varmaVijay Varma è il giovane interprete di Monsoon Shootout, film d’azione indiano diretto da Amir Kumar e proiettato all’ultimo Festival di Cannes. Abbiamo incontrato Vijay nel suo albergo fiorentino in occasione del River to River – Florence Indian Film Festival, durante il quale ha presentato il film e ha parlato della sua esperienza sul grande schermo. Simpatico, disponibile e affascinante, ci ha subito conquistato.

 

Quest’anno Bollywood è stata special guest a Cannes, dove è stato proiettato Monsoon Shootout. Com’è stata la sua esperienza al Festival francese?
È stato il primo festival della mia vita. La ricorderò come una giornata speciale. Un protocollo prevede che gli ospiti abbiano il trattamento migliore. Quando sono arrivato, appena sceso dall’aereo, ho pensato di essere ad una festa della moda o su una passerella. Poi, in realtà, mi sono trovato in una sala piena di gente, a mezzanotte (ora di proiezione del film), che voleva vedere il film. Questo mi ha fatto riflettere e mi ha dato maggiore sicurezza in me stesso e mi sono sentito molto fortunato di aver iniziato la mia carriera con il festival di Cannes.

So che ha fatto teatro, come è approdato al cinema? Ha lasciato il teatro?
Sono nato e cresciuto a Hyderabad, nel sud dell’India, dove c’è una grande industria cinematografica, soprattutto in lingua locale, telugu, ed è stato lì che ho iniziato a fare teatro. Presso una compagnia, Sutradhar (tr. il narratore o voce fuori campo), ho frequentato alcuni workshop e ho iniziato a recitare. In realtà io volevo fare cinema, ma non per questo ho abbandonato il teatro: l’ultima opera a cui ho partecipato risale a un anno fa. Né ho intenzione di lasciare il teatro, perché mi fa crescere.

Come è cambiata la sua vita con il successo? Cosa ha aggiunto o tolto?
La prima cosa, e la più più importante, che il successo ha portato nella mia vita è stata la riappacificazione con mio padre, in quanto per fare l’attore sono scappato di casa. Il mio rapporto con mio padre era piuttosto freddo, non accettava la mia vocazione, non ha mai stimato il lavoro dell’attore e non amava molto il cinema. Avrebbe voluto farmi lavorare nell’azienda di famiglia. Quando però ha visto il mio film e come ha reagito il pubblico allora è cambiata la sua posizione: ha capito che mi stavo impegnando seriamente e quindi ci siamo riappacificati. L’aspetto negativo del successo è la perdita di orientamento, per compensare pratico reiki e meditazione.

Che rapporto ha avuto con Bedabrata Pain, il regista del pluripremiato Chittagong, in cui lei ha recitato? Come è stato lavorare con lui e con Amit Kumar?varma2
I due registi hanno personalità molto diverse ma li accomuna una forte integrità nel loro modo di lavorare, credere nei valori fondamentali, il calore con cui accolgono chi lavora con loro. Bedo (diminutivo di Bedabrata Pain) è un perfezionista, ti fa ripetere una scena 30/40 volte, lasciandoti anche il tempo di sbagliare, finché non sono contenti sia lui che l’attore. Entrambi non ti dicono cosa fare esattamente sulla scena, ti pongono delle domande, sta a te trovare la risposta, lasciandoti esprimere. Bedo è una persona estroversa, ti fa capire subito cosa gli piace oppure no, Amit è sintetico e ti domandi: “ho fatto bene?”.

A quale personaggio si sente più vicino: Adi di Monsoon Shootout o Jhunku Roy (adulto) di Chittagong?
Entrambi i personaggi mi hanno aiutato a capire alcune mie caratteristiche. Jhunku Roy diventa, da testimone, un seguace, un leader della rivolta contro gli inglesi, un ruolo che mi ha appassionato. E’ stato un debutto ideale, un ruolo non da protagonista nel film ma che mi dava la responsabilità di concludere il percorso del personaggio principale. Il ruolo di Adi è incentrato sul come è possibile rimanere se stessi.

C’è qualcosa del cinema italiano che ha apprezzato o che è stata per lei una fonte di ispirazione?
Mi ha colpito il Nuovo cinema Paradiso, il Postino, Ladri di biciclette e Gomorra, Mi piace Monica Bellucci, è molto bella (sorrisi).

Preferisce la partecipazione degli spettatori indiani a quella compassata degli occidentali?
Preferisco l’attenzione al film del pubblico occidentale, non mi piace la gente che ride, scherza o mangia qualcosa al cinema.

Il prossimo film o progetto?
Un film di Bollywood, interpreto una rockstar, canto e ballo, è un ruolo molto divertente.

 

 

TAFTER è mediapartner di River to River – Florence Indian Film Festival

Programma masala (misto-speziato) a River to river: conversazioni, lungometraggi, documentari, cortometraggi e una retrospettiva su Shabana Azmi, famosa attrice e attivista indiana. Il pubblico della rassegna di cinema indiano, al cinema Odeon di Firenze, aumenta ogni anno, dimostrando interesse per il subcontinente indiano e per la varietà delle proposte offerte dalla direttrice Selvaggia Velo. Interessanti le ‘conversazioni’ sulla cultura indiana e orientalismo che avvicinano le sponde culturali e che ci auguriamo aumentino nelle future programmazioni.

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I corti indiani continuano a stupire per la loro originalità ed efficacia. Shaya di Amir Noorani, regista pakistano che ha studiato cinema negli Stati Uniti, è diretto come un pugno allo stomaco: una famiglia di rifugiati pakistani scappa dalla guerra ma non dalla paura che li attende a Los Angeles.

Il regista pakistano-canadese, Arshad Khan, riesce con Doggoned, dark e surreale, a trattare con felice ironia le difficoltà di una giovane ragazza immigrata alla ricerca di un lavoro.

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Tra i 5 film in concorso The Coffin Maker (il fabbricante di bare) di Veena Bakshi, è piacevole e soprattutto ben interpretato da Naseeruddin Shah, Ratna Pathak Shah e Randeep Hooda. Il falegname gioca con la morte la sua partita a scacchi, una vera e propria istituzione in India, rendendo inevitabile il riferimento all’illustre precedente di Bergman, il Settimo Sigillo, e a un classico del cinema indiano, The Chess Players di Satyaijt Ray.

Il film d’azione Monsoon Shootout di Amit Kumar parte in accelerazione con inquadrature mozzafiato per poi rallentare in uno sventagliamento di conseguenze che le ipotetiche scelte di un poliziotto possono avere sulla vita degli altri, di cui a volte si perde lo sviluppo. L’interpretazione di Vijay Varma nel ruolo del poliziotto è convincente.

Ottima la scelta di presentare Lessons in Forgetting di Unni Vijayan, ispirato all’omonimo libro di Anita Nair, in occasione della ‘Giornata internazionale contro la violenza sulle donne’. L’indipendenza di una donna occidentale soccombe tra i pregiudizi, la violenza e le debolezze di una società diversa. Nella stessa giornata è stato proiettato il documentario Scattered Windows Connected Doors, ritratto di otto donne indiane contemporanee, che concorre con l’incredibile vicenda raccontata in A man who planted the jungle, in cui un uomo, in Assam, addolorato dalla desertificazione e dalla morte dei serpenti, decide di piantare una vera e propria giungla su un’isola al centro del fiume Brahmaputra.

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Deepa Mehta con il suo Fire ‘accende’ l’attenzione sulla realtà della famiglia patriarcale in India e sull’omosessualità femminile, vissuta nel film come fuga, amicizia e solidarietà tra due cognate.

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Grande attesa per i premi e appuntamento a Roma, venerdì 29 novembre, alle 12 per la conversazione sulle ‘Donne e cinema dell’India contemporanea’ al Dipartimento Istituto italiano di Studi Orientali dell’Università La Sapienza, e fino al primo dicembre al Nuovo cinema Aquila, per vedere il film, il cortometraggio e il documentario vincitori della manifestazione.

 

 

TAFTER è mediapartner di River to River – Florence Indian Film Festival

lessons-in-forgetting-poster-picsPer la giornata contro la violenza nei confronti delle donne River to river ha previsto una programmazione speciale, tra cui la proiezione del film Lessons in Forgetting, tratto dal romanzo della famosa scrittrice Anita Nair. Si tratta di una pellicola sui problemi più scottanti dell’India: il feticidio femminile, la violenza sulle donne e la discriminazione di genere. Questa è l’intervista al regista del film Unni Vijayan.

La storia che viene raccontata sul grande schermo vede protagonista un padre single alla ricerca delle cause per cui la giovane figlia è stata coinvolta da un grave incidente. Ad aiutarlo a ricostruire quanto accaduto c’è una madre, Meera, abbandonata dal marito.

Lei ha lavorato, precedentemente, al montaggio di documentari e la vicenda del film è rappresentata come fosse la ricostruzione di una storia vera. Il dato riportato alla fine del film è purtroppo reale: dal 1994 in India 10 milioni di donne non sono nate perché abortite. La storia è inventata?
Il film non è basato su una storia vera, ma sono fatti che possono accadere. Nel film è descritta sia la realtà urbana che quella rurale e in entrambe esiste la società patriarcale. Il patriarcato è un fenomeno presente in molte società e in alcune è molto radicato. In India c’è una nuova legge contro la violenza sulle donne ma, finché non cambia la mentalità, questa non sarà mai sufficiente ad eliminare gli abusi contro il genere femminile. Esiste un rito in alcune zone dell’India legato all’eliminazione delle figlie femmine. Ora è proibito abortire quando si conosce il sesso del nascituro (n.d.r. per chi non vuole figlie femmine è sufficiente fare un’ecografia per conoscere in anticipo il sesso e abortire, per questo è stato proibito ai medici di non dare risposte in tal senso ma, come si vede anche nel film di Vijayan, alcuni medici si lasciano corrompere per soldi e informano i genitori). Nel caso di famiglie benestanti i genitori cercano di concepire figli maschi attraverso la selezione di cromosomi, ma la pratica è molto costosa e soltanto poche persone possono permetterselo. Il fatto di avere un figlio maschio è ancora l’ambizione di molte persone.

Che tipo di rapporto c’è stato con Anita Nair, autrice del romanzo e sceneggiatrice del film?
Il rapporto è stato ottimo, ha accettato di lavorare con noi nonostante non fossimo famosi, mentre lei era già una nota scrittrice. Il film è diverso dal libro, dove la storia è incentrata su Meera. Invece il film si è concentrato sul personaggio maschile del padre della ragazza. Quando abbiamo iniziato a lavorare siamo entrati molto in empatia con questo personaggio perché io ho una figlia di 18 anni e anche il produttore è padre di una figlia femmina. Ecco perché il film è orientato più sulla figura paterna e anche noi come padri di due figlie femmine siamo confusi, ci interroghiamo: ‘abbiamo fatto bene a educarle in questo modo?’. Molti mi hanno chiesto soluzioni, risposte, ma non ho certezze. Infatti il film pone domande, non offre risposte.

Si è trattato di un investimento coraggioso, è stato difficile trovare un produttore?
No, perché lui ci credeva, era convinto e voleva fare il film.

Il film è presentato questa sera a River to river in anteprima europea, come è stato accolto in India?
E’ uscito nelle sale in India ad aprile. La referente per le Nazioni Unite per l’India e il Buthan ha supportato molto il film, ha organizzato incontri e conferenze anche in contesti accademici.

Il film ha vinto il premio come miglior film indiano in lingua inglese al 60° National Film Awards, l’Oscar del cinema indiano, ma oltre l’inglese si sente anche un’altra lingua, rispecchiando in tal modo il multilinguismo del subcontinente. Perché questa scelta?
I giovani in India parlano lingue diverse, nelle città si parla inglese mentre nell’India rurale si parlano le lingue delle diverse regioni.

I comportamenti liberi o anticonformisti di Meera sono sempre puniti da sensi di colpa. Perché?
Perché le persone sono deboli e lei è una persona debole. Nel film non ci sono personaggi ideali, ma reali, con le loro debolezze. In fondo siamo un po’ tutti così. I personaggi non sono dei vincenti, sono dei perdenti.

Sono le stesse donne a non combattere, anche la testimone, ha visto tutto, ma non ha difeso Smriti, non è intervenuta. Come mai?
Lei infatti è impaurita, si nasconde. Non volevamo rappresentare, come di solito accade in altri film indiani, il personaggio che, alla fine, trova la soluzione, risolve o vince. Nel libro è il medico il mandante della violenza: se nel film avessimo identificato un colpevole allora il padre si sarebbe scagliato contro di lui per vendicare la figlia. Non volevamo rappresentare la vendetta.

I suoi progetti futuri, il prossimo film?
Sto lavorando ad un film insieme allo stesso produttore, siamo una squadra affiatata e lavoriamo bene insieme.
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TAFTER è mediapartner di River to River – Florence Indian Film Festival

valerioapreaÈ possibile far apprezzare ai bambini (e anche ai grandi) Mozart, Schubert, Rossini, la musica classica e il teatro? L’autore Ennio Speranza e il regista Stefano Cioffi hanno pensato ad uno spettacolo i cui protagonisti saranno proprio la musica, il flauto, la magia e i bambini. Te lo suono io il flauto si terrà l’1 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La storia di uno degli strumenti più dolci, affascinanti e democratici, il flauto, sarà accompagnata dalla musica dal vivo di duecento flautisti.

La voce narrante di questa suggestiva esibizione sarà quella di Valerio Aprea, giovane e brillante attore di teatro, cinema, televisione, che ha recitato in ruoli drammatici, profondi, leggeri e comici, con artisti e registi d’eccezione. Per l’occasione gli abbiamo chiesto cosa ne pensa della musica, del teatro, dei bambini e dei sogni.

 

Sei la voce di Te lo suono io il flauto, in un reading fantastico sulla storia di questo strumento. Come si mescoleranno, in questo caso, il tuo talento comico, la performance teatrale, la musica e la necessità di coinvolgere i bambini e catturare la loro attenzione?

In realtà non abbiamo ancora stabilito definitivamente ciò che accadrà sul palco nei minimi dettagli. So per il momento che presterò la voce ad un excursus sul flauto e la sua storia, e questo in alternanza con la musica ma anche mescolato ad essa, il tutto cercando anche un modo di interagire con i giovani spettatori, che immagino saranno affascinati dall’insieme di parole e suoni.
Sarà quindi uno spettacolo non tanto di comicità, ma di evocazione e, spero, forte suggestione.

 

Te lo suono io il flauto è uno spettacolo per tutti, ma con un occhio di riguardo particolare per i bambini. Hai lavorato altre volte a stretto contatto con i più piccoli? Com’è collaborare con loro e recitare per loro?

No, veramente non ho mai recitato davanti a loro. Al limite mi è capitato, in un paio di occasioni, di recitare insieme a loro e, come sempre in questi casi, di rimanere impressionato dalla naturale capacità di recitare molto meglio di me.

 

Il flauto è uno strumento particolare, democratico, che, per motivi scolastici, un po’ tutti abbiamo avuto l’opportunità di suonare. Partecipando a questo spettacolo ti sei appassionato anche tu allo strumento? E in generale che ruolo ha la musica nella tua vita?

A dire il vero mi sono appassionato allo strumento molto prima di questo spettacolo, più o meno all’età di 9 anni, quando, come tutti credo, lo studiavo a scuola nell’ora di musica (ma è esattamente, tra l’altro, quello che dirò nello spettacolo). Quanto alla musica in generale, bè, ha un ruolo direi congenito forse perché appartenendo ad una famiglia di musicisti classici ne ho conservato l’inclinazione, pur non avendo proseguito studi musicali, comunque approcciati da adolescente. Credo che se non avessi fatto l’attore, avrei fatto il musicista.

 

Pensi che alcune forme artistiche, considerate di solito elitarie, come la musica classica e il teatro in generale, dovrebbero essere comunicate in modi diversi ai pubblici giovani? Come potrebbero essere attratti nuovi spettatori e ascoltatori?

Temo di sì. Quando fui portato con la scuola al cinema o a teatro a vedere qualcosa, che per fortuna non ricordo più, diciamo ecco che non fu esattamente una folgorazione. E infatti non lo ricordo più. Mentre dovrebbe essere il contrario. È una questione enorme e di difficilissima risoluzione. Diciamo che si dovrebbe essere bravi a selezionare accuratamente ciò che si vuole proporre a dei giovanissimi, pensando davvero che possano essere gli unici colpi a disposizione per andare a segno nella loro sensibilità, nella loro immaginazione e capacità di ricezione. Sprecati quei colpi, si avrà probabilmente una forma di rigetto. Inutile dire che il discorso vale esattamente anche per il pubblico adulto.

 

In Te lo suono io il flauto si parla anche tanto di magia, di storie, di sogni. E tu da bambino eri un sognatore? Cosa pensavi che saresti diventato “da grande”? E cosa consigli ai sognatori di oggi che vorrebbero intraprendere una carriera come la tua?

Diciamo subito che non rientro nella categoria di quelli che sin da piccoli sognavano di fare l’attore ecc. Non ho mai saputo cosa volessi fare, e anche quando ho iniziato a studiare recitazione ci sono voluti anni e anni perché mi decidessi ad ammettere di fare l’attore. Quello che posso suggerire a questi ‘sognatori’ è di capire più in fretta possibile se hanno davvero le qualità per essere quello che vorrebbero essere e poi di quale tipo siano queste qualità. Perché si può poi essere attori o attrici in vari modi. Tutto sta ad individuare qual è quello più congeniale a se stessi.

 

TAFTER è mediapartner dell’evento. Scarica qui la riduzione riservata ai nostri lettori!

L’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma si chiude con la vittoria di Tir del regista Alberto Fasulo. Ancora un premio a una storia on the road dopo il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia a Sacro GRA di Gianfranco Rosi.

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Un premio assegnato senza il consenso unanime della giuria e con discussioni accese, “d’altronde – dichiara il presidente di giuria, James Gray, – trovo ridicolo pensare che i premi si possano dare all’unanimità. Se un film piace a tutti, è probabile che non sia interessante”. Tir è un documentario sulla solitudine di un camionista in giro per l’Europa. Il protagonista Branko (Branko Zavrsan), è un ex professore croato, colto e triste, che decide di guidare un camion. La storia si svolge quasi tutta nella cabina del Tir che porta Branko a percorrere le strade del vecchio continente. Lavora per mantenere la famiglia lontana. I rumori della strada, dei motori e degli sportelli che si aprono e chiudono, scandiscono le sue giornate spezzate dalle telefonate con la moglie e dalle poche parole con il collega Maki (Marijan Sestak). Un lavoro crudo e duro, in cui l’unica compagnia è quella della propria anima, dove si seguono orari precisi di riposo (un’ora ogni quattro ore e mezzo), il tutto controllato da una scatola nera che, per aumentare i guadagni, si cerca di raggirare in ogni modo.

 

Tir, dichiara Fasulo, è un modo per “raccontare questa solitudine, esplorare i limiti di resistenza di una persona che ha compiuto una scelta lavorativa più o meno consapevole e adesso ne paga le conseguenze, vivendola fino in fondo”. Il film “è volutamente al confine tra documentario e finzione. Volevo fare un film sulla realtà che vivevo. Ma Tir è anche un film su un paradosso: quello di un lavoro che ti porta a vivere lontano dalle persone care per cui, in fondo, stai lavorando. Il processo di scrittura è durato quattro anni, mentre il metodo è stato solo quello di chiuderci in cabina io e Branko e in quattro mesi fare più di 30.000 chilometri facendo una specie di x sull’Europa”.

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“Tir è un film che mi ha cambiato la vita, in cui mi sono preso i miei rischi. A fine film – conclude Fasulo – non riuscivo più a dormire negli spazi aperti e preferivo tornare nella cabina. Ora invece troverei insopportabile dormirci». Il premio per la miglior interpretazione maschile va, invece, all’intensa prova di Matthew McConaughey per “Dallas Buyers Club”, di Jean-Marc Vallèe, un film ispirato alla vera drammatica storia di Ron, malato di Aids negli anni ’80, che scopre di poter vivere grazie a medicine alternative che trova in Messico. L’attore ha inviato durante la cerimonia di premiazione un messaggio in cui dice: “Ho ammirato molto Ron per la sua voglia di vivere. Possa vivere ancora a lungo il suo spirito che ci ha insegnato tanto”.

Il premio per la migliore interpretazione femminile se lo aggiudica Scarlett Johansson per il delizioso “Her” di Spike Jonze, storia di un uomo solo e infelice (Joaquin Phoenix) che si innamora della voce (Scarlett Johansson) del sistema operativo del suo computer. L’attrice non compare mai durante tutto il film e, per la prima volta, viene premiata una voce. Una performance assolutamente sorprendente e riuscita.

Infine, il premio per la migliore regia è andato al giapponese Kiyoshi Kurosawa per “Seventh Codè” primo film d’azione della durata di soli 60 minuti. Un’edizione di successo quella di quest’anno contrassegnata da ottimi numeri, segno che la cultura e l’amore per il cinema non finiscono mai nonostante il momento economicamente difficile, proclamati orgogliosamente dal direttore Muller: 20% in più di biglietti emessi, oltre 5.500 accreditati (di cui il 20% in più di studenti) ed oltre 150mila presenze stimate in 10 giorni. Un Festival che ritorna a essere una festa per la città di Roma e una speranza concreta di riempire la sale di pubblico.

I premi assegnati all’ottava edizione del Festival internazionale del film di Roma:
– Marc’Aurelio d’Oro per il miglior film: Tir di Alberto Fasulo.
– Premio per la migliore regia: Kiyoshi Kurosawa per Sebunsu kodo (Seventh Code).
– Premio Speciale della Giuria: Quod Erat Demonstrandum di Andrei Gruzsniczk.
– Premio per la migliore interpretazione maschile: Matthew McConaughey per Dallas Buyers Club.
– Premio per la migliore interpretazione femminile: Scarlett Johansson per Her.
– Premio a un giovane attore o attrice emergente: tutto il cast di Gass (Acrid).
– Premio per il migliore contributo tecnico: Koichi Takahashi per Sebunsu kodo (Seventh Code).
– Premio per la migliore sceneggiatura: Tayfun Pirselimolu per Ben o deilim (I Am Not Him).
– Menzione speciale: Cui Jian per Lanse gutou (Blue Sky Bones).

corpiestraneiApplausi in sala dopo la proiezione in anteprima stampa del primo film italiano in concorso: “I corpi estranei” dello sceneggiatore e regista milanese Mirko Locatelli con Filippo Timi e Jaouher Brahim e la colonna sonora dei Baustelle. Il regista arriva al Festival di Roma per presentare dopo, il primo giorno d’inverno, il suo secondo lungometraggio.

La storia è quella di Antonio (Filippo Timi), padre di un bambino con un tumore al cervello che dall’Umbria arriva a Milano, da solo, per cercare di guarire il piccolo. In ospedale la sua vita si intreccia con quella Jaber, quindici anni, scappato dal Nord Africa e dagli scontri della Primavera Araba. Jaber assiste il suo amico Youssef anche lui gravemente malato.

Due anime sole che si intrecciano, per puro caso, due corpi estranei che entrano in contatto per condividere una situazione straziante. Dopo l’iniziale diffidenza e fastidio, Antonio, un uomo umbro, semplice e pieno di preconcetti nei confronti della cultura araba, fa amicizia con Jaber e instaura un dialogo. I due si muovono in un mondo fatto di corsie di ospedali e di bancali di mercati notturni dove Pietro lavora per guadagnare due soldi e di immigrati solidali, in attesa di quel cambiamento che riporti equilibrio nelle loro esistenze. Questa conoscenza darà ad Antonio la forza e la volontà di assistere il figlio malato e di accettare che il dolore e la preghiera sono uguali in tutti i posti del mondo.

“Siamo partiti da un’immagine” – racconta Locatelli in conferenza stampa -. “Mia moglie (Giuditta Tarantelli che è anche la sceneggiatrice e co-produttrice del film) mi ha sottoposto un uomo solo con in braccio un bambino in un reparto di oncologia pediatrica. Intorno a questa immagine abbiamo creato una storia, puntando sulla fragilità dell’adulto che è anche più forte di quella del bambino. Insomma, volevamo parlare della solitudine del papà in un film non sul dolore ma appunto sulla fragilità. Così la malattia diventa solo un pretesto”.

Il regista pone l’attenzione anche sulla dignità dei protagonisti e non solo: “Antonio è un eroe silenzioso, lontano dalla famiglia per proteggere suo figlio; Jaber, poco più che un ragazzino, si muove quasi sempre nel buio, come fosse a guardia del corpo, ancora vivo, del suo amico Youssef; e quella di tutti gli uomini e le donne che lottano per la sopravvivenza, propria o dei propri cari, nella corsia dell’ospedale come tra i bancali di un mercato notturno”.

Riguardo il suo personaggio Filippo Timi dichiara: “Antonio è uno gretto, un umbro incapace di aprirsi al mondo, ma che, grazie a questa trasferta a Milano, deve confrontarsi con delle cose che lui non conosceva” e racconta anche una sua personale vicenda: “da bambino ho avuto anche io un’esperienza d’ospedale – spiega Filippo Timi -. A sei anni mi portarono infatti a Pisa perché zoppicavo e mi regalarono la prima scatolina di Lego. Poi ho scoperto, a trenta anni di distanza, che pensavano avessi un tumore alle ossa. Comunque – aggiunge – questo è il film più documentaristico che ho fatto e, devo dire, anche per questo non mi sono mai preoccupato di recitare. Ho cercato di essere solo naturale, me stesso”.

Un film dove il regista riesce a raccontare il contatto tra diversità e culture lontane, inizialmente, carico di odio e razzismo, poi evolve in accettazione e compassione.

 

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“Hometown – Mutonia” è il documentario realizzato dal collettivo ZimmerFrei, che indaga la realtà della comunità-villaggio costituita negli anni ’90 da gruppi di creativi cyber-punk, nei pressi di Santarcangelo di Romagna. L’opera viene presentata al Festival Internazionale del Film di Roma e proiettata al MAXXI.
La produzione fa parte di un progetto più ampio denominato “Temporary Cities” e si è avvalso del sostegno del Santarcangelo Festival.
Abbiamo voluto saperne di più interpellando direttamente Anna de Manincor e Massimo Carozzi, tra i componenti di ZimmerFrei, per comprendere meglio quanto da loro documentato.

 

Il documentario Mutonia rientra nel progetto più ampio “Temporary Cities” del vostro collettivo ZimmerFrei. Di cosa si tratta? Quali sono le sue peculiarità?
“Temporary Cities” è una serie di documentari in cui ci dedichiamo a un’area molto piccola di una grande città: una strada di Bruxelles (LKN Confidential), una collinetta che ricopre un centro sportivo in mezzo ai condomini a Copenhagen (The Hill), il quartiere ex-rom di Budapest (Temporay 8th), un bar del quartiere del mercato e del porto a Marsiglia (La beauté c’est ta tête). Sono ritratti molto parziali di territori complessi, in cui le trasformazioni urbanistiche, gli investimenti immobiliari e l’ingegneria sociale che accompagna i progetti di “city branding” stanno cambiando la vita quotidiana e stanno progressivamente rendendo le capitali europee molto simili tra di loro. Non giravamo in Italia dal 2008 (Memoria Esterna, dedicato a Milano) e, dopo il Kunstenfestivaldesarts e il circuito di festival di arte pubblica InSitu, è stato di nuovo un festival di teatro a produrre un nostro film.

 

Mutonia, a differenza delle altre realtà documentate nel progetto, si trova in un piccolo borgo di provincia, Santarcangelo di Romagna per l’appunto. Quali le differenze riscontrate rispetto alle altre comunità presenti invece in grandi agglomerati urbani? Come hanno accolto il vostro progetto i mutoid?
Hometown ha avuto una gestazione lunga, proprio per questa differenza con le altre città. Abbiamo considerato Mutonia un distretto, un quartiere di campagna del paese di Santarcangelo. Non siamo certo i primi a girare un video al Campo, i suoi abitanti sono abituati a veder spuntare operatori e reporter nei momenti più impensati, ma dopo i primi giorni, dato che non accennavamo ad andarcene, il nostro rapporto è cambiato progressivamente. Siamo passati dalla circospezione alla discussione sull’intero progetto, dalle interviste solo audio alle riprese “senza costrutto” in cui ognuno è intento a fare quello che fa senza occuparsi più di dove si trova la camera. Tutto “è campo”. E’ un processo lungo, accidentato e sempre diverso in ogni situazione. Non vogliamo ottenere la “trasparenza”, sarebbe una menzogna, e anche la “realtà” è irriproducibile, si tratta di vivere insieme mentre il film si va facendo e cambia il suo corso con quello che succede al momento.

 

Mutonia nasce in seguito ad un invito lanciato dal Festival di Santarcangelo alla Mutoid Waste Company, che per eseguire le sue performance ha allestito il campo, poi divenuto permanente, richiamando seguaci di questo stile di vita da tante parti del mondo. Che impatto ha avuto la loro presenza sugli abitanti di Santarcangelo? Come si è sviluppato il rapporto tra queste due comunità?
Quando i Mutoid sono arrivati nel 1990 erano dei marziani, traveller cyber-punk provenienti da Londra, Berlino, Barcellona, mescolati alle più diverse compagnie di artisti e teatranti che invadono Santarcangelo ogni estate. Ma in Romagna non si rimane marziani a lungo, è una terra che ama pensarsi popolata da personaggi singolari, i romagnoli non si stupiscono di nulla e la zona tra Gambettola e Santarcangelo è la mecca dei rottamai e customizzatori di motori e carrozzerie fin dal dopoguerra. Al bar del circolo in cui si gioca a bocce e a briscola ci hanno detto: “I Mutoid? Ma son dei patacca!”

 

Al momento l’amministrazione locale di Santarcangelo sta valutando lo smantellamento di Mutonia, decretando in qualche modo il destino di questo particolare villaggio. Quali conseguenze prevedete ne deriveranno per i mutoid? E quali per i santarcangiolesi?
L’ingiunzione di sgombero è arrivata questa primavera, appena dopo la caduta della giunta, come conseguenza della causa intentata da un vicino di campo per “abuso edilizio” e vinta dopo 10 anni di iter legale. Il fatto è che i Mutoid non hanno edificato nulla, ma le loro case mobili, truck, container, pullmann trasformati in laboratori di scultura e meccanica, sono tutti mobili e smontabili, ma non tutti possono essere regolarmente immatricolati. Come ad esempio una casa sull’albero, una doccia all’aperto, un capanno per gli attrezzi, la casetta del cane, delle galline, dei giochi dei bambini… Se il Campo fosse smantellato i suoi abitanti dovrebbero migrare nuovamente sulle rotte dei traveller con le loro case-guscio come seconda pelle, perdendo amici e lavoro (oltre che artisti o musicisti gli abitanti di Mutonia sono anche tecnici specializzati, editor, macchinisti teatrali e scenografi e scultrici come Lupan, KK e SU_e_side realizzano laboratori sul riciclo nelle scuole, installazioni e performance) e scomparirebbe una delle originalità per cui questo piccolo paese è conosciuta anche all’estero: le piadine, il festival di teatro, Tonino Guerra e i Mutoid!
Ma Santarcangelo perderebbe soprattutto dei propri cittadini a tutti gli effetti, il campo è un insediamento temporaneo ma anche un luogo di origine, homeland, una piccola hometown da cui partire e tornare. I figli e i nipoti dei primi arrivati adesso frequentano le scuole locali dalle materne alle superiori. Gli abitanti del campo hanno avuto molte conferme del sostegno degli abitanti del paese e della rete internazionale a cui sono collegati e gli amministratori locali prevedono di poter indire una conferenza di servizi che riunisca Comune, Provincia, Regione e Sovrintendenza ai beni architettonici e paesaggistici e scrivere una norma che dia spazio all’eccezionalità di un’esperienza che fa parte del patrimonio culturale e della storia contemporanea di quel territorio.

 

Con quale spirito presentate il vostro lavoro in un parterre importante e ampio come quello del Festival Internazionale del Film di Roma?
Siamo curiosi di vedere gli altri film presentati insieme al nostro e contiamo sul fatto che il pubblico del cinema contemporaneo, appassionato ed esigente, abbia già da tempo superato le categorie e le “sperimentazioni” che i grandi festival scoprono e premiano in questo periodo.

 

herNel futuro prossimo, in The Zero Theorem di Terry Gilliam la tecnologia intrappola una game-society disumanizzata, in Her, scritto e diretto da Spike Jonze, la tecnologia è invece friendly e così rassicurante da farci innamorare. Il protagonista del film di Jonze, ricorda molto quello di “I love you” (1986), del profetico Marco Ferreri: era un uomo realizzato e di successo, ma annoiato e demotivato, e a cambiargli la vita è la voce femminile e sensuale di un portachiavi.

In “Her”, la paura del confronto, delle emozioni, dell’amore che cambia negli anni e che può lasciare soli, induce Theodore (il bravissimo Joaquin Phoenix) a rifugiarsi nelle anonime chat per soddisfare pulsioni immediate, ma rimane insoddisfatto poiché non risolve il suo desiderio di condivisione.

E’ lo stesso Spike Jonze, nell’incontro di lunedì all’Auditorium, dove la pellicola è stata presentata nel corso del Festival Internazionale del Film di Roma, a dichiarare: “Credo che questo bisogno di intimità sia un bisogno di sempre… Il film aveva bisogno di intimità: quando abbiamo preso Scarlett cercavamo di catturare questo senso di intimità”. Così Theodore, il cui lavoro è scrivere lettere con grafia manuale per una clientela che non ha più tempo di farlo, a poco a poco riesce ad instaurare un rapporto sempre più intimo con una voce femminile senza corpo (Scarlett Johansson). Questa è Samantha, ovvero il suo nuovo sistema operativo avanzato, che riesce a elaborare quotidianamente emozioni e conversazioni con l’utente, organizzando così la sua vita, ma soprattutto prendendone parte.

In un mondo occidentale confortevole, supportato dalla migliore tecnologia, che consente più tempo libero per le relazioni, in realtà migliaia di persone vivono ogni giorno pigiate l’una con l’altra, ma sempre più sole: si limitano infatti a dialogare con uno smartphone o con un pc. Diventa facile per il protagonista, dopo un matrimonio fallito, innamorarsi di Samantha, superando così le difficoltà relazionali di un confronto con l’altro all’interno di un rapporto profondo e duraturo. Samantha è l’oggetto ideale di amore, quello classico di sempre, che coincide con una nostra proiezione. Funziona così bene da rendere superflua la corporeità.

Se agli amici sembra naturale che lui condivida le sue giornate e la sua vita sociale con Samantha, l’ex moglie mette invece a nudo la sua incapacità di relazione, di confronto con le esigenze e richieste reali di una donna-compagna. Lo stesso Jonze ha affermato: “Uno degli aspetti più impegnativi in una relazione è la capacità di essere autenticamente sinceri, di mettersi a nudo e di permettere alla persona amata di essere se stessa”. Alla domanda sulla provenienza di Samantha, Jonze ha risposto: “E’ anche lei nuova nel mondo. E’ nuova come un bambino. Ha un’intelligenza e rapidità di pensiero, ma ancora non ha paura e impara la paura.”

L’attesissima attrice presente sul red carpet capitolino, non compare mai nel film e rimane la curiosità di conoscere la voce italiana che sostituirà, nel doppiaggio, quella carezzevole e seduttiva di Scarlett, vera coprotagonista in “Her”.
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manettibrosSong’e Napule, l’ultima e divertente fatica dei fratelli Manetti, è presentato fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma con un cast tutto italiano: Giampaolo Morelli, Alessandro Roja, Serena Rossi, Paolo Sassanelli, Carlo Buccirosso e Peppe Servillo. I due (Manetti) Bro. sorprendono con una commedia poliziesca ambientata a Napoli. Una storia festosa e noir dove Giampaolo Morelli, l’ex Ispettore Coliandro, interpreta il cantante neomelodico Lollo Love e canta dal vivo le musiche originali scritte da Pivio e Aldo De Scalzi e arrangiate dagli Avion Travel. I due registi Marco e Antonio Manetti debuttano con la regia di video musicali e approdano al cinema con alcune pellicole tra cui Piano 17, il thriller L’Arrivo di Wang e poi l’horror Paura 3D. Con Song’e Napule raccontano il fenomeno napoletano dei cantanti neo melodici, famosi nella loro città ma sconosciuti a livello nazionale. Senza presunzione girano una storia dalla linea comica e romantica, con un taglio che ricorda chi, per primo, ha raccontato la vera Napoli e cioè i registi Nanni Loy ed Ettore Scola.

Paco (Alessandro Roja), un pianista disoccupato, entra da raccomandato in polizia e viene chiamato dal Commissario Cammarota (Paolo Sassanelli) per una missione speciale. Deve infiltrarsi nel gruppo musicale di Lollo Love (Giampaolo Morelli) che suonerà al matrimonio della figlia (Serena Rossi) di un boss della camorra.

 

Intervista a Marco Manetti e Giampaolo Morelli

 

Il film Song’e Napule è stato fortemente voluto dal produttore Luciano Martino recentemente scomparso. Potete raccontarci come nasce l’idea del film?

Marco Manetti: “Nella nostra vita è entrato Luciano Martino, un bambino di 80 anni che ha insistito e ci ha martellato continuamente dicendoci: questo è il film che dovete fare. L’idea è di Giampaolo Morelli ma la sceneggiatura è stata scritta da Michelangelo La Neve con la nostra collaborazione. Siamo orgogliosi di aver girato il suo ultimo film; è più suo che nostro. Amiamo il cinema e ci vengono in mente delle storie. Da fuori sembriamo dei registi che fanno un percorso, un tragitto che vuole toccare diversi generi un po’ alla Soderbergh ma, in realtà, siamo aperti a tutto e pronti a fare qualsiasi film che ci piace.”

Giampaolo Morelli: “Mi piace il genere e poi vengo da un quartiere di Napoli che si chiama Arenella, tra il centro storico e il Vomero, e ho amici di tutte le classi sociali. Mi ha sempre incuriosito l’idea di mettere un napoletano borghese all’interno di un tessuto sociale completamente diverso, quello più popolare e dei cantanti neo-melodici che da Napoli in giù sono conosciutissimi. Un genere fatto anche di video clip assurdi, pieni di cuore, sentimento e arte. In realtà sono cantanti e musicisti molti talentuosi. Volevo raccontare la Napoli dei matrimoni infiniti che sembrano più dei sequestri di persona e volevo realizzare un altro sogno: portare i fratelli Manetti a Napoli. Solo loro potevano raccontare la Napoli come la vedevo io. Ogni angolo e vicolo di Napoli è un set. Loro potevano calarsi nel tessuto sociale e raccontarla così bene, da dentro.

 

Il film tratta il rapporto cantanti e camorra e alla loro presunta affiliazione. Immaginate che potranno esserci delle polemiche?

Marco Manetti: “Il film non vuole essere un’etichetta, ma una dichiarazione d’amore per Napoli e per la cultura popolare. La camorra è una realtà di Napoli così come il crimine è una realtà di tutte le città del mondo con nomi diversi. Il fatto è che i cantanti neo-melodici, per tradizione, vanno a cantare nelle feste di chi si può permettere di pagarli. Spesso, soprattutto in città difficili come Napoli, chi può permetterselo è legato al crimine e questo, nell’immaginario italiano, ha trasformato i cantanti in criminali. Questo è un falso mito, totalmente da sfatare. Sono dei cantanti che cantano nella loro realtà che è fatta anche di quello”.

Giampaolo Morelli: “Un altro motivo per cui volevo fare questo film è per sfatare il luogo comune dei cantanti legati e associati, necessariamente, alla Camorra. Ci sono tanti artisti bravi che vivono della loro arte e ci mettono tutta la passione e il sentimento possibile. Il problema è che può capitare che vadano ad esibirsi a dei matrimoni di persone affiliate con la camorra. A Napoli, fortunatamente, ci sono artisti onesti”.

 

Per quanto riguarda invece il connubio musica trash e genere neomelodico?

Marco Manetti: “E’ vero che ci sono due luoghi comuni sulla musica neo-melodica: l’affiliamento alla camorra e il trash che c’è, ma è una parte. Esiste, soprattutto, una musica napoletana di spessore molto alto con musicisti talentuosi. Spero proprio che il nostro film porti fuori e riveli un Sud che non è legato a nessuna di queste etichette, ma composto da gente che sa fare bella musica”.

Giampaolo Morelli: “Nel genere neomelodico ci sono professionisti seri, talentuosi e qualcuno che sì, è anche un po’ trash, ma comunque non si deve generalizzare”.

 

comeilvento“Come il vento” di Marco Simon Puccioni, presentato fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, è ispirato alla vita straordinaria di Armida Miserere, la prima donna a dirigere un carcere. Valeria Golino la interpreta con sguardo vivo e intenso. Nel cast anche Filippo Timi, Francesco Scianna e Chiara Caselli.
Specializzata in criminologia, Armida diventa direttrice, dalla metà degli anni ottanta (nel momento peggiore della storia italiana, quello della lotta alla mafia e al terrorismo) di alcuni dei più importanti carceri italiani l’Ucciardone a Palermo, Lodi, San Vittore a Milano fino ad essere mandata, in prima linea, a Pianosa, nel supercarcere riaperto per sorvegliare i mafiosi. Nonostante riceva critiche e intimidazioni, non demorde e non cede di un passo. Una vita dedicata al lavoro, con un forte senso dello Stato, incorruttibile e soprannominata “fimmina bestia” dai detenuti dell’Ucciardone, “magra o sovrappeso, comunque tesa e nervosa. Armida è intelligente, ironica, amichevole e scherzosa, ma anche inflessibile, moralista, giustizialista”, così la descrive Valeria Golino. Armida cerca di conservare la sua sensibilità e fragilità mentre applica la legge portandosi dietro una tragedia personale. L’uccisione del compagno, l’educatore del carcere Umberto Mormile interpretato da Filippo Timi. Muore suicida a soli 46 anni. Il film uscirà nelle sale italiane il 28 novembre.

 

Come ti sei avvicinata a questo personaggio e cosa conoscevi della storia di Armida?
Non conoscevo Armida prima che Marco, il regista, me ne parlasse. L’ho scoperta attraverso il suo punto di vista. Armida è una persona così complessa e contradditoria e, per quanto possiamo raccontarla, ci saranno sempre delle zone d’ombra e dei lati del suo carattere che non conosceremo mai. E’ stata una delle prime direttrici di carcere di massima sicurezza. E’ una donna che ha avuto una vita tragica, molto determinata e severa con se stessa, appassionata del suo lavoro. Ho imparato chi fosse attraverso documenti, lettere e diari, fotografie e, poi, l’ho conosciuta personalmente a Sulmona, circa un anno prima che morisse. La Dott.ssa Miserere aveva organizzato, con altri collaboratori, un piccolo festival di cinema per i detenuti e io ero stata invitata con il regista Crialese per presentare “Respiro”. E’ stato molto commovente far vedere il film in quel luogo e lei mi ha salutata, accolta e accompagnata in quella visita e abbiamo fatto una foto insieme. Era molto cortese ma anche austera, dura. Quando, successivamente, ho rivisto quella foto, ciò che mi ha più stupita e commossa è il mio abbraccio sulle sue spalle. Un gesto di protezione verso di lei che è girata e mi guarda con una tale vulnerabilità.

 

La tua prova nel film dimostra un forte coinvolgimento. Ti sei sentita particolarmente ispirata?
E’ chiaro che un attore non può sentirsi sempre particolarmente ispirato e avere la possibilità di interpretare un grande personaggio così contraddittorio e complesso. La differenza è nel modo in cui il regista guarda il suo attore e la sua attrice, dove sta mentre tu fai quella cosa o non la fai, come ti monterà, che luce hai sul viso. L’interpretazione di un attore al cinema dipende da se stesso e moltissimo da tutti gli altri. Un bel ruolo e un regista che sa guardarti sono le occasioni, per noi interpreti, di sembrare più bravi e di fare onore ad un personaggio.

 

Perché all’inizio non volevi interpretare il personaggio di Armida?
Perché avrei dovuto penare e in qualche modo dare l’anima. Non era un ruolo in cui potevo passare e fare bella figura così, ma dovevo esserci. Quando mi è stato chiesto stavo preparando il mio primo film da regista, un’esperienza completamente nuova per me, difficile e misteriosa. Pensavo alla fatica e alla battaglia che avremmo dovuto affrontare per riuscire a girare una storia così difficile, in Italia, che non fosse solo puro intrattenimento, terminarla e distribuirla. Avevo paura di finire nel dimenticatoio. Poi però il desiderio del regista, quel desiderio su di te, mi ha messo voglia di farlo e quindi eccoci qua.

 

Cosa pensi della situazione delle carceri in Italia e quello che sta scatenando?
Vanno presi dei provvedimento al più presto. È chiaro che un paese civile, che ha rispetto di se stesso, non può non preoccuparsi del sistema carcerario che è un luogo e non un’astrazione ai margini della società. È la nostra vita non è qualcosa di lontano, è la nostra coscienza. Ne va della nostra dignità. È un argomento che ci riguarda troppo da vicino per non prendere dei provvedimenti. Bisogna muoversi per fare delle leggi giuste, non di marginalizzazione, ma di comprensione.

 

Costa stai facendo ora?
Ora sto girando un film con Gabriele Salvatores che si chiama “Il ragazzo invisibile” e mi sto molto divertendo. E’ un film fantasy, inedito in Italia, e poi ho fatto una piccola parte nell’ultimo film di Paolo Virzì che si chiama “Il capitale umano” e credo che inizierò a girare ad aprile “Il nome del figlio” di Francesca Archibugi.

 

 

 

old film projector with dramatic lightingQualche decennio di esperienza professionale (consulenziale e giornalistica) ci consentono di “leggere” alcune dinamiche con sereno distacco, e forse con un discreto “valore aggiunto” critico, anche rispetto al “dietro le quinte”: come è noto, il 5 novembre scorso, si è tenuta presso il Centro Sperimentale di Cinematografia la “Conferenza Nazionale del Cinema”, fortemente voluta dal ministro Massimo Bray e dal direttore generale Nicola Borrelli (ne abbiamo già scritto con scetticismo su queste colonne); come annunciato, il 9 novembre, i risultati di quella giornata di lavoro sarebbero stati presentati al Ministro, durante un evento ad hoc del Festival del Cinema di Roma.

Da giornalisti, abbiamo atteso che il 9 novembre l’ufficio stampa del Ministero diramasse un comunicato. Il che curiosamente non è avvenuto, anche se l’ufficio stampa del Mibact è ormai discretamente famoso nell’ambiente giornalistico perché inonda le redazioni di comunicati sulle più variegate questioni riguardanti la ricca agenda del Ministro. Abbiamo osservato, con relativo stupore, domenica mattina, che la rassegna stampa dell’iniziativa è stata ridicola (articoletti soltanto su “Avvenire” e “Il Tempo” e “il Messaggero”), ma d’altronde non brilla oggettivamente per intelligenza (mediologica e politica) organizzare un incontro istituzionale durante un festival, dato che i riflettori giornalistici sono ovviamente concentrati sui film, sulle polemiche cinefile, e sulla scollatura dell’attricetta di turno. Peraltro, chi redige queste noterelle è schierato con coloro (non pochi) che ritengono errata “ab origine” l’idea di un festival romano nato con l’ambizione (presto fallita) di competere con quella che dovrebbe essere l’unica iniziativa festivaliera nazionale di respiro realmente internazionale (il Festival di Venezia), ma… questo è un altro discorso.

Quel che stupisce, e che qui vogliamo segnalare, è che non nella giornata di sabato, ma l’indomani, domenica mattina (forse resisi conto alcuni dei promotori della modestissima rassegna stampa?!), viene diramato un lunghissimo comunicato stampa sulla giornata conclusiva della Conferenza Nazionale del Cinema. Dal Mibact? No, dall’Anica (vedi la riproduzione del testo in calce: interessante esempio di velina da “captatio benevolantie”, con tono che trasuda piaggeria nei confronti delle istituzioni). Ovvero dalla maggiore associazione dei produttori cinematografici italiani, che pure tutti non li rappresenta, e che comunque incarna una soltanto delle anime del cinema (quella mercantile). Si tratta di stessa Anica che tanta parte ha avuto nella strutturazione della “Conferenza Nazionale del Cinema”, se è vero che due dei tre “tavoli di lavoro” del 5 novembre hanno visto come “rapporteur” rispettivamente una qualificata dirigente dell’associazione ed un qualificato consulente dell’Anica stessa. E ricordiamo che, qualche mese fa, furono Mibact ed Anica assieme a presentare un dossier pomposamente denominato “Tutti i numeri del cinema italiano”, che proponeva in verità un set di dati parziale, se non partigiano.

Da cittadini, prima che da ricercatori e giornalisti, ci domandiamo cosa succederebbe se il Ministero della Salute appaltasse ricerche e convegni – e finanche una… “Conferenza Nazionale della Salute” – all’associazione dei proprietari di ospedali privati: qualcuno – saggiamente – obietterebbe almeno sull’opportunità, e forse su una qualche contraddizione interna del rapporto tra “pubblico” e “privato”, e finanche su qualche rischio di conflitto di interessi (anche se viviamo in un Paese nel quale, in materia, sembra tutti o quasi digeriscano anche i sassi).

In Anica, ci sono sicuramente intelligenze interne di alta qualificazione (tra le migliori del Paese, riteniamo), ma forse le strategie cognitive e politiche del Ministero dovrebbero avvalersi anche di intelligenze più plurali, data l’estrema delicatezza della politica culturale in un Paese come l’Italia, e data anche la qualità del suo estremo policentrismo.

E non dimentichiamo che presso il Mibact esiste (sulla carta, ormai) un Osservatorio dello Spettacolo (istituito dalla cosiddetta “legge madre” del 1985, che creò il famigerato Fondo Unico per lo Spettacolo alias Fus), struttura che è stata via via depotenziata (e definanziata) nel corso degli anni, “subappaltando” a soggetti come la confindustriale Anica e la ecclesiale Fondazione Ente dello Spettacolo (per molte centinaia di migliaia di euro l’anno) segmenti di quello che dovrebbe essere un “sistema informativo” centrale del Ministero, e soprattutto l’analisi critica del settore e delle sue potenziali strategie di sviluppo.

Attendiamo di leggere i lavori ed i risultati della Conferenza Nazionale del Cinema, non appena il Ministero li renderà pubblici (il che, ad oggi, non è). Ci auguriamo di non dover andare a cercare gli atti della Conferenza sul sito web dell’Anica…

Per ora, dalla rassegna stampa (e da quel che ci ha raccontato qualcuno dei partecipanti alla kermesse), emerge un gran bel concetto, non riusciamo a comprendere (un nostro limite, certamente) quanto innovativo e rivoluzionario: il Ministro Bray ha sostenuto che l’intervento pubblico dello Stato a favore della cinematografia deve passare da uno stadio soltanto “dativo” ad uno stadio “interattivo”. Potenza degli slogan!

Post scriptum.

Ecco il comunicato stampa diramato dal Mibact a fine mattinata di sabato 9 novembre:

Il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Massimo Bray, sarà lunedì 11 novembre in Sicilia, a Racalmuto, per la presentazione del progetto “La strada degli scrittori”. Un itinerario turistico – culturale legato a tre grandi autori siciliani: Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Dopo la presentazione il Ministro percorrerà con un breve tour i luoghi amati dagli scrittori: a partire da Racalmuto per arrivare a Porto Empedocle attraverso la Valle dei Templi di Agrigento, visitando le case natali, le statue, i teatri, paesaggi amati dai maestri della narrativa.

 

Ecco il testo del comunicato stampa diramato dall’Anica nella prima mattinata di domenica 10 novembre 2013:

 

Conferenza nazionale del cinema.
Bray: il comparto che si unisce crea positività e insieme si possono superare gli ostacoli
Tozzi: Bray sia il referente istituzionale della nuova Governance

Si è tenuta il 9 novembre presso il Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica la seconda fase della Conferenza nazionale del Cinema convocata dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Massimo Bray. Nel corso dell’incontro pubblico sono state esposte le relazioni di sintesi dei tre tavoli di discussione che avevano caratterizzato la prima fase della Conferenza nazionale. Organizzati presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, i tre tavoli avevano analizzato temi di rilevanza per il settore quali il mercato nazionale, i modelli di distribuzione e le politiche pubbliche.

Condotta dal Direttore Generale per il Cinema Nicola Borrelli, in un clima di positiva collaborazione tra gli esponenti della politica e quelli della filiera cinematografica presenti, la conferenza ha fornito un quadro lucido della situazione attuale analizzando le criticità che attanagliano il settore e prospettando delle soluzioni ai problemi, da realizzare sotto l’egida di una nuova Governance di settore, ben definita, che tuteli tutte le parti in gioco.

Il Ministro Bray ha espresso consapevolezza per la complessità del settore e per le sue problematicità ma ha dichiarato la volontà di superare gli ostacoli attraverso questi tavoli di lavoro e di confronto (“da non abbandonare mai”), simbolo di un nuovo sistema più ricettivo alle richieste del settore culturale.

L’unione di intenti tra istituzioni e industria ha fatto sì che il Presidente Anica Riccardo Tozzi proponesse pubblicamente il Ministro Bray come riferimento istituzionale di questa Governance e come portavoce di questa collaborazione a tutela dei diritti dei consumatori e di quelli dell’industria.

L’analisi.

Il sistema industriale audiovisivo e gli assetti del mercato in Italia ruotano attorno alle televisioni. La quasi totalità delle risorse però è a vantaggio di un numero ristretto di tv generaliste e di un duopolio editoriale. Il risultato è che tutto il potere assegnato a sole due imprese ha creato uno squilibrio tra produttori di contenuto e distributori, influendo negativamente sul prodotto. La chiusura del mercato distributivo non poteva che omogeneizzare il prodotto, che si è ormai etichettato e customizzato secondo uno schema rigido che prevede produzioni sicure per un target di pubblico di massa. Nessuna serialità con respiro internazionale, una produzione chiusa, un mercato chiuso con pochissime possibilità per la produzione indipendente.

Uno dei primi obiettivi di questa Governance sarebbe di diminuire il numero di tv generaliste, di aumentare e di rinnovare le linee editoriali e, soprattutto, di rendere obbligatori gli investimenti e la programmazione di prodotti provenienti da produzioni indipendenti.

Questa Governance deve essere centrale, statale, ed avere una visione totale della produzione dell’audiovisivo nazionale, ovvero lavorare a contatto con le regioni e con le film Commission, coordinandole e assegnando loro ruoli definiti e precisi ma non delegando gli oneri.

Nel contesto del mercato, il primo tema analizzato è stato quello relativo all’esercizio, con un grido d’allarme per la chiusura di un numero sempre maggiore di monosale cittadine, penalizzate da una pressione fiscale sempre in aumento, dalla impossibilità alla multiprogrammazione e dai costi per la digitalizzazione. In generale, tutto l’esercizio ha lamentato il problema fiscale e, soprattutto, il fenomeno sempre più crescente della pirateria.

A questo proposito è intervenuto Francesco Posteraro dell’Agcom, che ha confermato l’arrivo a breve termine di una regolamentazione precisa e più rigida sulla pirateria digitale, crimine da combattere prima che distrugga la produzione, ovvero un regolamento per la “protezione dei contenuti contro la predazione degli stessi”. L’attività di repressione non sarà quella di un controllo poliziesco della rete ma, su richiesta della parte lesa, si andrà a colpire i siti e i provider coinvolti nella diffusione illecita di materiale protetto da diritto d’autore.

Altro tema fondamentale è stato l’aggiornamento degli strumenti di implementazione delle risorse. Tutti gli strumenti, dal fus al credito d’imposta passando per i contributi agli incassi, al sostegno alle produzioni ritenute di interesse culturale o di autori di opere prime, vanno analizzati e ricalibrati. Inoltre si potrebbero ripristinare alcuni vecchi contributi ormai in disuso, purché aggiornati, e prendere in prestito dall’estero i modelli di contributo più più vincenti come il crowfunding, le lotterie e i gruppi di investitori per pacchetti di film.

 

 

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

 

 

taftersaloonIl banco non è male.
Legno grezzo, di quelli che ti fanno i gomiti e non solo, se non stai bene attento a come ti muovi.
Del resto, il saloon deve portare con lui una certa quale eredità in cicatrici.
L’esperienza è importante: da qualche parte lungo la Frontiera si dice che sia il proiettile di ogni colpo andato a segno.
Ma non siamo qui per parlare delle lunghe cavalcate in equilibrio sul confine, quanto di quello che siete venuti a bere: che sia per ristorarvi o per dimenticare, poco importa.
Questo vecchio cowboy sarà sempre qui, pronto a riempirvi i bicchieri e sempre in attesa del prossimo brindisi.

 

 

 

 

 

 

 

machetekillsMachete Kills
di Robert Rodriguez

Da gustare come: un mezcal con il verme.

Se avete bisogno di: pulp, trash, sangue e violenza come se piovessero.

Di cosa si tratta: torna sugli schermi l’antieroe già cult Machete, interpretato da Danny Trejo – ormai una leggenda vivente della Hollywood alternativa -, alle prese con quello che dovrebbe essere il capitolo centrale della sua trilogia, in una pioggia di sangue, proiettili, sesso e morte.
Se il primo capitolo fu una vera scoperta, con questo secondo Rodriguez tenta l’impresa di stabilire uno standard “in grande” del suo successo forse più clamoroso. Le carte in regola per centrare il bersaglio grosso ci sono tutte: ora starà al pubblico essere forte abbastanza da sopportarlo.

 

 

 

 

 

 

Questione di TempoQuestione di tempo
di Richard Curtis

Da gustare come: un rosso avvolgente.

Se avete bisogno di: una storia d’amore oltre le regole che vi ricordi i fasti di “Eternal sunshine of the spotless mind”.

Di cosa si tratta: il giovane Tim, impacciato e timido, scopre di avere la possibilità di viaggiare nel tempo e riscrivere la sua vita. Desideroso di poter avere una possibilità con Mary, gioca ogni carta possibile per poter conquistare la donna, rivivendo il loro incontro fino a trovare la via per il suo cuore.
Ma giocare con i massimi sistemi non è mai così semplice come si crede: echi di Eternal sunshine e di Ruby Sparks per una delle commedie romantiche più interessanti della stagione.

 

 

 

 

 

 

Le-Passe-PosterIl passato
di Asghar Farhadi

Da gustare come: pastis liscio, senza acqua.

Se avete bisogno di: scoprire – o riscoprire – uno dei registi più interessanti del panorama mediorientale alla sua prima esperienza “europea”.

Di cosa si tratta: un divorzio difficile vissuto in un Paese straniero e cercando di superare un passato doloroso per una coppia ormai lontana nel percorso della vita. Dopo il meraviglioso “Una separazione”, Fahradi torna ad esplorare la realtà complessa dei rapporti di coppia – e la loro fine -, ma anche quella della condizione della donna e della libertà di pensiero.
Uno degli appuntamenti più importanti dell’autunno per gli appassionati del Cinema d’autore.

 

 

 

 

 

 

wolfcholdrenWolf children
di Mamoru Hosoda

Da gustare come: sakè bollente.

Se avete bisogno di: avere l’ennesima conferma che il Cinema d’animazione ha da offrire le stesse garanzie di quello di fiction.

Di cosa si tratta: una fiaba che racconta l’evoluzione dei rapporti all’interno di una famiglia, una pellicola di formazione che parte da uno spunto fantasy per raccontare i dolori della crescita, il rapporto con la società e la natura.
Mamoru Hosoda, autore del noto “La ragazza che saltava nel tempo”, torna sul grande schermo con un film degno della grande tradizione dello Studio Ghibli, per appassionati e non solo, e senza dubbio una delle proposte migliori che il genere abbia regalato al pubblico nel corso del 2013.

 

 

 

 

venusfourrureVenere in pelliccia
di Roman Polanski

Da gustare come: assenzio verde.

Se avete bisogno di: un’esperienza teatrale raccontata da uno dei Maestri del Cinema europeo.

Di cosa si tratta: appoggiandosi alle interpretazioni di Mathieu Amalric e della moglie Emmanuelle Seigner, Roman Polanski torna a cimentarsi con un “dramma sociale” da camera legato a doppio filo alla rappresentazione della Venere in pelliccia di Von Sacher-Masoch, all’origine di un gioco di seduzione e lotta tra il regista e la protagonista dello spettacolo.
Forse non si tratterà del Capolavoro del regista, ma l’intensità del suo lavoro riesce sempre a regalare al pubblico inquietudine ed emozioni.

 

basilicatagirareIntervista al Direttore di Lucana Film Commission, Paride Leporace

 

Insieme alla Regione Basilicata avete promosso il bando per il finanziamento di produzioni sul vostro territorio, in scadenza l’11 novembre. Quali i principali punti di forza di tale opportunità?
Fino a duecentomila euro di finanziamento per ogni film da spendere sul nostro territorio. E una quota destinata a sperimentare la nascita di piccole imprese locali vocate all’audiovisivo. Si tratta della prima pietra per edificare un sistema di piccole e medie imprese che possano formare un distretto della creatività a supporto dell’industria cinematografica

 

Cosa consiglia alle PMI che si candideranno per ricevere i finanziamenti messi a disposizione? C’è magari qualche location particolare che vuole suggerire?
Consiglio innanzitutto di non pensare alla Basilicata come un bancomat da utilizzare nella forma usa e getta. Spero si ragioni tutti in modo virtuoso e mi auguro che qualche squalo che circola in questi ambienti venga demotivato dalla rigidità dei controlli che un bando europeo propone. Per chiarimenti abbiamo attivato un servizio FAQ consultabile dal nostro sito lucanafilmcommission.it. In merito ai set da proporre io preferisco chiamarli luoghi. La Basilicata è molto vasta, contrariamente a quello che restituisce il luogo comune. Si tratta di luoghi che a volte hanno visto l’alba dell’uomo. Sono poco abitati quindi molto cinematografici. Matera è un patrimonio dell’umanità e città del cinema. Ma abbiamo anche due mari, molti laghi, cime innevate e deserti brulli, paesini che sembrano presepi e nidi di vespe arrampicati sulle colline, cattedrali medioevali, palazzi barocchi, foreste, centri storici intatti, piccole savane, campi di grano, attrazioni con filo d’acciaio che imbracati vi conducono come un angelo da un paese all’altro a grande altezza. Un campionario di scenari naturali pronto a soddisfare ogni sceneggiatura da illuminare con una luce che ha già entusiasmato molti direttori della fotografia.

 

Che tipo di interazioni si attivano tra le produzioni che giungono da voi e le realtà locali, come imprese, associazioni, istituti culturali e amministrazioni?
C’è grande accoglienza e molta partecipazione. Le amministrazioni locali, a differenza dei luoghi metropolitani, non creano ostacoli burocratici, ma favoriscono permessi e mettono a disposizioni mezzi e risorse. Le relazioni corte lucane sono molto utili per risolvere i problemi di una produzione, dove ridurre i costi e i tempi è il primo risultato da raggiungere. Il mondo delle imprese deve attrezzarsi meglio, quello della cultura essere più propositivo.

 

Tra le produzioni che avete sostenuto in passato, quale a suo avviso ha meglio rappresentato e veicolato le bellezze della Basilicata?
“Basilicata coast to coast”, grazie ad un regista lucano come Rocco Papaleo e al racconto “on the road”, ha permesso di rendere riconoscibile la Basilicata e di renderla anche molto affascinante al visitatore che non cerca luoghi banali o scontati. Abbiamo favorito la distribuzione del film anche in Francia e  grazie a questo prodotto cinematografico abbiamo notato come  la nostra regione sia attraente anche all’estero. Tra l’altro molti studi indicano questa favorevole circostanza. Il film è nato grazie all’intuito del produttore che ha ricevuto attenzione e finanziamento dalla Regione Basilicata e dal ministero, godendo anche di un’ottima campagna pubblicitaria pagata da parte di alcune compagnie petrolifere operanti nella nostra regione. E’ stata un’ottima operazione di promozione territoriale, abbinata ad un prodotto di successo economico e artistico.

 

Che tipo di attività svolgete invece sul territorio per promuovere il cinema e la sua conoscenza? Che feedback riscontrate?
Siamo in stretto contatto con una rete di Centri della creatività, nati in Basilicata grazie alla Regione, che ha riqualificato delle vecchie cattedrali nel deserto inutilizzate affidandole a gruppi e cooperative che hanno partecipato ad un bando pubblico. In questi Centri abbiamo tenuto molti incontri con i territori e oltre ai lavoratori della creatività e del cinema abbiamo anche interagito con imprenditori, amministratori, banche e categorie produttive. La nostra narrazione dimostrativa convince sempre più persone. Siamo inoltre molto impegnati a difendere le sale cinematografiche esistenti e con un Apq tra governo e Regione speriamo di poter effettuare una sperimentazione sul nuovo cinema digitale nelle nuove sale del presente. Infine, e non da ultimo, dobbiamo formare dei cittadini spettatori che abbiano una buona cultura delle immagini, che le sappiano leggere e capire. Per questo è indispensabile partire dalle scuole e dall’Università.

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La Basilicata ha un lungo trascorso cinematografico: come spiega questa particolare vocazione?
Le inchieste sociali e i documentari aprirono la strada. Girare in Lucania era come andare in un posto esotico. Poi la spedizione di De Martino apri’ la vocazione antropologica che continua ancora oggi ad un cinema che indaga e prende a pretesto riti e costumi ancestrali. Poi la decisione di Pasolini di ritrovare la Palestina di Cristo a Matera e Barile per alcune scene monumentali del Vangelo segnerà per sempre la storia del Cinema. Da allora Matera in particolar modo, ma non solo, diventa set privilegiato per film legati alla vicenda di Gesù. Quasi un genere compresa qualche parodia, metacinema e qualche flop americano. Poi si gira “The Passion” di Mel Gibson che, grazie ai suoi incassi stratosferici e alle polemiche globali suscitate, ha fatto diventare Matera una delle mete di cineturismo più conosciute al mondo. A Pasqua il turista trova le croci sulla Murgia ormai diventato Golgota nell’immaginario collettivo. Poi c’è tutto il resto. L’esordio della Wertmuller, la trilogia di Francesco Rosi che riesce a impossessarsi dell’epopea contadina di Carlo Levi negli anni Settanta, la finta Sicilia di Tornatore. La Basilicata è un set naturale che ispira il cinema d’autore per contaminazione culturale di alcuni testi e per forza dei luoghi. Grandi documentari pure. Oggi il nuovo snodo. Mettere a sistema questo grande patrimonio.

Guarda l‘infografica che in 2 minuti ti spiega come partecipare al bando, che trovi in versione integrale qui

primavoltascarduelliIntervista Matteo Scarduelli, responsabile marketing e comunicazione del  Filmmaker Festival

 

Dal 1980 esiste a Milano questo festival straordinario che si chiama Filmmaker Festival. Eppure, c’è qualcuno che forse ancora non lo conosce. Spiegaci di cosa si tratta.
Quando la realtà è in continuo movimento, solo l’arte può anticipare i cambiamenti, intuire le svolte, individuare le tendenze o le eccezioni. Le narrazioni possibili che si nascondono sotto la superficie degli accadimenti devono essere scovate e riconosciute, e diventare oggetto di una scommessa difficile e affascinante: devono prendere una forma. Questa serie di passaggi – che è la pratica corrente dei cineasti che lavorano con la realtà – è un processo che Filmmaker conosce bene: il nostro festival oltre a mostrare i film (in concorso e fuori) si è sempre occupato del processo creativo e produttivo del film, seguendo lo sviluppo di progetti e finanziandone la realizzazione.
A partire dal 1980 Filmmaker, con il contributo di enti pubblici, sponsors privati ed istituzioni culturali, promuove sul territorio milanese la cultura cinematografica indipendente, sostenendo al tempo stesso la ricerca e l’innovazione nella produzione audiovisiva.
La caratteristica che più di tutte ha contraddistinto Filmmaker rispetto ad altri festival è da sempre stata l’azione tesa a favorire la produzione di nuove opere. Ad oggi più di ottanta film e video sono stati realizzati con il sostegno dell’associazione.
Nell’annuale sostegno alla produzione audiovisiva sono sempre stati privilegiati i giovani, i nuovi autori e tutti coloro che scelgono di realizzare un cinema “fuori formato”.

 

Ma poi, alla fine, chi ci lavora dietro? Insomma, chi siete?
Persone che credono e hanno creduto che il cinema possa essere realmente una forma di educazione e di confronto sociale e politico. Con il tempo l’associazione ha subito diversi mutamenti e negli ultimi anni sono entrate nuove generazioni che hanno nuove energie ed idee per parlare di cinema oggi. Il festival durante l’anno ha sempre cercato di organizzare laboratori e seminari accessibili a tutti per promuovere la critica e la regia cinematografica. L’anno scorso grazie a Fondazione Cariplo abbiamo lanciato il progetto “Nutrimenti” mettendo insieme da tutta Italia trenta giovani filmmaker che hanno avuto l’opportunità di seguire una masterclass di un anno con i più importanti registi e produttori del cinema contemporaneo.
Quest’anno grazie alla costituzione di Milano Film Network, il network dei festival cinematografici milanesi, abbiamo avuto l’incarico di gestire e organizzare i laboratori di tutti i sette festival del circuito (Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Festival MIX Milano, Filmmaker, Invideo, Milano Film Festival, Sguardi Altrove Film Festival e Sport movies & Fest.); una sfida e un’opportunità incredibile che porterà l’accento ancora di più sulla dimensione laboratoriale della nostra associazione. Luca Mosso direttore del festival da due anni, è coadiuvato dall’instancabile lavoro di Danila Persico ( responsabile della programmazione con Alessandro Stellino e Francesca Piccino). Per il secondo anno ho preso in gestione la parte di marketing e comunicazione della manifestazione; Cristina Caon è la nostra coordinatrice del programma e Ottavia si occupa della parte gestionale dell’associazione. Abbiamo anche uno chef, Andrea, e nuovi soci del calibro di Minnie Ferrara, Dario Zonta, Alina Marazzi e molti altri che quando possono ci dedicano le loro energie. Quest’anno abbiamo con noi anche Diego, tre Giulie e tutto lo staff del Network.

 

Per questa edizione avete deciso di pensare in grande e di chiedere aiuto a tutti coloro che hanno creduto, credono e vorranno credere nella magia di questo festival. Cosa bolle in pentola?
Come ben sai le pubbliche istituzioni sono in gravi difficoltà economiche ed è venuto il momento di coinvolgere il nostro pubblico, un pubblico forte che oltre trenta anni segue il festival nelle differenti location milanesi. Abbiamo costruito sulla piattaforma di crowdfunding Kapipal la nostra personale campagna. Per farlo e abbiamo pensato di creare un video lancio virale coinvolgendo tra i più importanti registi del che sono passati attraverso le produzioni di Filmmaker o che hanno vinto alcune edizioni del festival. Gianfranco Rosi, Alina Marazzi, Michelangelo Frammartino, Silvio Soldini sono solo alcuni dei nomi che hanno partecipato a questo progetto sposando il claim del festival: la prima volta non si scorda mai.
La campagna sarà accompagnata da una serie di attività off line e una serie di interviste che pubblichiamo settimanalmente sui nostri canali social in cui i vari registi ci raccontano le loro prime volte. Piccoli tuffi emotivi nel passato e momenti ispiratori per tutti i futuri registi.

 

Quindi, state diventando sempre più grandi e sempre più famosi. Quali sono le principali novità di questa edizione?
L’intenzione è questa, anche perché con l’entrata all’interno del festival network si presuppone che molte risorse possano essere condivise. Lo staff del festival in effetti si è decisamente ingrandito. Quest’anno oltre al concorso internazionale ci sarò una retrospettiva dedicata al documentarista americano Ross Mcelwee. Avremo una sezione fuori formato in cui saranno presentate in anteprima alcuni lavori italiani molto interessanti. La novità più grande però è ancora una sorpresa per l’intera città di Milano e non potremmo parlarne fino al 19 di novembre. Ci stiamo lavorando assieme al Comune di Milano.

 

3 buoni motivi per cui bisogna essere a Milano dal 29 novembre all’8 dicembre al Filmmaker Film Festival (non basta dire che TAFTER è media partner dell’evento)
1. Perché saranno presentate opere da tutto il mondo introvabili nei circuiti commerciali
2. Perché faremo l’Opening night in un luogo bellissimo e segreto
3. Perché durante il festival organizzeremo brunch, laboratori e workshop
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=X0TTpVZOZ0w?rel=0]

 

L’immagine di Filmmaker Festival è stata realizzata da Arianna Vairo

pellicolacinemaAnnunciata fin da prima dell’estate (inizialmente con l’ambiziosa denominazione di “Stati Generali”), il 14 ottobre 2014 è stata ufficializzata dal Mibact l’iniziativa promossa da Massimo Bray, la “Conferenza Nazionale del Cinema”, che si terrà martedì 5 novembre a Roma presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, con una appendice conclusiva sabato 9 novembre nell’ambito del Festival Internazionale del Cinema.

Chi scrive quest’intervento presiede un istituto di ricerca specializzato da vent’anni sulle politiche culturali e le economie dei media e, da un quarto di secolo, studia queste tematiche: nel corso di questo lungo lasso di tempo, ha osservato come il livello di trasparenza ed accuratezza del “sistema informativo” della cultura italiana sia purtroppo migliorato ben poco.

Lo stato dell’arte delle conoscenze (statistiche, socio-economiche, istituzional-normative) della politica e dell’economia culturale in Italia resta sconfortante, se confrontato con la Francia, il Regno Unito, la Germania. I dati disponibili sono frammentari e disomogenei, sia sul fronte del consumo sia sul fronte dell’offerta, le letture scenaristiche rarissime, l’analisi critica dell’intervento della mano pubblica una “mission” (quasi) “impossible”.

Stendiamo un velo pietoso sulla qualità della relazione annuale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (zeppa di dati, ma carente di lettura strategica), e registriamo che l’onda lunga di trasparenza avviata anni fa da Walter Veltroni quando fu Ministro per i Beni e le Attività Culturali è ancora in corso (la relazione annuale sul Fus è migliorata anche se resta un tomo sostanzialmente inutilizzabile, la Dg Cinema del dicastero, diretta da Nicola Borrelli, si sforza di rendere più leggibili i propri dati ma è assente ogni analisi critica), eppure siamo costretti a denunciare l’assenza di un dataset minimamente adeguato a comprendere criticamente lo stato di salute del sistema audiovisivo. Qualche mese fa, Anica e Dg Cinema presentarono un dossier statistico asettico intitolato “Tutti i numeri del cinema italiano”. Scrivemmo che l’ambiziosa titolazione doveva essere corretta con un più oggettivo “Alcuni numeri (parziali assai) del cinema italiano”, e già una sintonia “statistica” tra Mibac ed Anica stimola dubbi anche in materia di conflitti d’interesse. I “buchi” della relazione al parlamento sul Fus o della specifica relazione della Dg Cinema sono semplicemente enormi. E che dire del ministeriale Osservatorio sullo Spettacolo, che è stato anno dopo anno depotenziato, fino a ridurlo ad una scatola vuota?!

C’è un “disegno”, dietro tutto questo. Forse non esattamente strategico (perché implicherebbe una intelligenza di “policy making” di lungo periodo, che non c’è), ma frutto di dinamiche politiche inerziali, di sedimentazioni conservative. Che, alla fin fine, producono però un risultato: deficit di trasparenza, impossibilità di analisi di impatto. Dati carenti ed analisi asettiche, elaborate da tecnici “partisan” asserviti alla conservazione dell’esistente, cantori del principe. Così il dizionario Treccani definisce “asettico”: “Che è privo di forza creativa, di personalità, di mordente, o che, nelle sue manifestazioni, si rivela freddo, arido, senza calore, privo o incapace di passioni, di preferenze e sim.”: definizioni che paradossalmente ben descrivono la nostra (non) politica culturale italiana.

In un quarto di secolo, siamo riusciti a capire perché questo è lo stato dell’arte: perché, meno si sa, meglio può operare chi è all’interno del sistema (si chiami Fus o appalti Rai). Minore è quindi il rischio di critiche documentate, più ardua la capacità di comprendere le dimensioni quali-quantitative delle aree protette e delle nicchie privilegiate. Parafrasando un qual certo filosofo… “la notte in cui tutte le vacche sono nere”. E chi ha interesse alla nebbia pervasiva? Chi è protetto dalle logiche del sistema. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. E fuori resta.

E che dire della “convegnistica” in materia?! Da decenni, nello specifico del cinema, ri-troviamo le stesse “sigle” (e spesso le stesse persone fisiche a rappresentare le associazioni): Anica Agis Anec Anem Anac Apt… con qualche novello innesto, significativo (100autori) o meno (Apgci). Talvolta ci sono anche i “giornalisti”, ovvero Sncci e Sngci (i due sindacati, “critici” e “giornalisti”, ricordando che l’Italia è l’unico Paese al mondo con due sindacati di giornalisti specializzati in cinema), talvolta i sindacati… Balletti rituali tra lobby grandi e piccole, che stancamente si ripetono. Infinita noia.

Da decenni, registriamo raramente rappresentanti di associazioni che denuncino i deficit del “sistema informativo” del cinema e dell’audiovisivo: noi avremo il vizio dei ricercatori, ma domandiamo loro (così come a ministri ed assessori di turno): come diavolo pensate di “fare politica” (con… scienza e coscienza) del cinema e dell’audiovisivo, se non disponete di dati ed analisi minimamente adeguate?! Ma come può essere invocata la “spending review”, se mancano i fondamentali per capire cosa realmente produce (ed è soltanto un esempio tra i tanti) il sempiterno carrozzone di Istituto Luce Cinecittà?!

Ci stanchiamo a rievocare sempre la disattesa lezione einaudiana del “conoscere per deliberare”: è divenuto un mantra, ma finanche, purtroppo, ormai, un cliché.

L’iniziativa della “Conferenza Nazionale” sembra riprodurre la storica compagnia di giro, con una parvenza di novità di “apertura” democratica, ovvero “dal basso”: dal 14 ottobre al 22 ottobre (una finestra di tempo veramente limitata, di grazia, e comunque certamente una iniziativa mal pubblicizzata), è stata avviata sul sito del Ministero una sorta di pubblica “consultazione”. Si poteva “rispondere” ad una sorta di questionario chiuso: 18 domande 18 su macro e micro questioni del sistema cinematografico, e risposte lunghe al massimo 1.000 battute. Ma si poteva rispondere ad 1 domanda 1 soltanto! Surreale. Elogio della frammentazione?! Metodo “by Mibac” ispirato a logiche di razionalità managerial-aziendalistica “made in Usa”, che cozzano con la libertà che si deve garantire al pensiero creativo. Ed anche al pensiero critico sulla creatività!

Ci siamo rifiutati di accettare una logica così rigida, schematica, chiusa. Non abbiamo risposto – e molti come noi – e non parteciperemo alla “Conferenza”, che prevede 3 “tavoli” (“Cinema: industria culturale”, “Struttura, operatori del mercato e nuovi modelli di distribuzione e fruizione”, “Le politiche pubbliche”; già questa ripartizione evidenzia scotomizzazioni a gogò), che si terranno in peraltro in contemporanea (ed anche questo metodo è sintomatico della volontà di parcellizzare il pensiero critico).

L’architettura metodologica messa in atto è profondamente errata, perché la fisiologia e la patologia del cinema italiano richiedono un approccio organico e sistemico, dati seri e analisi critiche profonde, provocazioni coraggiose, e non l’ennesima passerella di riproposizione di tesi parziali e partigiane, frammentarie e dispersive.

Sarà comunque interessante leggere i risultati concreti della Conferenza Nazionale (in termini di lettura critica del sistema e di proposte di innovazione). Se ne produrrà.

 

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

 

pulpfiction

Murat Palta è un illustratore turco che attraverso la sua arte ha voluto far incontrare la sua cultura con quella tipicamente occidentale. Ha preso infatti il cinema di Hollywood e le miniature ottomane fondendole insieme. Come?
Guardate le sue creazioni e capirete in che modo l’indimenticabile Uma Thurman in “Kill Bill” si trasforma in un’eroina dalle Mille e una Notte o come Marlon Brando da “Il Padrino” di Coppola veste i panni del capo dei 40 ladroni.

 

Scoprite Murat Palta sul suo sito

 

cinemaextraIl tema dei contributi alternativi (o per meglio dire complementari) alla tradizionale offerta cinematografica sta gradualmente prendendo piede anche nel nostro Paese.
Va da sé che lo sviluppo di titoli “extra-filmici” è direttamente proporzionale al processo di digitalizzazione delle sale tuttora in atto e che prevede lo switch-off a partire da gennaio 2014.

In proposito fonti diverse indicano un tasso di penetrazione ancora basso che si muove all’interno di in una forbice molto ampia tra il 50% ed il 66% a seconda del perimetro di rilevazione utilizzato. Tornando ai contenuti alternativi (intesi come eventi o riedizioni di vecchi film) distribuiti nelle sale cinematografiche, il peso di tali contenuti sul totale box office è assai marginale (0,47% sul box office nazionale nel 2012, fonte. ANEM) a dimostrazione che siamo di fronte ad una tendenza ancora embrionale a differenza di mercati più evoluti come il Regno Unito e la Francia.

Vanno però segnalati alcuni casi significativi (in particolare gli eventi musicali come i concerti di Ligabue o dei Led Zeppelin o ancora il doc su Vasco Live) che hanno registrato risultati positivi in termini di incasso relativo, soprattutto se ottenuti in giorni come il lunedì ed il martedì che la normale programmazione riesce a “riempire” mediamente al 5-10%.

Alcuni eventi inoltre (come la lirica o l’arte) sono diretti ad un pubblico spesso molto diverso da quello che tradizionalmente frequenta i cinema, rappresentando un importante strumento di ampliamento degli spettatori.

Su queste ipotesi e strategie si è mosso ad esempio il circuito The Space che ha dato vita da poco più di un anno a “The Space Extra”, un marchio che pone il circuito e le sue strutture al top tra quelle che proiettano (con successo) contenuti alternativi, come dimostra il focus con cui si chiude la ricerca.

In conclusione quello dei contenuti alternativi, pur essendo ora un fenomeno limitato, è destinato nei prossimi anni a diventare uno strumento efficace per dimostrare che anche le sale devono aprirsi maggiormente alla multi-programmazione, fidelizzando il proprio pubblico, attraendo nuove fasce di utenza ed arricchendo in questo l’esperienza di consumo.

 

Bruno Zambardino è analista senior della Fondazione Rosselli e Direttore didattico As.For. Cinema

rushmovieSe non è il miglior film dell’anno, poco ci manca. È difficile non rimanere incantati ed emozionati di fronte all’ultima fatica cinematografica di Ron Howard, Rush, basato sulla leggendaria sfida tra i piloti di Formula 1 Niki Lauda (interpretato da Daniel Bruehl) e James Hunt (Chris Hemsworth). Gli incassi parlano da soli: 48 milioni di dollari guadagnati in tutto il mondo e 4 milioni di euro nella sola Italia. E il merito non è solo dei tantissimi appassionati di Formula 1 che hanno atteso con ansia per mesi l’uscita di Rush… Perché se è vero che il film ha avuto un grande successo in Paesi come Italia e Regno Unito, dove la tradizione dello sport a motori è molto forte, è anche vero che senza il tocco di Hollywood, questo lavoro sarebbe stato distribuito solo in poche decine di sale in diversi Paesi.

Per quanto gli americani abbiano il “brutto vizio” di romanzare ogni cosa, va riconosciuto al regista americano di essersi attenuto quanto più possibile alle cronache del tempo: la somiglianza degli attori con i personaggi originali è impressionante, la ricostruzione delle vetture usate dai piloti è fedelissima, così come la sequenza di eventi che ha caratterizzato il duello tra Lauda e Hunt, dalle prime scaramucce in Formula 3 (categoria minore degli sport motoristici a quattro ruote) fino alla famosa stagione 1976, massimo emblema della rivalità tra i due nemici – amici.

Rush è un film che ha la capacità di parlare a tutti, sia a chi non ha mai seguito una gara di Formula 1, sia a coloro che sono disposti ad alzarsi anche alle 4 di notte pur di seguire in diretta la gara in Australia. Nessun linguaggio complesso, nessun nome o episodio dato per scontato: la narrazione prosegue in modo lineare e chiaro, coinvolgendo al massimo lo spettatore e riportandolo indietro nel tempo. Ma occhio a definirlo semplice documentario… Perché, oltre ai momenti salienti della sfida Lauda – Hunt, l’attenzione viene posta anche sulle vite private estremamente diverse dei due protagonisti: da un lato abbiamo un Hunt che ama sfruttare la sua bellezza da dongiovanni per conquistare il cuore delle donne e che si abbandona spesso al fumo e all’alcool; dall’altro lato abbiamo un Lauda che è, invece, schivo, riflessivo, per niente amante della socialità e mondanità.

Un dualismo che si traduce, poi, anche sulla pista: all’Hunt aggressivo che provava a infilarsi in ogni spazio e desiderava correre anche in condizioni difficilissime, si contrappone un Lauda più “calcolatore”, scrupoloso, attento a ogni dettaglio, uno che pensava sempre alle conseguenze delle sue azioni prima di compierle e non aveva peli sulla lingua, anche a costo di sembrare antipatico agli altri. Gli opposti si attraggono e infatti tra i due piloti nacque una bellissima e sincera amicizia, come sottolineato soprattutto nelle battute finali del film, probabilmente la parte più bella e commovente.

Realtà e finzione si fondono in un tutt’uno, fino a diventare quasi indistinguibili. Per non parlare dei tanti piccoli indizi che Ron Howard ha disseminato nel corso del film per soddisfare l’entusiasmo degli appassionati più incalliti. Giusto un paio di esempi: l’inquadratura che si sofferma sul nome di Tom Pryce, pilota morto nel 1977 all’età di 27 anni nel corso del Gran Premio del Sud Africa, vittima di un incidente tanto orribile quanto sfortunato. O la dura critica di Lauda nei confronti del suo Team, la Ferrari, per averlo rimpiazzato con un altro pilota (Carlos Reutemann) subito dopo il terribile incidente che lo ha portato a un passo dalla morte nel Gran Premio di Germania del 1976, del quale lo stesso Lauda porta i segni ancora oggi.

Come evidenziato da molti, Rush fa emergere anche il ricordo di un’epoca, quella degli anni ’70 e ’80, che ha visto probabilmente i più grandi duelli di sempre nella storia della Formula 1. Non solo Lauda contro Hunt, ma anche Gilles Villeneuve contro Arnoux, Senna contro Prost. Ma anche in tempi più recenti, la Formula 1 ha saputo regalare delle sfide memorabili, come quelle tra Michael Schumacher e Mika Hakkinen. Stiamo parlando di grandissimi Campioni del passato, Uomini (volutamente con la “U” maiuscola) ancora prima che piloti. Persone che hanno sfidato la morte pur di seguire una passione personale molto forte. Piloti che si prendevano a sportellate, senza guardare in faccia a nessuno, pur di raggiungere il gradino più alto del podio.

Oggi, purtroppo, non ci resta granchè di questo spirito sportivo… Gli attuali piloti di Formula 1 corrono con tanta elettronica a bordo (cosa che, invece, mancava nelle auto dei Campioni del passato) e seguendo sempre la traiettoria ideale, quasi come se fossero su un binario. Basta uscire un po’ fuori da questa traiettoria e si rovina tutto. Gli azzardi sono pochi: paradossalmente, i piloti erano più spericolati 20 o 30 anni fa, quando le auto di Formula 1 erano pericolosissime e gli incidenti mortali erano tristemente numerosi, che non adesso. Soprattutto dopo la morte di Senna a Imola è iniziato un processo di rafforzamento delle misure di sicurezza che ha portato le auto di Formula 1 attuali a essere dei veri bunker ultra-sicuri. Ma questo pare non aver incoraggiato al massimo lo spirito agonistico della maggior parte dei piloti che corrono adesso.

Ecco, quindi, che Rush assume un nuovo significato, ovvero quello di aiutarci a ricordare le sfide del passato non tanto in chiave nostalgica, quanto per offrire un paragone genuino tra quelli che vengono considerati Campioni oggi e quelli che lo erano in passato. Una bellissima lezione di stile, valori sinceri (come il coraggio e l’amicizia) e umiltà che ci viene regalata da uno che, fino a non molto tempo fa, a stento sapeva cosa fosse la Formula 1. Non sorprende, quindi, che inizino già a circolare voci su un futuro film dedicato alla rivalità tra Senna e Prost. Di sicuro sarebbe un altro grandissimo successo!

 

pescespadaziamariaZia Maria era un’aristocratica jonica dall’aria decisamente magnogreca. Cucinava con delicato ingegno: ho imparato questa ricetta, dopo averne sperimentato il gusto sublime in una di quelle case à la Camilleri, tutte trumeaux e boiseries all’ombra del Monte Tauro. Altri tempi, certo, ma la ricetta rimane potente anche nell’universo digitale, oggi diremmo soltanto che è smart. Il pescespada, va detto per cominciare, è considerato autoctono pur essendo migrante; attraversa lo Stretto di Messina in primavera, per deporre le uova lungo la costa nordafricana, e torna indietro ad agosto. Non è un caso che risulti molto più saporito a maggio.

Catturato con la fiocina in un rito quasi mistico e del tutto silenzioso (la canzone di Modugno rimane un pezzo di storia ma durante la pesca non fiata nessuno), il pescespada finisce male quando lo si cucina alla brace o, peggio, sulla piastra, il che lo rende piuttosto stopposo. Muore con molta più dignità in altre cotture, alla ghiotta per esempio, cioè con cipolla, pomodoro, sedano, olive e capperi (un chiodo di garofano non guasta), oppure in forma di involtini, in modo che il ripieno renda il sacrificio più dolce. L’abbia appresa da qualcuno con un patto di omertà culinaria o l’abbia inventata, zia Maria ci regala una ricetta facile, di sicuro effetto e di antica nobiltà.

 

 

 

Ingredienti:

– fettine di pescespada (meglio se conosciuto personalmente e non emerso dalla refrigerazione metropolitana)

– pangrattato

– menta

– capperi

– aceto di vino

– olio

– sale

 

Preparazione:

Le fettine non dovrebbero essere troppo sottili, né troppo spesse. In una teglia rettangolare vanno adagiate su un’ombra d’olio, salate e cosparse da un velo di pangrattato, decorate con capperi (dissalati, ovvio) e foglie di menta fresca, e percorse da un filo d’olio possibilmente timido. L’aceto va messo in una tazzina e spruzzato sul tutto con le dita, senza esagerare. Cottura a bagnomaria, quindi la teglia va coperta, messa dentro una teglia più grande con un suolo d’acqua e cotta a fuoco molto moderato.

 

Da abbinare con:

 

cantimusiche

 

La preparazione è breve ma una volta a tavola si può protrarre il godimento di gusto, vista, olfatto, e tatto (il pescespada di zia Maria si squaglia in bocca) con un adeguato sfondo che accarezzi l’udito: i “Canti della Terra e del Mare di Sicilia” pubblicati nel 1907 da Alberto Favara, al quale si deve anche il “Corpus” delle musiche popolari dell’isola (ne circolano clandestinamente alcuni adattamenti davvero potenti per mano del chitarrista e cantante Eugenio Favano).

 

 

 

 

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Leggere non si può, soprattutto perché la voce recitante oscurerebbe gemiti e mugolii dei commensali. Ma prima di cominciare, magari durante un primo discreto, si può raccontare la pesca dello xiphias (il nome greco del pescespada) così come argomenta Serge Collet, antropologo francese che ha speso un anno sullo Stretto e raccolto le narrazioni più antiche e le esperienze più disparate nel libro “Uomini e pisci. La caccia al pescespada tra Scilla e Cariddi”, pubblicato a Catania da Maimone nel 1989.

 

 

 

 

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Un dipinto? Certo “La Vuccirìa” di Renato Guttuso, custodita a Palazzo Steri a Palermo, ma anche l’affresco che decora il soffitto del Teatro Vittorio Emanuele di Messina, che per mano dello stesso Guttuso e della sua bottega racconta la storia di Colapesce, un eroe ittico che tuttora regge dal fondo del mare la punta a nord-est della Sicilia, Capo Peloro (così narra la tradizione). In questo affresco si coglie la mescolanza di verdi e blu dello Stretto, quella stessa magnifica ibridazione cromatica che faceva dire a Giovanni Pascoli, più o meno: “Se immergi la mano nello Stretto la tiri fuori dipinta di blu”.

 

 

 

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Sulle sponde dello Stretto si parla tanto, ma i maligni dicono si faccia molto di meno. Non si “quaglia”, come si dice nel gergo locale. Lo disse e lo scrisse, negli ultimi anni del sedicesimo secolo, William Shakespeare che ambienta proprio a Messina “Much ado about nothing”. Nel 1993 ne ha realizzato un film solare e ammiccante Kenneth Branagh: tra prati e case di pietra (forse poco peloritane) recitano Emma Thompson, Keanu Reeves, Kate Beckinsale, Denzel Washington, Michael Keaton e lo stesso regi-sta.

 

 

 

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Che cosa bere? Una ricetta così morbida ed elegante chiede lo champagne. Dai contrafforti dell’Etna il solido Benanti ci offre un metodo classico, “Noblesse”, dovuto al vitigno etneo Carricante in purezza e alla sapienza dell’enologo Salvo Foti. Ricco e lungo, sottolinea la sinuosità del pescespada con grande rotondità archetipica di aromi.

 

Look, musica e scooter i tratti distintivi: abiti stretti, giacche dal tipico collo a tre bottoni e dai risvolti rigidi, magliettine colorate e solitamente attillate, uno stretto cravattino nero abbinato a pantaloni senza pences, mocassini o brogues sempre scure. Facilmente riconoscibili per i loro tagli di capelli, i giacconi parka con in bellavista il simbolo della Royal Air Force (l’aeronautica militare britannica) e il rombo di  Vespe e Lambrette riempite dei particolari più stravaganti, primi fra tutti decine di luci e specchietti retrovisori.

Ricercatori dello stravagante, del nuovo, amanti degli stilisti italiani e francesi, fissati nella ricerca del particolare, dell’eleganza sempre all’avanguardia. I primi Mods della Londra anni ‘50 volevano esprimere così la loro diversità rispetto ai ‘rozzi’ Teddy Boys, i Rockers contro cui spesso si scatenavano feroci risse, tra cui il famoso e triste episodio di Clepham Common in cui rimase ucciso un ragazzo e dal quale emerse la popolarità mediatica dei due gruppi. Amanti e ballerini di ‘modern jazz’, (da cui deriva il nome Mods) trascorrevano le lunghe notti nei nightclubs di tutta Londra, all’insegna dello sballo, ballando musica ska e soul,  passando poi alla beat music, and R&B.

 

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Ragazze con pantaloni e camicie da uomo; pochissimo trucco, sopracciglia fini e capelli corti che per il tempo erano una vera provocazione! Negli anni lo stile è divenuto sempre più fashion, sulla base dello slogan cool, neat, sharp, hip and smart: essere belli, stravaganti, puliti e decisamente eleganti. Icone intramontabili, la giovane Twiggy, bellissima androgina dai capelli corti e occhi truccati, l’impertinente Peggy Moffitt con il suo caschetto asimmetrico e gli occhioni dal trucco audace; per non dimenticare Jean Shrimpton forse la prima vera supermodella mondiale, apparsa su tutte le copertine delle riviste di moda più famose, Vogue, Harper’s Bazaar, Vanity Fair, Glamour, Elle, Ladies’ Home Journal, Newsweek, and Time magazines. E quando la moda Mod si espanse oltreoceano, una delle più belle superstar degli anni ‘60, musa di Andy Warrol e di Bob Dylan, Edie Sedgwick, influenzò con il suo stile tutto il mondo femminile e non dell’epoca.

 

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Alla fine degli anni ’70, a seguito del film Quadrophenia di Franc Roddam, ci fu un vero e proprio revival;  i The Who e i The Jam di Paul Weller scattarono in cima alle classifiche, mentre la 2-Tone divenne la primissima etichetta completamente ska al mondo.

Proprio in quegli anni cominciarono a Milano, Torino e Roma i raduni internazionali che continuano tutt’oggi a raggruppare moltissimi appassionati, vecchi e nuovi: famosissimo il week-end di Pasqua a Rimini con il ‘The italian Job’ e a Marina di Ravenna con il “Raduno Mod Italiano” alla penultima settimana di settembre (l’edizione 2013 si è appena conclusa lo scorso 20-21 settembre); prossima tappa l’All Saints Mod Holiday a Lavarone (Trento), per il week-end di Halloween.
Una vera passione che va ben oltre il vintage, come subito ci si accorge se solo si dà un’occhiata al sito ufficiale http://www.modculture.co.uk dove si trovano video, libri, abiti e oggetti, tutto rigorosamente Mod style.

 

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Se questo vi affascina, ascoltate oltre ai sempreverdi Statuto, i Tailor Made di Torino, i Made di La Spezia, i Fay Hallam Trinity o gli olandesi Kik e i danesi Movement; infine non vi resta che vestirvi di tutto punto e recarvi in uno dei diversi locali dove vengono tuttora organizzate serate Mod: il Flamingo Mod Club a Torino, l’Underground Blues a Teramo, il Buzz with the Fuzz a Milano, il Maximum Speed Mod Weekend a Genova, il Soulvivors a Bologna, il Right Track e la Youth in Revolt a Roma nel periodo invernale, l’Hot Mod Summer on the Lake sul lago Trasimeno nel periodo estivo. Ready, steady, go! Continue reading “Torna di moda il Mod” »