi fanno più notizia queste prospettive rincuorano non poco.
Ed è forse proprio una prospettiva sociale ed ecologica, investimenti nel welfare, che ci sarebbe piaciuto vedere di più in questo convegno. A parte l’esempio di Charity Stars che convoglia donazioni di personaggi famosi, a favore di associazioni quali Emergency o Medici senza Frontiere. Speriamo che in Italia venga superata la difficoltà per le giovani start-up di trovare capitali per finanziare progetti innovativi e che sempre più giovani abbiano il coraggio e la creatività di presentare progetti tesi a migliorare la società, la qualità della vita o l’ambiente, e non soltanto i profitti.
Finalmente la Commissione europea ha dato il via libera al pacchetto di misure inerenti le misure tlc in tema di roaming. Effettuare e ricevere chiamate all’estero diventerà molto meno caro abbattendo di fatto le frontiere territoriali che oggi vigono in tema di telecomunicazioni.
Basta quindi ai rincari non appena varchiamo la soglia nazionale: il presidente della Commissione Jose Manuel Barroso ha infatti stabilito che dovranno essere abbattuti tutti i costi extra in Europa per le chiamate in entrata da luglio 2014 e per quelle in uscita da luglio 2016.
Gli operatori potranno quindi decidere di proporre ai loro clienti delle formule di abbonamento per l’estero in linea con le tariffe dei paesi stranieri oppure lasciare che i propri utenti, una volta arrivati a destinazione, decidano di passare ad un altro operatore più conveniente senza bisogno di cambiare Sim.
In ogni caso nessun operatore telefonico potrà sforare la soglia prevista dei 19 centesimi al minuto (iva esclusa).
Un balzo in avanti dunque per la mobilità e la concorrenza che si traduce nell’annullamento anche dei blocchi e delle limitazioni della rete internet. Secondo il “principio della neutralità di internet”, infatti, gli utenti potranno recidere più facilmente dai contratti con i fornitori mentre questi ultimi avranno sempre la possibilità di fornire servizi specializzati, a prescindere dal device e dal territorio in cui i clienti si collegano.
Le porte delle TLC cominciano quindi ad aprirsi ad un mondo più vasto in cui i confini (economici, territoriali e aziendali) piano piano vanno sparendo.
Che cosa sono i MOOCs? L’acronimo sta ad indicare i Massive Open Online Courses, cioè dei corsi gratuiti disponibili online di alto livello formativo.
Dov’è la notizia? Che il grande colosso del web, Google ovviamente, sta mettendo mano alla formazione preparando una piattaforma, dal nome mooc.org, che dal 2014 diventerà una sorta di Youtube per la formazione.
Finora non sembrerebbe un’iniziativa molto innovativa, visto il successo dell’anno scorso di Course Builder, ma le cose cambierebbero radicalmente se vi dicessimo che i corsi caricati sul sito sono dei migliori docenti del MIT e delle università di Harvard? E vi diciamo anche di più: Big G sta predisponendo sulla stessa piattaforma la possibilità per i docenti di tenere le loro lezioni direttamente online, gratis e aperte a tutti in nome della condivisone e dell’associazionismo no-profit.
Per questo, partner dell’iniziativa è EdX, la no-profit creata dalle università di Harvard e dal MIT proprio in nome della condivisione del sapere (tra i soli esponenti universitari però).
L’amministratore delegato della EdX con queste parole plaude l’iniziativa: “Da sempre abbiamo apprezzato l’impegno di Google per il libero accesso al sapere e pensiamo che possa essere il partner perfetto per delineare un nuovo tipo di educazione libera da vincoli economici e spaziali”
Certo è che prima o poi anche i progetti no profit per andare avanti hanno bisogno di soldi: che verranno da donazioni e sottoscrizioni specificano da Google, ma continueranno ad essere totalmente gratuiti per gli utenti worldwide.
Che le strategie di marketing di Google si stiano piano piano dirigendo verso la filantropia? Così sembrerebbe, visto anche l’annuncio sempre da Mountain View della recente alleanza con Udacity per la creazione della Open Education Alliance volta a fornire strumenti formativi utili alla ricerca di un lavoro nelle industrie tecnologiche.
Siete pronti al vostro diploma di laurea targato Google?
Intervista al Prof. Filiberto Zovico, tra i proponenti della candidatura di Venezia e del Nord-est
Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategia e il progetto del 2019?
L’identità riguarda in gran parte la storia, nel senso che Venezia è sempre stata il Nord-est e il Nord-est è sempre stato Venezia. Per centinaia di anni questa compenetrazione tra città e territorio è stata un dato storico inconfutabile, come dimostra ad esempio la presenza del Palladio nel campo artistico e quella della Repubblica in quello politico. Ma il legame è anche moderno poiché nella contemporaneità l’intero territorio quando si racconta in maniera globale, lo fa tramite Venezia: alcuni produttori dell’amarone della Valpolicella presentano il loro come il vino delle Venezie; andando all’estero se qualcuno ci chiede la provenienza si dichiara di vivere “near Venice”. La città è simbolicamente la rappresentazione di un territorio estremamente ampio, che va anche oltre il Nord-est stesso.
Questo giustifica la scelta della candidatura comune di Venezia e del Nord-est, motivata sia dalle radici storiche, sia dal fermento delle industrie creative del territorio, che creano un legame molto forte con il capoluogo. Basti pensare che la Fondazione Guggenheim e la stessa Biennale racchiudono e rappresentano molte delle imprese culturali attive al di fuori di Venezia.
Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
Gli asset riguardano l’idea principale di non costruire nuove opere fisiche, come musei e strutture materiali, poiché già ce ne sono in abbondanza sia a Venezia che nel territorio. Si intende piuttosto creare reti museali, di percorsi turistico –culturali, creative. Il lavoro è più sul software che sull’hardware. E’ la prima grande operazione europea, e forse mondiale, di costruzione di reti metropolitane che si sviluppa sull’esistente, e deriva da una tradizione di piccole città che nel corso degli anni si sono trasformate in un’unica grande megalopoli.
Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
La mancanza cui la candidatura intende sopperire è la debolezza nei collegamenti tra i diversi punti. Abbiamo le più importanti vie di comunicazione a livello europeo e mondiale, con aeroporti, strade, porti e ferrovie, mentre siamo carenti sul piano interno in collegamenti metropolitani. E’ su questi aspetti che la candidatura intende agire per superare i problemi derivanti.
Si intende mettere in rete il territorio non solo dal punto di vista culturale e turistico, ma anche e soprattutto sul piano dei trasporti: le due cose si aiutano e rafforzano. Riguardo tale aspetto si agirà poi perentoriamente secondo una logica di eco sostenibilità.
Altra difficoltà, ma non oggettiva, è il numero delle menti coinvolte: quello che poteva sembrare un ostacolo, sembra tuttavia che si stia dimostrando un punto di forza. Sei diverse istituzioni riescono a sopperire alle difficoltà temporanee di ciascuna, evitando che il progetto si fermi, ad esempio, in caso di disaccordo politico interno ad una di loro.
I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
La candidatura parte da un assunto: ha come tema la pace come fattore di sviluppo economico e culturale. Parte dello sviluppo di questo territorio, in un periodo di nota crisi, è frutto dell’industria creativa, che va dalla moda e dal design fino all’innovazione tecnologica e scientifica. Il coinvolgimento dell’impresa è molto forte e non a caso un sondaggio sulle candidature italiane dimostra come Venezia e il Nord-est primeggino nel campo dell’innovazione creativa a livello nazionale. Dal punto di vista economico è una candidatura che pensa di basarsi per oltre il 50% sui contributi che arriveranno dalle aziende private e di non pesare nemmeno per un euro sulle spese statali.
Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Intanto è importante considerare il “durante”: la candidatura di Venezia e del Nord-est avrà benefici non solo per questo territorio, ma per l’intero sistema culturale e turistico italiano. La città lagunare e il territorio circostante sono importanti attrattori e tenderanno a sostenere il turismo culturale di tutto il Paese.
Per quel che riguarda il “dopo”, non si tratta di un evento, ma di un processo partito già da cinque anni, che intende proseguire anche successivamente, proponendo il territorio come un polo creativo capace di attrarre giovani talenti da tutto il mondo, affinché si riveli un terreno fertile capace di porre le condizioni per sviluppare le nuove industrie creative del futuro.
La costruzione di questo software complicato determinerà un’accelerazione dello sviluppo e della competitività del territorio e del Paese tutto.
Le altre candidature a Capitale europea della Cultura 2019
La prossima sfida del web si chiama Internet.org ed ha un obiettivo a dir poco ambizioso: tutto il mondo connesso.
E’ questa la grande rivoluzione che stanno preparando per l’intera umanità i 6 colossi del web Facebook, Ericcson, MediaTek, Nokia, Opera, Qualcomm e Samsung che puntano a rendere la rete accessibile a 5 miliardi di persone.
Ad oggi, infatti, solo un terzo della popolazione mondiale è connesso ad internet e di questi, circa la metà utilizza Facebook.
Una semplice trovata di marketing? Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, assicura che non lo è: “Non si tratta di soldi. Se si trattasse solo di questo, ci potremmo ritenere già soddisfatti perché quel milione di utenti ad oggi attivo su internet rappresenta la fascia più ricca della popolazione mondiale. Ciò a cui puntiamo – tiene a specificare – è l’economia della conoscenza che è l’unico volano di sviluppo possibile nel futuro.”
Il progetto, che si chiama appunto Internet.org, si presenta con un video di poco più di 1 minuto dai colori caldi e dal sonoro che richiama l’ “I have a dream” di Martin Luther King: ad essere protagonisti soprattutto le popolazioni africane, i paesi in via di sviluppo dove a malapena l’1% degli abitanti conosce internet e riesce a connettersi.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=NdWaZkvAJfM]
Un mondo in cui tutti sono connessi riuscirebbe sicuramente ad eliminare le distanze fisiche, una bella sensazione che abbiamo in parte già provato e sperimentato e di cui di certo non riusciremo più a fare meno.
Tutti sanno, di contro, che internet è tanto prezioso quanto potente e che il suo utilizzo può anche essere indirizzato a limitare la privacy e la libertà degli individui.
Ma è pur sempre una risorsa che, come tale, ha suoi pro e i suoi contro. Sarebbe come non vivere per paura di morire e questa filosofia non è quella vincente alla soglia del terzo millennio.
3 i punti chiave dell’operazione: riduzione del costo degli smartphone e quindi dei trasferimenti dati, miglioramento della larghezza di banda per abbattere il digital divide, modelli aziendali innovativi che consentano la riduzione dei costi.
Ovvio che l’intento di business c’è ed è anche palese: in un mercato ormai saturo, le aziende produttrici di tecnologia devono espandersi altrove, conquistando fette di mercato molto appetibili ma ahimè ostacolate da limiti infrastrutturali troppo grandi. E allora, come la montagna che va da Maometto, Zuckerberg &Co. se ne vanno a bussare alle porte delle aziende proprietarie delle infrastrutture web, per fare mercato assieme. Tu mi dai la rete, io ti connetto il mondo. Perché se è vero che oggi questa manciata di aziende vendono a 100 un servizio a costo 10, domani potranno vendere a 300 la stessa cosa a costo 5 vedendo così quasi raddoppiati i loro guadagni.
Manca qualcuno? Google, che sta tentando un’operazione simile, ma in solitaria, con Project Loon una serie di palloni aerostatici muniti di antenne in grado di espandere la connettività, e Microsoft, che per il momento rimane a guardare e anzi, sminuisce il tutto condensando nelle poche parole di Bill Gates tutto l’affaire: “Se un bambino in Africa muore di fame o di dissenteria, non sarà certo una connessione internet a salvarlo”.
Verissimo. Ma se nella vita non ci fosse sempre bisogno di un aut-aut? Se quella connessione ad internet servisse anche a far capire che ci sono altri modi per curare una dissenteria?
La risposta a questi interrogativi è quella che diamo alla domanda: “grazie ad internet ho imparato qualcosa in più? Posso dire che internet ha aumentato il mio grado di conoscenza?”. Se ce l’abbiamo fatta noi forse ce la possono fare tutti. Vale la pena tentare.
Da quanto tempo non giocate a Monopoly? Probabilmente da tanto visto che nessuno ha più così tante ore libere da dedicare ad uno dei più classici ed intramontabili giochi da tavola.
Forse è stato proprio partendo da questa considerazione che l’editore statunitense Hasbro proporrà, per il prossimo Natale, la versione Monopoly Empire: non più casette ed alberghi o partecipazioni statali per la società ferroviaria od elettrica bensì azioni e grattacieli da conquistare in Borsa. Segno dei tempi che cambiano: tanto che la nuova versione del gioco prevede partite di massimo mezz’ora dove i giocatori, improvvisati manager, dovranno riempire i loro grattacieli di mega cartelloni pubblicitari, investendo azioni, comprando e rilanciando in aziende come Yahoo, Samsung, Coca-Cola o Nestlè.
Non si tratta però di speculazione, tengono a precisare dalla casa madre, ma solo di una corsa verso chi riesce ad arricchirsi più velocemente: anche questo specchio della società iperattiva e capitalista in cui viviamo?
Fatto sta che comunque la nuova versione di Monopoly andrà solo ad affiancarsi alla classica, senza sostituirla. Un primo passo verso quell’opera di “svecchiamento” che la Hasbro sta operando e che si inserisce in operazioni economiche (vere questa volta) che l’azienda sta compiendo: dopo l’investimento di 112 milioni di dollari nell’acquisizione del 70% di Balckflip Studios, società di sviluppatori attiva nel campo delle app per giochi, Hasbro mantiene infatti la sua volontà di diversificare il mercato, proponendo versioni tecnologicamente avanzate e app per device mobili dedicate ai suoi celebri giochi.
Frutto della crisi generale che sta investendo il settore del gaming: i ricavi dell’azienda sono infatti calati di circa il 6% in questo secondo trimestre del 2013, così come anche quelli dei principali competitor, come il marchio Mattel, ad esempio, che ha registrato anch’esso risultati al di sotto delle aspettative.
Venduto in 111 paesi e disponibile in 43 lingue, la nuova versione del Monopoly arriverà per il momento in Francia per poi estendersi al mercato mondiale.
Ah, ovviamente dimenticate il fiaschetto o il funghetto come pedine: un pacchetto di patatine di Mc Donald’s, una consolle Xbox e un auto da corsa fiammante e laccata in oro andranno a sostituirli, icone sicuramente più adatte ai nuovi (finti) manager del XXI secolo.
In costante aumento, gli orti urbani sono ormai presenti in molte città italiane, piccole o grandi che siano. Nel 2013 Coldiretti ha annunciato il record totale di 1,1 milioni di metri quadri di terreno di proprietà comunale destinati a orti urbani. Inoltre, poco più di un terzo (38%) delle amministrazioni comunali dei capoluoghi di provincia li hanno inseriti tra le modalità di gestione delle aree del verde.
Complice la crisi, ma anche l’aspirazione a un’alimentazione più sana ed ecco che sempre più persone riscoprono il piacere di coltivare il piccolo appezzamento di terra messo a loro disposizione e produrre per la propria tavola ortaggi, verdure e frutti. Antiche tradizioni e segreti del mestiere si apprendono dalla rete: sono sempre più diffusi i social network, i blog e i siti dedicati. La Zappata Romana, ad esempio, oltre ad aver sviluppato una mappa online di tutti gli orti urbani della capitale, visitata ogni anno da oltre 30 mila persone, fornisce le linee guida per realizzare un orto condiviso.
La tutela dell’ambiente, insita nell’impegno a prendersi cura quotidianamente della terra, diviene dunque un momento di condivisione: lavorare fianco a fianco, scambiarsi consigli, suggerimenti e strumenti di lavoro favoriscono l’aggregazione sociale.
Questo non è, tuttavia, il solo beneficio apportato dagli orti urbani. Gli orti possono essere, infatti, uno strumento di valorizzazione del territorio e dei beni culturali. Vediamo come. È stato siglato nel maggio scorso il progetto nazionale “Orti Urbani”, promosso dall’associazione Italia Nostra Onlus con l’intento di creare una rete di orti all’interno delle città.
Il progetto, al quale hanno aderito quest’anno anche il Ministero per le Politiche Agricole e Forestali e l’ANCI, mira a realizzare un’unica rete in tutta Italia, che, ispirandosi a comuni regole condivise, favorisca lo sviluppo di un’economia etica e la valorizzazione del patrimonio storico, gastronomico e culturale connesso alla coltivazione.
È esemplificativa in tal senso l’esperienza del Comune di Ostuni, che nell’ambito di tale progetto, ha deciso di riqualificare l’intera cinta muraria, andando ricreare gli orti terrazzati che un tempo caratterizzavano l’area. Coinvolgendo gli studenti alla riscoperta delle antiche tradizioni contadine e con un forte impegno dell’amministrazione comunale, si andrà a restituire al territorio un’area di circa 1.500 metri quadrati, che saranno destinati in parte a verde pubblico e in parte dati in gestione diretta ai residenti, alle associazioni e alle scuole.
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Chissà se nel lontano 1860 il signor Stefano Pernigotti, droghiere specializzato in “droghe e coloniali” in piazza del mercato a Novi Ligure (AL) , rinomato per la sua mostarda e in particolare per il suo torrone, si sarebbe mai immaginato che la sua straordinaria ricetta sarebbe passata poco più di un secolo e mezzo più tardi nelle mani di una famiglia straniera, turca per giunta?! Eppure è Averna, dopo diciotto anni dall’acquisto dall’ultimo erede omonimo pronipote Stefano Pernigotti , a vendere a sua volta. Acquirenti due fratelli della famiglia Toksoz, big turchi nel settore alimentare- dolciario, farmaceutico ed energetico.
Il gruppo Toksoz, con sede a Istanbul, realizza un fatturato annuo pari a circa 450 milioni di euro. Inoltre, attraverso una società controllata detiene i marchi Tadelle, Sarelle e una gamma completa di snack dolci, creme spalmabili e gelati per un valore annuo di circa 80 milioni. Acquisendo Pernigotti, il cui ricavo viene per poco più della metà dal segmento dolciario e per il restante dai prodotti per il gelato e la pasticceria, venduti maggiormente in Italia ma da qualche anno apertisi ai mercati internazionali, Sarelle duplicherebbe quindi il suo fatturato.
Ottimiste le dichiarazioni di entrambi i contraenti con prospettive di continuità e sviluppo, più preoccupata invece la Coldiretti, la quale teme che il passaggio di proprietà possa portare alla perdita di occupazione per gli attuali 150 dipendenti e alla delocalizzazione della produzione.
Tutte la costa turca del Mar Nero è famosa infatti per la produzione, oltre che di tè, di nocciole; tanto che nel 2012, la Turchia ha raggiunto un nuovo record di vendite conquistando il primato mondiale secondo i dati forniti dalla Borsa Merci di Trabzon (capoluogo della regione) con 265.000 tonnellate di esportazioni.
Altissima e spietata quindi la concorrenza con i produttori italiani di Piemonte, Lazio, Campania e Sicilia, che vantano le rispettive Nocciola di Giffoni I.G.P., Nocciola Romana D.O.P. e la Nocciola Piemonte I.G.P.; se queste da un lato rivendicano una superiorità rispetto a quelle estere per dolcezza e persistenza olfattiva, la proposta turca dall’altro sembra avere un rapporto qualità/prezzo che soprattutto nel grande mercato ottiene spesso il sopravvento.
Diverse aziende italiane, tra cui anche la Ferrero, per realizzare la tanto italiana Nutella, utilizza da tempo gran parte di nocciole provenienti Georgia, Cile e ha aperto negli ultimi mesi un branch proprio in Turchia.
Non è forse un caso dunque se Pernigotti, vincitore del Sapore dell’anno 2013 ha scelto proprio una società turca a cui affidare il prestigio e la tradizione dei suoi cioccolatini, gelati e torroni. Del resto i Toksoz vantano un elevato know-how nel campo della nocciola. Il loro cavallo di battaglia risiede ancora una volta nella ricerca di prodotti semplici, naturali e biologici di alta qualità e raffinatezza.
Marchio ricco di storia e fascino, immagine nel mondo della gianduia e del torrone italiano, Pernigotti nelle mani della brand turca ha da un lato la possibilità di espandersi verso nuovi mercati e diffondere ancor più il suo gusto di successo, dall’altro lato ci si augura che continuerà ad essere garantita non solo la qualità dei prodotti ma anche la scelta delle materie prime e delle tecniche di produzione.
Il 18 luglio scorso è stato annunciato l’accordo che sancisce la concessione d’uso del Palazzo della Civiltà Italiana, per 15 anni, a Fendi, società che oggi fa capo al gruppo francese LVMH. A promuoverlo è stata EUR S.p.a., l’azienda pubblico-privata che rappresenta l’evoluzione di quello che era l’Ente EUR, fondato nel 1936 in qualità di Ente Autonomo per l’Esposizione Universale di Roma del 1942.
La storia ha poi voluto che quell’anno l’Italia, l’Europa e il mondo si trovassero a combattere la Seconda Guerra Mondiale. L’esposizione non si è mai tenuta e con lei le celebrazioni del ventennio fascista; ma l’EUR, il quartiere sorto a sud di Roma, deve molto ad entrambe.
Oggi ribattezzato quartiere Europa, è stato progettato negli anni Trenta in vista del grande evento, voluto da Benito Mussolini in persona, per celebrare i vent’anni della marcia su Roma. Da sempre ha voluto rappresentare l’espansione della Capitale verso il mare.
Costruito sul modello dell’urbanistica classica romana, reinterpretata secondo l’ideologia fascista e il Razionalismo Italiano, quello che viene oggi considerato il business district della città di Roma è costellato di edifici monumentali, massicci e squadrati, in marmo bianco e travertino, dal forte valore simbolico. L’EUR è un complesso architettonico ed urbanistico denso di significato, di storia, di cultura, pensato sin dagli esordi per essere più di semplice materia, per costituire viva testimonianza di una parte del nostro passato.
L’edificio che più di ogni altro simboleggia l’operazione condotta e il modello architettonico e culturale secondo cui questa è stata sviluppata è proprio il Palazzo della Civiltà, noto anche come Colosseo Quadrato per la presenza degli archi sulle sue quattro facciate. Progettato da Giovanni Guerrini, Ernesto Lapadula e Mario Romano è una struttura dal grande eco storico e politico, densa di simbologia e significati allegorici: dall’incisione che vuole raccontare l’italianità, alle statue narranti le virtù del popolo italiano, alla scelta del travertino che, oltre a ripristinare il legame con le tradizioni dell’Impero romano, voleva sottolineare i moti autarchici del regime, fiero di esibire la propria autosufficienza economica.
Dal punto di vista amministrativo il quartiere rappresenta, a tutti gli effetti, un’anomalia. A governare il patrimonio di palazzi, musei, strade e parchi naturali, lasciati in eredità dall’ente originariamente fondato per l’esposizione del 1942, è dal 2000 EUR S.p.a., una società controllata al 90% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e per il restante 10% dal Comune di Roma.
Tale soggetto è stato creato per gestire e valorizzare il patrimonio mobiliare e immobiliare di sua proprietà, ma negli ultimi anni si è rivelato particolarmente interessato alla sua messa a reddito, perseguita tanto con l’affitto di spazi ed intere strutture, quanto con attività inerenti lo sviluppo immobiliare, l’energia e i servizi in genere.
EUR S.p.a. rappresenta a tutti gli effetti la privatizzazione di una porzione di territorio, un soggetto giuridico fuori dagli schemi che, sfruttando la forza patrimoniale dei beni che dovrebbe gestire e valorizzare e la protezione politica ed istituzionale che deriva dalla sua natura ibrida, s’impegna in forti indebitamenti e porta avanti operazioni d’investimento secondo logiche d’interesse non sempre trasparenti.
Non estranea alle critiche, la società è stata di recente portata all’attenzione dei media per l’accusa di corruzione rivolta a Riccardo Mancini, ex AD, per le assunzioni e i favoritismi in pieno stile Parentopoli e per la magistrale bravura nell’innescare giochi di scatole cinesi fra società connesse e controllate.
L’ultima operazione controversa riguarda proprio il Colosseo Quadrato, il cui uso è stato dato in concessione a Fendi per 15 anni, alla cifra apparentemente esorbitante di 2.800.000 euro annui. La griffe vuole fare della struttura il proprio headquarter, adibendo il piano terra a contenitore per un’esposizione dedicata al Made in Italy e alla creatività italiana. La società ha dichiarato di aver scelto l’edificio per valorizzare il suo legame con l’italianità e la città di Roma.
Peccato però che dal 1999 il marchio sia stato sapientemente acquisito da Patrizio Bertelli e Bernard Arnault, quest’ultimo – particolarmente interessato ai brand del Made in Italy – è proprietario del colosso francese LVMH, che controlla circa una sessantina di marchi nei settori moda e lusso, e che nel 2012 ha registrato un fatturato di 28 miliardi di euro.
Le multinazionali straniere iniziano così a farsi strada verso la nostra più grande ricchezza, il patrimonio culturale, nella cui gestione continuiamo a mostrare debolezza e mancanza di prospettive. Non c’era un modo migliore di intervenire sul Palazzo della Civiltà Italiana se non quello di darlo in concessione ad un colosso internazionale della moda? Siamo sicuri che procedendo in questo modo EUR S.p.a. possa dire di perseguire l’obbiettivo per cui è stata creata, ovvero la gestione e la valorizzazione del patrimonio affidatole?
Non la pensa così Umberto Croppi, che sulla questione ha molto da dire. Direttore generale della Fondazione Valore Italiana, in un recente intervento su Repubblica ha chiamato in causa la legge 24 dicembre 2003 n. 350, con la quale è stata istituita l’Esposizione Permanente del Design Italiano e del Made in Italy, la cui gestione è stata affidata proprio alla Fondazione Valore Italia in seguito ad una convenzione sottoscritta in data 28.05.2009 dal Ministero dello Sviluppo Economico, dal Ministero dei Beni Culturali e da EUR S.p.a.
Ebbene sì, l’esposizione avrebbe dovuto avere sede proprio nel quartiere sud ovest della Capitale, all’interno del Colosseo Quadrato.
La struttura, infatti, più volte era stata destinataria di investimenti pubblici, sia da parte del Mibac, che spese 16 milioni di euro per interventi di consolidamento e restauro quando si pensava di farne il Museo dell’Audiovisivo, che da parte della società partecipata. L’obbiettivo era farne una struttura espositiva sicura e attrezzata per ospitare attività culturali, oltre alla Discoteca di Stato.
Nel luglio 2012 anche il governo tecnico ha intuito la necessità strategica di un’iniziativa per la promozione del Made in Italy, differendo di fatto al 2014 la decisione di sopprimere la Fondazione Valore Italia, avanzata nel decreto “spending review”.
Secondo Croppi l’operazione condotta da EUR S.p.a. è di una gravità assoluta per diverse motivazioni. Innanzitutto, la convenzione sottoscritta nel 2009 è da considerarsi, di fatto, ancora in vigore e, inoltre, l’intesa è stata sottoscritta quando nella società pubblica non era ancora stato nominato uno degli organi – l’amministratore delegato. In aggiunta a tutto ciò, se anche le autorità competenti dovessero autorizzare tale procedura, si dovrebbe comunque procedere con un’evidenza pubblica e, oltretutto, procedendo in questi termini, l’investimento di 16 milioni di euro effettuato dal Mibac in passato costituirebbe, di fatto, un’indebita elargizione di denaro pubblico a beneficio di un privato.
C’è ancora un aspetto, però, assai difficile da capire. Croppi parla di una valutazione effettuata in data 26 ottobre 2007 dall’Agenzia del Territorio su istanza dell’Eur Spa che, a fronte dei 2.800.000 euro anni chiesti a Fendi, attribuisce alla porzione del palazzo un valore locativo di 4.680.000 euro annui. Se questi dati sono corretti, perché mai il canone richiesto alla griffe dovrebbe essere più basso? Saremo mica innanzi alla svalutazione di una delle nostre più eloquenti testimonianze di civiltà a favore di una multinazionale straniera?
Quel che è certo è che ancora una volta il management italiano della cultura ha dimostrato di vivere dell’espediente e mancare di prospettive. Che sia semplicemente un limite delle figure preposte alla gestione e alla valorizzazione del patrimonio o piuttosto la spia di una vulnerabilità che ci rende particolarmente appetibili agli occhi dei colossi internazionali?
Intervista a Giuseppe Tamola, country manager di Zalando Italia
I dati relativi ai consumi non sono certo incoraggianti e tante aziende come la vostra, per reagire alla sfiducia degli acquirenti, hanno investito nella propria immagine e creatività con successo.
Che ruolo gioca la pubblicità e la comunicazione in tale frangente? Quali i messaggi che volete far giungere? Quali i mezzi e i payoff scelti per farlo?
Naturalmente un primo obiettivo è far conoscere la nostra realtà e, più nello specifico, il nostro servizio. Vogliamo che i consumatori comprendano come si articola la nostra offerta e il servizio attraverso cui la veicoliamo. Vogliamo comunicare che Zalando è il miglior approdo online dove trovare la moda su misura per le proprie esigenze.
È inoltre importante saper comunicare, in generale, i vantaggi dell’acquisto in rete, così come è essenziale fornire informazioni riguardo alla sicurezza della nostra piattaforma e offrire piena trasparenza sui processi.
Da un lato cerchiamo di esporre sempre in maniera chiara le caratteristiche del nostro servizio e i nostri USP: nessuna spesa di spedizione, reso gratuito, pagamento alla consegna senza costi aggiuntivi, assistenza clienti sempre disponibile e gratuita. Dall’altro utilizziamo un payoff – “Urla di piacere” – che sottolinea l’emozione dei nostri clienti nel momento in cui ricevono i propri ordini. Questi diversi elementi percorrono tutti gli ambiti della nostra comunicazione, dalla presenza onsite alle campagne televisive.
Quanto ai mezzi, Zalando si è distinta per il proprio marketing mix, dunque per l’utilizzo sinergico dei diversi canali di comunicazione online e offline. Questa sinergia è uno dei nostri punti di forza, in particolare poiché il mix è sempre declinato rispetto alle esigenze e caratteristiche dei singoli mercati. Questo ha significato, nel caso dell’Italia, il rafforzamento della componente offline: abbiamo trovato nuove vie per interagire efficacemente anche con gli utenti meno inclini a utilizzare la rete e i siti di acquisto online.
Estate: tempo di cambio di stagione e di rinnovo del guardaroba. Quali sono le misure anti-crisi che ZALANDO ha predisposto per andare incontro ai propri clienti e assicurargli un look nuovo e di tendenza?
La possibilità di reperire i nuovi trend è garantita dal nostro stesso modello di vendita: Zalando è uno shop in-season, il che significa che ci focalizziamo sulle nuove collezioni, le quali costituiscono la parte più importante del nostro assortimento. Questo implica un modello principalmente full-price, ma non mancano le promozioni, sempre disponibili in abbondanza sul nostro sito. Inoltre, l’offerta è ampia e trasversale: fermo restando che i prodotti devono sempre garantire determinati standard di qualità, la gamma è vasta e soddisfa ogni fascia di prezzo, partendo dai basic fino ad arrivare all’high-end fashion.
Accanto ai più importanti brand internazionali affianchiamo prodotti di nicchia, difficilmente reperibili in Italia e sicuramente fuori portata per chi non si trovi in una grande città. Al contempo curiamo molto la selezione di brand italiani e abbiamo dislocato il reparto acquisti per lo shop italiano a Milano, in modo che i nostri Buyer siano in grado di interagire più efficacemente con le label del nostro pa ese. Tutto ciò ci permette di offrire un assortimento selezionato senza paragoni all’interno della catena di retail tradizionale: per visionare una selezione analoga dovreste visitare indicativamente 300 negozi fisici.
ZALANDO ha esordito come negozio on line di calzature e successivamente si è aperto a nuovi prodotti legati all’abbigliamento e all’arredamento. Come avete presentato e spiegato questo ampliamento? E come è stato accolto?
Quando siamo sbarcati in Italia offrivamo già sia scarpe sia abbigliamento, ma in una prima fase abbiamo comunicato principalmente la nostra offerta di calzature. La linea di abbigliamento è stata più ampiamente comunicata a partire dal nostro secondo spot televisivo, “La Banca”, ma venne introdotta in Zalando nel febbraio 2010 (prima che Zalando.it fosse online) e da allora ha sempre registrato performance eccellenti. Parlando di Zalando in generale, oggi più del 50% delle vendite deriva da accessori, living, sport e abbigliamento – tutte categorie in forte crescita.
Quanto alla sezione “Casa”, è piuttosto recente per quanto riguarda il mercato italiano ma cresce velocemente, con ottime performance. L’ampiamento resta inquadrato nel segmento del lifestyle, che è quello in cui si muove Zalando, ed è stato accolto molto positivamente perché abbiamo prestato attenzione a selezionare le giuste marche e a offrire prodotti che potessero essere interessanti per i nostri clienti.
I clienti di ZALANDO come navigano? Prediligono la consultazione per brand o cercano i prodotti per categoria? Chi sale sul podio dei prodotti più amati?
Abbiamo utenti dai profili molto diversi, e dobbiamo tenere conto di entrambe le modalità di navigazione. Naturalmente vi sono alcune differenze: ad esempio la ricerca per brand è più costante nel corso dell’anno, mentre la navigazione per categorie è spesso vincolata alla stagionalità. Al contempo possiamo notare alcune differenze di genere: l’uomo tende a essere più affezionato a certi brand mentre la donna, parlando per linee general, è più incline a ricercare ispirazioni tra stili e colori.
Dato il grande numero di prodotti che offriamo è importante fornire la giusta assistenza a quei clienti che non sono in cerca di qualcosa di specifico: per questo abbiamo implementato una piattaforma particolarmente user-friendly e abbiamo iniettato all’interno dello shop le competenze fashion che sono presenti in azienda. Come? Con mezzi diversi: ad esempio, attraverso un magazine online che offre ispirazioni e overview sui diversi trend, così come per mezzo di un set di filtri intuitivo e che permette di accedere a selezioni di prodotti molto ben profilate.
Non è semplice estrarre una lista dei prodotti più amati ma possiamo dire con certezza che i clienti italiani amano i brand del nostro paese, sempre tra i top-performer del nostro catalogo.
Giocando con l’immaginazione, a quale personaggio della cultura consiglierebbe di rifarsi il guardaroba su ZALANDO? Con quale outfit?
Se si dovesse scegliere un personaggio del mondo della cultura, mi piacerebbe vedere un classico personaggio dei fumetti come Dylan Dog cimentarsi con l’acquisto online.
Sarebbe curioso capire come andrebbe a interagire con la tecnologia (da lui sempre rifiutata) e che effetti avrebbe sul suo guardaroba. Si lascerebbe consigliare dal nostro servizio clienti? Sarebbe disposto a vestire una t-shirt stampata e un paio di chino colorati? Lo abbiamo visto innamorarsi di bellissime donne, vediamo se con Zalando può scoccare la scintilla…
ZALANDO è attivo in molti Paesi europei, ciascuno caratterizzato da proprie tendenze. Se dico Gran Bretagna, cosa le viene in mente? E per Spagna, Francia e Germania, quali sono gli articoli “must have” del momento?
In Francia nel corso della prossima stagione vedremo un ritorno dello stile grunge, con un mix tra il look “no future” di Kurt Cobain e un tocco di lusso. In Gran Bretagna il grigio e i pattern geometrici. Per la Germania, per citarne alcuni, sicuramente le stampe naturali e le righe verticali, nonchè materiali trasparenti, pelle e pizzo. In Spagna per la stagione corrente vanno invece stampe floreali e look nautico.
Il settore dell’e-commerce sta trasformando il modo di fare shopping. ZALANDO come sta cambiando invece le modalità di acquisto on line? Quali novità avete in riserbo?
A fianco delle nostre competenze in ambito moda, possiamo vantare senza ombra di dubbio alcune delle più solide competenze in ogni ambito dell’ecommerce: logistica, marketing oppure tecnologia – basti pensare che abbiamo oltre 300 esperti IT costantemente al lavoro per ottimizzare la piattaforma e i processi sottesi. Sicuramente abbiamo fatto molto per unire questo spettro di competenze all’interno di un’unica formula, costruendo un servizio ottimale e centrato sulle esigenze dell’utenza.
Inoltre abbiamo concentrato i nostri sforzi nell’adattare il modello a ogni singolo mercato, creando una sinergia tra ecommerce e specificità del paese in cui operiamo. Ad esempio, oggi ci si accorge che molti utenti italiani preferiscono i pagamenti in contante: Zalando.it, nel maggio 2011, è stato il primo player a offrire in Italia il pagamento in contrassegno senza costi aggiuntivi a prescindere dall’importo. Allo stesso tempo abbiamo cercato di comunicare – attraverso canali non-tradizionali per un player online – i vantaggi dell’ecommerce. E possiamo dire con orgoglio di aver convinto molti utenti a effettuare il primo acquisto online proprio su Zalando.
Gli italiani sono ancora poco avvezzi all’ecommerce e sentono la necessità di toccare con mano i prodotti, ma nel momento in cui si rendono conto che un servizio è affidabile diventano molto fedeli. Questa è la ragione per cui abbiamo applicato un metodo ibrido per interagire con la clientela, ad esempio accettando anche ordini telefonici. Vogliamo essere upfront e non abbiamo problemi a esporre in homepage il nostro numero di telefono, invitando i clienti a contattarci per esporre problemi, critiche o semplicemente per ricevere assistenza.
Quanto alle novità, siamo consapevoli del ruolo che il mobile giocherà nel futuro e stiamo lavorando in questa direzione, così da esser sicuri che gli utenti abbiano a disposizione la migliore esperienza d’acquisto a prescindere dalla modalità con cui decidono di entrare in contatto con Zalando.
Global Chef è un prodotto e un servizio che consente di connettere le persone provenienti da diverse parti del mondo mentre cucinano, avvicinando le distanze attraverso la tecnologia degli ologrammi. Music Yue, che della “y” ha anche la forma, permette di disperdere o convertire in musica i fastidiosi rumori urbani. Ohita è un piccolo oggetto portatile e indossabile che purifica l’aria e ne consente il ricambio a casa, così come in città dove i livelli di inquinamento sono ben più elevati.
Ecco alcune delle migliori idee nate dalla creatività dei giovanissimi che hanno partecipato all’Electrolux Design Lab, il concorso che invita gli studenti di design di tutto il mondo a presentare concept innovativi per gli elettrodomestici del futuro.
La competizione, giunta quest’anno alla sua undicesima edizione, è organizzata da Electrolux, azienda leader nella produzione di elettrodomestici, che presta grande attenzione alla sostenibilità dei processi e dei prodotti.
Tuttora in corso, l’edizione 2013 ha visto 1700 designer proventi da 60 paesi nel mondo confrontarsi sul tema “Inspired Urban Living”, selezionato dall’azienda tenendo conto della crescente urbanizzazione e della conseguente riduzione degli spazi che caratterizzano la società attuale. Tre, in particolare, le aree d’interesse tra le quali scegliere: cucina social, aria naturale e pulizia facile e senza fatica.
Una volta scaduto il termine di applicazione, il 15 marzo scorso, i 100 partecipanti selezionati, accompagnati da una squadra di esperti, hanno lavorato all’ulteriore sviluppo del loro concept in vista del superamento delle successive fasi di sbarramento. Dai 20 finalisti, le cui creazioni possono essere visionate e votate dal pubblico sul blog di Electrolux Design Lab, emergerà una rosa di 8 candidati, tra i quali la giuria di esperti andrà a selezionare il vincitore. Al primo classificato saranno offerti uno stage retribuito di sei mesi presso uno dei Design Center di Electrolux e un premio di 5.000 Euro. Al secondo e terzo classificato andranno rispettivamente un premio di 3.000 e 2.000 Euro, mentre alla proposta che avrà ricevuto più voti on-line sarà assegnato un premio di 1.000 Euro.
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Dire ICS, in riferimento allo sport, fa pensare al pareggio qualsiasi appassionato di calcio.
Eppure non parleremo qui di pareggio (anzi, forse di una sconfitta) bensì di un acronimo, quello dell‘Istituto del Credito Sportivo, ultima banca pubblica italiana la cui funzione principale, come intuibile dal nome, è quella di erogare finanziamenti al settore sportivo, sostenendo interventi mirati alla costruzione, ampliamento, acquisto di strutture e attrezzature sportive o iniziative di promozione legate allo sport.
La Legge Finanziaria del 2004 ha disciplinato l’ampliamento della sua sfera di competenza anche ai Beni e alle Attività Culturali anche se, c’è da dirlo, le azioni intraprese in questo campo sono state finora limitate alla sponsorizzazione del Padiglione Italiano Expo Universale di Shanghai e a quella di DNA ITALIA, Salone delle Tecniche e Tecnologie per la Cultura.
Ma non è questa di certo la critica che recentemente è stata rivolta verso l’Istituto: il motivo per cui l’ICS è balzato agli onori (?) della cronaca è l’indagine della Corte dei Conti sulle anomalie riscontrate in fatto di ripartizioni degli utili.
Facciamo un passo indietro: l’istituto del Credito Sportivo è ad oggi finanziato sia da soggetti privati (soprattutto altre banche) sia (prevalentemente) dallo Stato attraverso i ricavi dei Concorsi Pronostici (le “nostre” scommesse).
Nel 2004, in occasione della modifica dello Statuto operato da Mibac e Mef, si è cercato di soddisfare la richiesta di maggior rappresentanza per gli enti locali ed è stato inoltre variato il sistema di ripartizione degli utili.
Il risultato di questa modifica è che lo Stato, a fronte di conferimenti di quasi 60 milioni di euro nel periodo 2005-2010, ha avuto indietro solo 2 milioni e 800 euro, mentre le altre banche si sono spartite più di 80 milioni di euro nonostante avessero versato decisamente meno del Pubblico.
Una anomalia che ha tutta l’aria di non essere una svista e notata solo a causa del commissariamento (partito nel 2011) da parte della Banca d’Italia, dalla quale sono partite una serie di segnalazioni a livello ministeriale.
A questa andrebbero poi accostate altre “stranezze” che vedono protagonista l’Istituto: come i prestiti e gli interessi a tassi particolarmente competitivi a comparti, come quello calcistico ad esempio, che di certo non sono tra coloro che necessitano di maggiori tutele assistenziali.
In tutto ciò, il fatto che per definire la situazione si faccia ricorso a termini quali “svista”, “anomalia” o a locuzioni come “si sono accorti” risulta quanto meno inquietante.
Mettere il sale nel caffè al posto dello zucchero è una svista, trovare quel caffè comunque di proprio gusto è una anomalia. Sorseggiarlo tranquillamente mentre magari si dirottano 80 milioni di euro, però, è sicuramente anti-sportivo.
Per approfondire:
http://www.mondoeconomia.com/la-corte-dei-conti-indaga-sull-ics
http://www.repubblica.it/economia/2013/07/02/news/indagine_della_corte_dei_conti_sull_istituto_di_credito_sportivo-62227573/
http://www.gioconews.it/cronache/70-generale20/36966-che-fine-han-fatto-i-proventi-dal-gioco-indagine-della-corte-dei-conti-sull-istituto-di-credito-sportivo
http://www.corriere.it/notizie-ultima-ora/Economia/Credito-Sportivo-governo-Monti-azzera-statuto-scontro-banche/22-04-2013/1-A_006063140.shtml
La presentazione annuale della relazione dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni al Parlamento e al Governo si ripropone anno dopo anno come un rito istituzionale, dal quale non si possono certo pretendere fuochi d’artificio e sensazionali rivelazioni.
Spesso, in queste occasioni diviene più rilevante l’aspetto coreografico che quello contenutistico. Storicamente la relazione è stata presentata nella prestigiosa Sala della Lupa della Camera dei Deputati, ma la prima sortita della consiliatura presieduta da un anno da Angelo Marcello Cardani è stata ospitata nella più accogliente Sala della Regina, che beneficia peraltro di un impianto di climatizzazione all’altezza del torrido luglio romano (le precedenti presentazioni della relazione erano divenute famose per il tasso di… sudorazione degli astanti, oltre che per i diffusi sbadigli).
Un antropologo osserverebbe come si tratti di un rito assolutamente… maschile. In barba alle “quote rosa”, si contavano in sala forse una decina di donne su circa duecento presenze, e peraltro si ricordi che tutti i componenti dell’Agcom sono senza dubbio maschi (Antonio Martusciello, Francesco Posterano nella Commissione Servizi e Prodotti; Antonio Preto e Maurizio Dècina nella Commissione Infrastrutture e Reti).
Curiosa presenza di molti “vice”: è intervenuta Marina Sereni, Vice Presidente della Camera (senza la grazia nemmeno di un cenno di giustificazione sull’assenza della Boldrini, che ha così involontariamente alimentato le polemiche su un qual certo suo assenteismo dai lavori parlamentari), il Vice Ministro per lo Sviluppo Economico Antonio Catricalà, il Vice Presidente della Corte Costituzionale Luigi Mazzella… Forse troppi “vice”, per l’economia simbolica di kermesse come questa. Come se Parlamento e Governo prendessero le distanze dai rispettivi ruoli, ed osservassero con distacco Agcom.
In effetti, Parlamento e Governo sono “decision maker” mentre l’Agcom dovrebbe essere un mero “regolatore”. Si tratta però di un regolatore che a fronte dell’assenza del legislatore, si vede costretto ad intervenire come supplente: il caso del regolamento sul diritto d’autore online è sintomatico, così come quello della regolazione del pluralismo elettorale e politico.
Ma anche la “materia” Rai è nelle competenze Agcom, anche soltanto per le linee-guida sull’ormai ridicolo “contratto di servizio” Rai (scaduto da sette mesi). In queste materie (ed altre ancora), il Paese è governato da norme vecchie ed obsolete, ma il Parlamento dormicchia.
La relazione di Cardani, snella (una ventina di pagine, meno di un’ora di lettura), si caratterizza per il tono pacato e molto diplomatico. È come se volesse attenuare la rappresentazione delle criticità del sistema mediale italiano, in primis il gravissimo ritardo nella diffusione della banda larga e nella diffusione della rete come strumento di conoscenza, partecipazione, commercio, imprenditorialità: il 37 % degli italiani non ha mai avuto accesso ad internet!
Si conferma la centralità dei contenuti audiovisivi nella “dieta mediatica”, che assorbono circa due ore delle giornate di ogni italiano, il 42 % dei totali 274 minuti dedicati alla comunicazione (qui omettiamo critiche sulla qualità della fonte).
Pochi e lievi cenni critici. Agcom certifica il calo degli investimenti pubblicitari: – 19 % per l’editoria, – 18 % per la tv, – 13 % l’esterna, – 7 % la radio…
Soltanto il web è in controtendenza, con un + 12 % (ed ha una fetta del 14 % della torta pubblicitaria totale). Basti osservare che editoria ha perso il 14 % del proprio fatturato in un anno soltanto, con un calo di 1 miliardo di euro nei ricavi. Nel 2012, i quotidiani hanno visto calare del 10 % la vendita di copie, e del 19 % i ricavi pubblicitari!
Nel business tv, Sky ha superato Mediaset nel totale dei ricavi, e Rai è terza.
Il business totale del settore delle comunicazioni sarebbe calato dai 65,8 miliardi del 2011 ai 61,5 miliardi del 2012.
Diverte notare come uno dei primi dispacci diramati dall’Ansa sintetizzava la debolezza della Rai nell’offerta su internet: il portale della Bbc è il 5° per utilizzazione (numero accessi) nel Regno Unito, prima di Yahoo, quello della Rai è al 28° posto in classifica. Questa è forse l’unica freccia amara, tra quelle lanciate dal delicato arciere Cardani.
Agcom conferma l’intenzione di emanare un regolamento in materia di diritto d’autore online (lo si attende da anni…), ma ribadisce che semmai il Parlamento decidesse di intervenire, si ritirerà in punta di piedi (anzi, si adeguerà). Tanto l’Autorità sa benissimo che il Parlamento, con l’attuale maggioranza “collosa”, non interverrà.
L’Autorità benedice lo scorporo della rete Telecom Italia (decisione definita addirittura “coraggiosa e innovativa”), ma non più di tanto, perché attende le ulteriori mosse del gruppo di Bernabè e vuole vedere le carte.
Nulla dice Agcom rispetto all’esigenza di stimolare la produzione di contenuti di qualità. Si limita ad un cenno rispetto alle esigenze di verificare eventuali posizioni dominanti all’interno dei singoli mercati del Sic (il duopolio Rai + Mediaset ha l’87 % dei ricavi nel settore della tv gratuita, Sky ha il 78 % nella tv pay…).
Nulla dice rispetto al rischio di dinamiche parassitarie da parte dei “nuovi aggregatori” (Google in primis).
Nulla dice in materia di emittenza radiotelevisiva locale (esiste ancora?!).
Nulla dice rispetto all’occupazione, alla forza-lavoro: come se l’economia del sistema non fosse basata anche sul lavoro, oltre che sul capitale (ci si perdoni la passatista citazione marxiana).
Nulla dice l’Agcom – in sostanza – sul problema centrale, che nemmeno identifica: l’evoluzione del sistema mediale italiano sta producendo continuo impoverimento strutturale e depauperizzazione delle risorse allocate sulla produzione di contenuto (calano gli investimenti, la disoccupazione cresce, il precariato impazza). Vale per l’editoria di qualità, per il cinema, per la musica, per la fiction, eccetera.
L’Autorità non identifica la patologia fondamentale del sistema. La pirateria è un problema importante, ma non il più grave. Cardani si limita a scrivere: “il ruolo della produzione di contenuti non viene meno” (!). Quella che sta… venendo meno, caro Presidente, è la “produzione” stessa di contenuti, non il suo ruolo.
Da segnalare che è intervenuto in sala, con il suo ormai noto look molto “casual”, Roberto Fico, il Presidente della Commissione Parlamentare di Vigilanza Rai (soprannominato, forse con eccessivo entusiasmo, “il mastino” da “Prima Comunicazione”), il cui pensiero crediamo di immaginare, mentre ascoltava le molto molto molto moderate parole di Cardani ed osservava i quattro altri silenti componenti del soviet Agcom schierati in bella mostra sul tavolo di presidenza.
Segnaliamo alcuni dettagli che riteniamo significativi. La relazione non si caratterizza per quella vena poetica e per quelle raffinate citazioni cui ci aveva abituato il past President Corrado Calabrò (ci sono però chicche come l’incipit: “per comprendere la dimensione di un fenomeno sarebbe necessario poter valutare il controfattuale della sua assenza”, sic), si evince che è stata elaborata sotto la guida di un economista e non di un giurista, e ciò è innovativo.
Molti sono i dati citati, ma, da ricercatori, ci preoccupa un po’ la pluralità di fonti utilizzate, con numeri che temiamo possano finire per smentirsi l’un l’altro, per difformità metodologica e contraddittorietà interna: in una nota a piè di pagina, i redattori utilizzano la simpatica formula “ex multis” (come dire, abbiamo colto qua e là), inadeguata per un documento che dovrebbe rappresentare la “summa” (anche scientifica, no?!) in materia.
E preoccupa anche che Cardani utilizzi il termine “consumatori” riferendosi al target finale dell’Autorità. In punta di piedi, ci permettiamo di ricordare al Presidente che l’Agcom ha delle funzioni molto più delicate della consorella Agcm (Garante della Concorrenza e del Mercato): dovrebbe vedere i propri “stakeholder” non nei “consumatori”, bensì nei fruitori, ovvero nei cittadini.Non si tratta di un distinguo semantico marginale.
E, rispetto a questi cittadini, Agcom dovrebbe anche pensare alle funzioni culturali del sistema dei media. Funzioni che sembrano essere completamente ignorate, nella relazione: la parola “cultura” è completamente assente dalla relazione di Cardani (ma anche la parola “emittenti locali”, come se… non esistessero più le radio e tv indipendenti: di grazia, sono deboli e marginalizzate, ma vanno ancora in onda!). In sostanza, viene ignorata completamente la intima relazione tra l’economico ed il semiotico. Ma l’Agcom non dovrebbe vigilare anche su questo?! Sul senso (di società) che l’attuale assetto del sistema mediale produce, che è poi il senso stesso (il più intimo) della democrazia! Sui valori (anche etici!), sulla Weltanschauung che i media stimolano.
Non debbono essere tenuti sott’occhio soltanto la concorrenza ed il pluralismo, ma anche la produzione di senso: la cultura, insomma. Tutto l’approccio della relazione è quantitativo, ma l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni non dovrebbe avere a cuore anche la “qualità”? Come dire?! Il mandato Agcom dura ben sette anni: Cardani e colleghi hanno di fronte qualche anno per un… ravvedimento operoso.
Attendiamo poi di leggere la Relazione vera e propria, ovvero il corposo tomo che, quest’anno, per la prima volta nella storia dell’Agcom, non è stato distribuito ai partecipanti, e non si sa nemmeno se verrà stampato su carta (effetti perversi della “spending review”: è vero che pochi lo leggevano, ma era comunque uno strumento utile).
È comunque disponibile sul sito dell’Autorità (464 pagine: aaargh! abbiamo controllato, anche qui il concetto di “cultura” non è presente, se non nel capitolo dedicato ad alcuni obblighi della Rai: da non crederci…), insieme ad alcune slide di sintesi dei dati (che estrapolano dal tomo un set di interessanti informazioni, ovviamente… tutte soltanto quantitative).
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Poniamo per assurdo che il principio di autoderminazione dei consumatori si estendesse a quel piano cartesiano dove la curva della domanda incontra la curva dell’offerta nel processo di definizione del prezzo di un bene e ne alterasse la natura.
Poniamo sempre per assurdo che tale nuova attitudine iniziasse a spaziare nella vastità dei settori merceologici attuali e lentamente diventasse una pratica comune e alternativa. Facciamo, infine, finta che questo fosse il risultato – forse un tempo utopico? – di un processo di democratizzazione delle regole di mercato classiche che porrebbe la posizione della domanda in una sorta di primato e, oserei dire, di dirigismo nella definizione del prezzo di un determinato bene.
Escludiamo ora il congiuntivo imperfetto, d’obbligo nelle frasi ipotetiche del terzo tipo, e poniamo tutto al presente indicativo, otteniamo affermazioni di realtà contingente: quanto detto in premessa ora è attualità e sempre più notiamo una crescente trasformazione del ruolo dei consumatori e quindi delle reazioni dei produttori e commercianti.
Urge testimoniare con degli esempi quanto affermato in premessa per capire che oggi la pratica del prezzo-fai-da-te non è un’assurdità ma una realtà sempre più sperimentata. Altri Paesi, vedi Spagna, Gran Bretagna, Portogallo, Olanda e Germania, la praticano da tempo e con grande riscontro di pubblico.
In Italia invece si è affacciata da un paio di anni con timidi esperimenti legati più a realtà imprenditoriali di quartiere. Mi riferisco per esempio a un ristorante a Massino Visconti, piccolo paesino sul Lago Maggiore in provincia di Novara, dove si arriva al ristorante, si ordina, si mangia e quando è il momento del conto è il cliente a decidere quanto corrispondere in base alla qualità del cibo e del servizio ricevuto. Oppure percorrere l’Italia fino a Sud, a Napoli, e aspettare l’ultimo mercoledì del mese quando, su prenotazione, è possibile rifarsi il look dai fratelli Luca e Vincenzo, proprietari di un salone di bellezza in una delle zone più chic ed esclusive di Napoli a Piazza Amedeo: taglio, piega, colore o colpi di sole insomma qualsiasi servizio reso e poi pagato ad un prezzo deciso dallo stesso cliente.
È auspicabile evidentemente che nel processo che porta un cliente a stabile il prezzo da corrispondere entrino in gioco, il buon senso e un altissimo senso di civiltà e rispetto del lavoro e della professionalità altrui e di chi ha rimesso il proprio lavoro, il proprio servizio e la propria credibilità nella buona fede del consumatore e nella sua fiducia.
Non solo servizi che si traducono in qualcosa di materiale ma anche la sfera dell’immateriale è stata toccata in questa innovativa pratica del prezzo-fai-da-te. Più propriamente mi riferisco alla sfera della cultura e del mercato editoriale.
La casa editrice Edizioni Progetto Cultura 2003 ha lanciato il progetto Filo della fiducia con la pubblicazione di “Antologia di Racconti” – volume I della collana Il Filo della Fiducia. Progetto a loro dire “rivoluzionario”. La rivoluzione consiste nel rimettere al libero arbitrio del lettore la decisione del prezzo e far sì, in questo modo, che il senso di responsabilità del lettore e la sua fiducia incentivino il difficile mercato editoriale premiando la meritocrazia e i 12 autori della Antologia di Racconti. Sul sito www.filodellafiducia.it vi sono le istruzioni per diventare i protagonisti di questa inedita esperienza di fruizione della cultura.
Gli esempi potrebbero continuare – vedi il mercato dell’energia del gas e della luce – ma è bene concludere affermando che la pratica del prezzo-fai-da-te riporta in auge l’antico senso di responsabilità del fruitore/consumatore e il suo sentimento di fiducia nei confronti di chi lavora per il pubblico, traducendo in concreto la risposta del commerciante o libero professionista “fate voi”, molto comune nel meridione d’Italia, alla domanda “quanto vi devo?”!
I dati di scenario sui consumi culturali in Italia sono ripetitivi e non sorprendono più. Ormai si possono ridurre a un banale dato di fatto e ad una amara considerazione conclusiva. Il dato di fatto è che se diminuiscono gli investimenti in cultura diminuiscono anche i consumi culturali (sic!).
La considerazione conclusiva è che proprio non sappiamo cosa farcene della cultura.
Due relazioni presentate di recente da osservatori autorevoli convergono decisamente nella direzione appena accennata. Si tratta dell’ottavo Rapporto Annuale di Federculture e della Relazione Annuale 2011 – 12 presentata dall’Osservatorio Culturale del Piemonte che rielabora dati Istat messi in relazione con alcuni indicatori sociali forniti dell’IRES Piemonte.
Lo scenario lascia attoniti e verrebbe voglia di passare ad altro, ma dal cumulo di macerie si odono alcune voci che sembrano dare indicazioni di una via d’uscita. “La cultura non può essere un isola!” afferma Luca Del Pozzolo direttore dell’Osservatorio piemontese che lancia un segnale alla politica e alle istituzioni, al mondo delle imprese e alla società nel suo complesso. E, dal versante Federculture, giunge un richiamo che indica negli investimenti in cultura “la scelta per salvare l’Italia”. Quasi un appello perché si capisca come sia impossibile uscire dalla crisi senza investimenti in cultura, in Italia ancor meno che in altri paesi.
Tutto sembra chiaro e giusto. Ma perché non lo facciamo? Perché non ce la facciamo?
“La cultura come isola” denuncia Del Pozzolo. E ci viene fatto di interpretare questa considerazione nell’accezione più drammatica di “cultura isolata”. Isolata e emarginata, come la parente povera e ingombrante di un’ottusa famiglia di saccenti e presuntuosi.
A che serve la cultura? Ci si è spesso domandati negli ultimi anni. Serve al turismo! Ha sentenziato qualcuno e per questo l’ha sottratta ai cittadini per offrirla a un turismo di massa che a mala pena distingue un parco giochi da un parco archeologico. E’ la storia patria! Ha affermato qualcun altro impedendo che la cultura uscisse dai musei e si confrontasse con la realtà quotidiana. E’ business! Ha decretato qualche manager mentre iniziava a ragionare sugli spazi culturali esattamente come farebbe un affittacamere.
Mancanza di idee ma soprattutto mancanza di familiarità con la cultura. In una parola: “estraneità”. Abbiamo aspettato la metà degli anni Settanta per dotarci di un Ministero per i Beni Culturali. Abbiamo subito repentini e radicali cambiamenti economici e sociali nell’arco di pochi decenni e non abbiamo dato spazio adeguato a chi questi cambiamenti li interpretava e cercava di leggerli.
Negli anni Sessanta una città come Roma era al centro dell’attività artistica internazionale con gallerie come la Tartaruga, l’Attico e la Scaletta. Negli stessi anni Milano si animava grazie alle iniziative di Azimuth. Poi qualcosa si è rotto e quel periodo è rimasto l’ultimo significativo momento di contatto con la società e la sua cultura in movimento. E’ come se avessimo subito la modernità senza metabolizzarla e, in anni recenti, attraversato la contemporaneità nuotando in apnea. Oggi stiamo emergendo e ci accorgiamo che rischiamo la deriva.
Del Pozzolo invoca opportunamente “nuove sinergie” e “incontri sempre più strutturali tra il mondo della cultura e quello delle imprese innovative”. Ma dobbiamo sapere che si parte da un livello basso.
La Pubblica Amministrazione e il mondo della politica hanno avuto le loro colpe, ma l’impresa privata non è riuscita a far meglio. Un bagno di umiltà da parte di tutti è assolutamente necessario, confortati dal fatto che il 58% dei cittadini ritiene molto importante il ruolo delle istituzioni culturali, è favorevole al sostegno pubblico alla cultura e auspica un aumento dell’offerta culturale.
Ma non basta. La crisi impone di allargare lo sguardo verso ipotesi sociali ed economiche diverse da quelle che hanno fallito negli ultimi decenni. Forse questa prospettiva permette di rimescolare le carte e iniziare una nuova partita.
Si sente tanto parlare in questi giorni dell’arrivo dell’uso degli hashtag su Facebook, ma in quanti sanno realmente di cosa stiamo parlando? Molti utenti, soprattutto internauti del mondo di Facebook, si domandando cosa può giovare nell’utilizzo di questo strumento, il cancelletto #.
Ma cerchiamo di capire meglio. Cosa è l’Hashtag ? Identificato con il simbolo del cancelletto (hash) # viene utilizzato nel web per indicizzare parole, argomenti, temi di discussione e possono generare allo stesso modo attività di marketing. La parola diventa cliccabile e conduce al risultato di una ricerca su Twitter di quel termine.
Ad esempio se scrivo un tweet “ La #Turchia è in una situazione politica molto pericolosa”, offro ai miei followers la possibilità di andare a indagare su quello che succede in Turchia cliccando direttamente dalla parola chiave e, facilmente, si può leggere tutto ciò che si sta dicendo su quell’argomento su Twitter in pochissimi secondi. I tre fondatori di Twitter, Jack Dorsey, Evan Williams e Biz Stone, hanno definito il social network come “ a real-time information network that connects you to the latest information about what you find interesting ”, un modello di informazione efficace perché in tempo reale e le news che interessano sono facilmente raggiungibili e seguibili.
Se Twitter, nato nel 2006, ha la sua essenza nei tweet definiti come piccoli crepitii di informazione lanciati agli altri utenti come messaggi in una bottiglia e dove il ruolo principale lo gioca la community dove sono gli internauti che devono aprire quel messaggio, interagire, re-tweettare e commentare.
Ma su Facebook, che ruolo hanno gli hashtag?
Facebook è il social network. Primo nelle classifiche mondiali, ha spopolato rapidamente negli anni e come dimenticare lo slogan di apertura del social al momento dell’iscrizione “per restare in contatto con le persone della tua vita”, un mondo virtuale nel quale l’interazione degli utenti è la sua natura e ne ha contraddistinto i tratti trasferendo comportamenti sociali nel mondo virtuale. Per le sue caratteristiche è diventato il social network più ambito dai brand mass market e non solo, da chiunque voglia farsi conoscere: non sei su Facebook? Allora non interessi.
Il social ha ideato le pagine per far si che le aziende che vogliono raggiungere il proprio target e la massima interattività, lo possono fare nel massimo rispetto della privacy dei propri utenti. Dopo questa breve panoramica sarà più semplice comprendere l’adozione dell’# su Facebook e come prima analisi si rivela che il vantaggio maggiore nell’utilizzo di questo strumento è sicuramente per le aziende o per i brand che possono sfruttare il sistema di ricerca per migliorare le performance di Facebook ADS (il sistema di “inserzioni” che permette ad aziende e professionisti di promuovere prodotti e servizi) e poter incrementare gli introiti. La comunicazione attraverso gli hashtag permetterà di migliorare l’online reputation, engagement, online contest, event live.
Per ogni hashtag ricercato si viene a creare una nuova pagina a tutti gli effetti che include e racchiude in essa tutto ciò che è condiviso dagli utenti. Ad esempio cliccando sulla parola #mare, si apre una pagina dedicata solo a questo argomento per cui è semplice il monitoraggio da parte sia dei singoli utenti, ma anche dei brand. L’altra faccia della medaglia è che si può dimostrare uno strumento di rischio per la fuoriuscita di commenti negativi. La facoltà di potersi connettere con una parola chiave ad altri utenti e pagine porterà sicuramente alla creazione del solito campo di “ricerca” o “ interessi” per ricercare un dato tema.
Sarà più semplice coinvolgere gli utenti in attività mirate e sarà più semplice l’integrazione con gli altri social da Instagram a Google Plus e poter seguire eventi in real-time. Sta di fatto che ogni singolo utente potrà visualizzare con un determinato hashtag solo i messaggi, nell’elenco dei post, pubblicati da amici o contenuti in modalità pubblica, quindi visibili a tutti. La privacy degli utenti in questo modo non sarà intaccata, anche se si allontana dai fini reali del tool #. Esattamente come su Twitter si avrà presto la possibilità di seguire gli hashtag più utilizzati, la possibilità di acquistare hashtag sponsorizzati e seguire trend più rilevanti degli utenti che si seguono, ma il limite rispetto a Twitter è evidente nel sistema di privacy che Facebook non ha intenzione di alterare. Ai fini dell’utilizzo del cancelletto per l’interazione fra gli utenti ne ha ben poco, ma è invece più fruibile sicuramente per i brand.
Facebook “connette” gli utenti ai propri interessi. Lo fa favorendo le iscrizioni alle pagine ufficiali, le espressioni di gradimento, la personalizzazione dei profili. Sempre più gente su Facebook (o utilizzando i Plug In esterni) stabilisce una connessione tra sé e un certo numero di “like”. Ciò ci permette di intercettare questa gente sia tramite Facebook ADS sia per mezzo delle altre strategie. Inoltre se si riflette sul fatto che la modalità di vendita delle inserzioni su Facebook è il costo per impression, fa si che si l’uso dell’hashtag si trasforma in link che si ricollega alla pagina Facebook e incrementando sicuramente il numero della pagine presenti sulla piattaforma, quindi impression. Il guadagno per Facebook è evidente. La domanda è: siete ancora sicuri di voler continuare ad usare gli # al di fuori di Twitter?