cinemaextraIl tema dei contributi alternativi (o per meglio dire complementari) alla tradizionale offerta cinematografica sta gradualmente prendendo piede anche nel nostro Paese.
Va da sé che lo sviluppo di titoli “extra-filmici” è direttamente proporzionale al processo di digitalizzazione delle sale tuttora in atto e che prevede lo switch-off a partire da gennaio 2014.

In proposito fonti diverse indicano un tasso di penetrazione ancora basso che si muove all’interno di in una forbice molto ampia tra il 50% ed il 66% a seconda del perimetro di rilevazione utilizzato. Tornando ai contenuti alternativi (intesi come eventi o riedizioni di vecchi film) distribuiti nelle sale cinematografiche, il peso di tali contenuti sul totale box office è assai marginale (0,47% sul box office nazionale nel 2012, fonte. ANEM) a dimostrazione che siamo di fronte ad una tendenza ancora embrionale a differenza di mercati più evoluti come il Regno Unito e la Francia.

Vanno però segnalati alcuni casi significativi (in particolare gli eventi musicali come i concerti di Ligabue o dei Led Zeppelin o ancora il doc su Vasco Live) che hanno registrato risultati positivi in termini di incasso relativo, soprattutto se ottenuti in giorni come il lunedì ed il martedì che la normale programmazione riesce a “riempire” mediamente al 5-10%.

Alcuni eventi inoltre (come la lirica o l’arte) sono diretti ad un pubblico spesso molto diverso da quello che tradizionalmente frequenta i cinema, rappresentando un importante strumento di ampliamento degli spettatori.

Su queste ipotesi e strategie si è mosso ad esempio il circuito The Space che ha dato vita da poco più di un anno a “The Space Extra”, un marchio che pone il circuito e le sue strutture al top tra quelle che proiettano (con successo) contenuti alternativi, come dimostra il focus con cui si chiude la ricerca.

In conclusione quello dei contenuti alternativi, pur essendo ora un fenomeno limitato, è destinato nei prossimi anni a diventare uno strumento efficace per dimostrare che anche le sale devono aprirsi maggiormente alla multi-programmazione, fidelizzando il proprio pubblico, attraendo nuove fasce di utenza ed arricchendo in questo l’esperienza di consumo.

 

Bruno Zambardino è analista senior della Fondazione Rosselli e Direttore didattico As.For. Cinema

In principio era “Life in a day”. Un progetto monumentale, portato avanti da Youtube, prodotto da Ridley Scott e girato da Kevin Macdonald, premio Oscar per il miglior documentario nel 2010. Nell’arco di 24 ore, dalle 00:11 alle 23.59 del 24 luglio 2010, tutto il mondo è stato chiamato a filmare una porzione della propria vita. Le indicazioni date agli utenti dal regista erano semplici. Chiedeva di dare una sorta di uniformità al progetto cercando di filmare dei momenti che rispondessero principalmente a tre domande: qual è la vostra paura più grande di oggi? Che cosa amate? Che cosa vi fa ridere?

life_in_a_day

Il risultato sono stati 4500 ore di riprese, provenienti da 180 nazioni, che la bravura del regista è riuscito a condensare in un lungometraggio di circa 95 minuti, tuttora visibile sul canale Youtube del progetto, e la vittoria di alcuni premi cinematografici internazionali quali il Sundance Film Festival, il Krakow Film Festival e il Cinematic Vision Award di Discovery Channel, oltre che la presentazione al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.

 

(altro…)

filmfundCome è noto, Nicola Zingaretti è stato eletto nel febbraio del 2013 Presidente della Regione Lazio con 1 milione 330mila voti (41 %). Il 12 marzo è stato proclamato Presidente, ed il 22 marzo ha presentato alla stampa la nuova Giunta. Lidia Ravera ha accettato l’incarico di Assessore alla Cultura ed allo Sport e, ad inizio giugno, ha convocato una riunione in Regione, per ascoltare le tante voci del cinema e dell’audiovisivo (ne abbiamo scritto con dovizia di dettagli su queste colonne). Sono trascorsi 4 mesi dall’insediamento, è ora per alcuni primi provvisori bilanci. In materia di cinema e audiovisivo, cosa bollisse realmente in pentola non era di pubblico dominio, almeno fino a qualche giorno fa.
Lunedì scorso, 15 luglio, arriva un segnale ufficiale: in occasione di un incontro promosso dal Pd nell’ambito della Festa nazionale de l’Unità, intitolato “Cinema e audiovisivo. La forza del Made in Italy”, Ravera si disvela ed annuncia a chiare lettere che intende scardinare la legge sul cinema promossa da Polverini e Santini, e che non intende avviare le procedure per la costituzione del Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, da lei definita “struttura burocratica inutile che sarebbe costata due milioni di euro l’anno”.

La legge sul cinema e l’audiovisivo cui si riferisce l’Assessora, promossa dalla sua predecessora Fabiana Santini (Giunta Polverini), è stata frutto di una lunghissima gestazione, nella quale, nel bene e nel male, sono state coinvolte tutte o quasi le associazioni rappresentative del settore: dai produttori potenti dell’Anica agli autori effervescenti dei 100autori. Insomma, grandi e piccoli, “majors” ed “indies”.
Si è trattato di una legge che ha visto il plauso di apprezzati produttori come Riccardo Tozzi e Angelo Barbagallo (certamente non sospettabili di simpatie destrorse). La legge è stata approvata il 14 marzo del 2012, con 36 voti favorevoli, 5 contrari e 3 astenuti. In occasione del voto finale, l’ex Assessora (Giunta Marrazzo) ed esponente dell’Italia dei Valori Giulia Rodano (leader dell’opposizione in Consiglio Regionale durante la Giunta Polverini) dichiarò: “Questa legge quadro, annunciata da mesi in pompa magna dalla Giunta, non avrà alcun capitolo di spesa corrente nel bilancio regionale: siamo di fronte ad un assurdo politico e giuridico.

I 45 milioni di euro di cui parla la Giunta sono stati stanziati solo in conto capitale: non sono spendibili per contributi”. Si osservi come la Rodano ponesse l’accento sul rischio di finanziamenti annunciati e non concreti, e non manifestasse critiche di fuoco sull’architettura complessiva della norma.
A quanto ci è dato sapere, i primi 15 milioni di euro previsti sono peraltro stati effettivamente peraltro assegnati, e sono entrati nelle case di decine e decine di imprese cinematografiche e audiovisive italiane, grandi e piccine (forse troppi soldini alle grandi e pochi soldini alle piccole, ma questo è un altro discorso).

Molti avranno peraltro notato che buona parte dei film cinematografici italiani e delle opere di fiction audiovisiva italiana che sono state proiettati nelle sale e trasmesse in televisione nell’ultimo anno recano, in bella mostra nei titoli di testa e di coda, il “marchio” ovvero il logotipo della Regione Lazio.
Gli strumenti principali della legge “Interventi regionali per lo sviluppo del cinema e dell’audiovisivo” (legge n. 2/2012, ex proposta di legge n. 135 del 13 gennaio 2011) erano giustappunto il Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo ed il Fondo Regionale, nati proprio con l’obiettivo di superare la famigerata polverizzazione policentrica degli interventi, la cui responsabilità va senza dubbio attribuita alla Giunta Marrazzo..
Il Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, dotato di uno stanziamento complessivo pari a 45 milioni di euro per il triennio 2011-2013, si poneva peraltro come primo vero Film Fund di taglio europeo di cui una Regione italiana si fosse mai dotata: 15 milioni di euro l’anno sono (erano) un budget veramente importante, di grande significatività nell’economia complessiva del sistema audiovisivo italiano.
Certo, alcuni automatismi previsti dalla legge potevano essere criticabili: ad esempio, a chiunque avesse realizzato nel Lazio una certa “percentuale” della propria opera cinematografica o audiovisiva qualificata come “prodotto culturale” da uno specifico test, sarebbe stato assegnato (troppo) meccanicamente un contributo
Va rimarcato che non esistono studi valutativi indipendenti sull’efficienza ed efficacia della legge, né in termini di rafforzamento del tessuto industriale del settore, né in termini di estensione del pluralismo espressivo: è però un dato di fatto che 15 milioni di euro rappresentino (abbiano rappresentato) comunque un’ossigenazione forte di un sistema stremato e boccheggiante (a livello nazionale e quindi regionale).
Cosa avrebbe potuto fare la neo Assessora, in questi sui primi quattro mesi di governo?! Studiare al meglio magari, attraverso una valutazione di impatto, gli effetti del Fondo e della nuova legge, e magari correggere le storture del nuovo impianto. Perché quindi cassare tutto, col solito rischio – tipicamente italiano – di buttare, insieme all’acqua sporca, anche il bambino?!
Tra l’altro, è bene ricordare che nell’agosto del 2012 la (ora) contestata legge Polverini-Santini ha ottenuto anche la benedizione della Commissione Europea, che l’ha giudicata compatibile con le delicate normative in materia di aiuti di Stato.

NO al Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo quindi, SI al rientro della Regione Lazio nella Roma & Lazio Film Commission, dalla quale la Regione era uscita, perché la Polverini avrebbe voluto che la Film Commission venisse assorbita dal nuovo Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo.
Eppure, durante il dibattito alla Festa de l’Unità, alla domanda di Francesco Siciliano (Vice Responsabile Cultura del Pd nazionale sotto la segreteria Bersani) “ma quante risorse pensate di destinare al cinema ed all’audiovisivo?” la Ravera, simpaticamente elusiva, non risponde.
A distanza di qualche giorno, il 18 luglio, il Presidente Zingaretti conferma le anticipazioni di Ravera, e comunica che, per le attività della Roma & Lazio Film Commission, la Giunta regionale ha approvato uno stanziamento di 100mila euro per il 2013, 300mila euro per il 2014 e 300mila euro per il 2015. Si tratta di dotazioni – sia consentito osservare – veramente modeste. E per quanto riguarda il resto degli interventi a favore del cinema ed audiovisivo?!
Il quesito che la collettività degli operatori del cinema e dell’audiovisivo laziale pone è quindi: “prendiamo atto dell’inversione ad u, ma cortesemente ci informate dell’entità del budget complessivo che la Regione Lazio intende allocare concretamente, nel 2013 e nel 2014, a favore dell’audiovisivo?!”.

La domanda è semplice, e ci auguriamo che la risposta sia chiara. Poi, magari ci andrete a spiegare anche i criteri selettivi, sicuramente basati sulla massima trasparenza, tecnocrazia, meritocrazia.
Siamo tutti interessati alla migliore promozione della cultura, e specificamente del cinema (e che sia il più indipendente, libero, plurale, innovativo, coraggioso e finanche trasgressivo…), ma vogliamo anche avere cognizione delle risorse che la Regione Lazio intende concretamente allocare. Non basta teorizzare e proclamare un… “cambio di paradigma”.

Peraltro, il 1° luglio, la Regione Lazio ha stanziato 3 milioni di euro, sui fondi Por Fesr 2007-2013, a sostegno degli investimenti per le piccole e medie imprese, per accelerare la digitalizzazione del parco-sale cinematografiche, da realizzarsi entro il 1° gennaio 2014. Una buona notizia, non c’è che dire, ma ci domandiamo se questo finanziamento rappresentasse davvero una priorità per il “sistema” cinema e audiovisivo, dato che la “deadline” del 1° gennaio 2014 è molto teorica, considerando che molte sale cinematografiche d’Italia, d’Europa e del mondo intero continueranno ad essere alimentate da film su pellicola, perché uno “switch-off” radicale è oggettivamente impraticabile, nonostante le major planetarie lo teorizzino.

A livello mondiale, la digitalizzazione ha raggiunto il 75 % degli schermi (circa 90mila sale), spiegava Bruno Zambardino (Iem-Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli), durante un convegno tenutosi ad inizio luglio a Riccione: l’Italia è al di sotto del 60 % di schermi digitali. In Italia, sono stati digitalizzati 2.035 schermi in 651 strutture. Le sale che mancano all’appello sono ancora 1.750 su un totale di 3.864 schermi del “campione” Cinetel. Nutriamo seri dubbi che dal 1° gennaio 2014 vadano proprio a chiudere, questi schermi minori. La “morte della pellicola” riguarderà forse il mercato Usa nel 2014, ma non il pianeta intero.

E segnaliamo una dichiarazione del 2 luglio 2013 della Kodak: “Kodak smentisce quanti affermano che a fine anno terminerà la produzione di pellicola 35mm per la distribuzione nei cinema. Fino a quando il mercato lo richiederà, Kodak fornirà pellicola”. Siamo proprio sicuri che la digitalizzazione delle sale cinematografiche rappresenti il “driver” per riportare il pubblico in sala, e comunque proprio il primo elemento emergenziale su cui intervenire?!
Non si vive soltanto di coraggiose e novelle progettualità, ma anche di risorse adeguate, affinché le nuove idee non restino belle intenzioni e vacui proclami. Sono necessarie strategie di sistema e non interventi sporadici. E risorse risorse risorse. È indispensabile una programmazione pluriennale ed una conseguente gerarchizzazione degli interventi.
E va rimarcato che la cultura andrebbe sostenuta non soltanto perché c’è anche un fondamento economico nella sua funzione, ma soprattutto perché è uno strumento di coscienza civile e coesione sociale.

Ne scrivevamo su “Tafter”, nel maggio del 2012, in occasione della presentazione della “agenda della cultura” promossa dalla Fondazione Democratica di Walter Veltroni e continuiamo a scriverlo oggi.
Come dire? Attendiamo una nuova “politica culturale” che passi dalla teoria alla pratica: un “new deal” autentico di teorie nuove e nuove pratiche.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult.

pellicGiovedì mattina 18 luglio, s’è tenuta a Roma, presso l’Auditorium di Via Veneto, la conferenza stampa di presentazione del progetto “Cinema italiano e Made in Italy”, promosso dal Ministero dello Sviluppo Economico (Mise).

“I fatti separati dalle opinioni”, recita un motto che viene ancora oggi insegnato nelle scuole di giornalismo, ma qui vogliamo invece partire dalle opinioni ed il lettore ci perdonerà: chi scrive queste note è per alcuni aspetti… “prevenuto”, perché da anni studia il marketing del cinema e dell’audiovisivo italiano (e più in generale delle italiche industrie culturali), ed osserva con sconforto la totale assenza di strategie di internazionalizzazione, così come l’isolamento dello specifico culturale dall’insieme delle strategie di promozione del “made in Italy”, di cui pure la cultura è (dovrebbe essere) invece asse portante.

Veniamo ai “fatti”. Recita il comunicato stampa diramato dopo la conferenza: “Per la prima volta, il Ministero dello Sviluppo Economico prevede una linea dedicata all’audiovisivo nel progetto speciale di promozione del «Made in Italy», che sarà attuata da Ice-Agenzia, Anica e Istituto Luce-Cinecittà, in collaborazione con Doc/it. Per due anni, fino alla fine del 2014, film e documentari d’autore, location cinematografiche e progetti di coproduzione faranno il giro del mondo promossi come l’Italia già fa per la moda o il food”.

Già l’incipit preoccupa: “per la prima volta” ?!

E partiamo da qui. Da decenni, cioè da sempre (se non vogliamo risalire al MinCulPop fascista), l’Italia è deficitaria di una politica organica di promozione della propria cultura: manca una agenzia specifica (come la potente Unifrance per il cinema francese), manca una politica intersettoriale (è necessario promuovere l’audiovisivo collegandolo all’editoria alla musica, allo spettacolo dal vivo…), mancano le risorse (lo Stato italiano dedica all’export della cultura italiana budget che sono semplicemente ridicoli), mancano i collegamenti istituzionali (tra il Mibac ed il Mise, in primis, e l’iniziativa odierna temiamo sia destinata alla metaforica rondine che non fa primavera)…

E che dire dello scollegamento tra la promozione “culturale” della cultura (ci si consenta il gioco di parole), affidata alla sgangherata rete degli Istituti Italiani di Cultura all’estero (di competenza del Ministero degli Affari Esteri), e quella che dovrebbe essere la promozione “commerciale” della cultura stessa (che dovrebbe essere affidata ad un’agenzia specializzata “ad hoc”, quale certamente l’Ice non è)?! E che dire del confuso ruolo e della deriva cui è stata costretta Cinecittà?! Eccetera eccetera eccetera.

Senza dimenticare una qualche criticità che potrebbe emergere anche sul senso stesso dell’Ice (le risorse assegnate sono sufficienti? la sua struttura è adeguata alle sfide della globalizzazione?), e sui deficit complessivi della politica commerciale internazionale del nostro Paese, ma questo sarebbe un discorso che va oltre i nostri obiettivi “culturologici”.

Per quanto riguarda lo specifico che qui interessa, non nascondiamoci dietro un dito: la situazione della promozione internazionale della cultura italiana è semplicemente disastrosa.

È indispensabile un ragionamento alto, un ripensamento profondo, rispetto all’intervento dello Stato su una questione così delicata, fondamentale, strategica, che riguarda non soltanto la bilancia commerciale, ma l’immagine stessa del nostro Paese sullo scenario mondiale.

Non ci sembra che il Governo Letta abbia identificato questo problema tra le priorità dell’esecutivo.

Quando si ha a che fare con la cultura, in Italia prevale il cosiddetto “altrismo”: i problemi veri sarebbero… altri, le priorità autentiche sarebbero… altrove. La cultura viene sempre… dopo. E la sensibilità rispetto alla cultura permane bella dichiarazione d’intenti, cui non seguono quasi mai azioni conseguenti (elaborazione di strategie, allocazione di risorse).

Ciò premesso, iniziative come quella odierna non possono che essere accolte con favore, pur nello scetticismo determinato dall’essere inevitabilmente tasselli: piccoli tasselli di un grande puzzle tutto ancora da disegnare.

Eppure basterebbe guardare alla Francia, e semplicemente emulare (o finanche copiare!), in termini di intelligenza strategica e di sensibilità budgetaria.

Il progetto “Cinema italiano e Made in Italy” è stato presentato da Pietro Celi (Direttore Generale per l’Internazionalizzazione e la Promozione degli Scambi del Mise), Nicola Borrelli (Direttore Generale Cinema del Mibac), Riccardo Monti (Presidente di Ice-Agenzia), Riccardo Tozzi (Presidente di Anica), Roberto Cicutto (Amministratore Delegato di Istituto Luce-Cinecittà), Gerardo Panichi (Presidente di Doc/it), Marco Polillo (Presidente dell’Aie).

Il progetto prevede un primo investimento di 800mila euro, che si vanno ad aggiungere ai 300mila euro che Ice già investe ogni anno in questo settore. Briciole.

“I film italiani sono penalizzati dalla mancata distribuzione all’estero a causa dell’assenza di promozione – ha sostenuto Celi (Mise) – si importa più di quanto si esporta. I dati dell’interscambio commerciale, Italia-estero, rielaborati dal Mise, parlano di un bilancio in passivo, che vale meno dello 0,1 % del volume totale degli scambi internazionali dell’Italia. Di fronte ad una situazione così critica, abbiamo provato a fare sistema”. Celi ha proposto alcune cifre: nell’anno 2012, le importazioni di audiovisivo sarebbero state di 212 milioni, a fronte di esportazioni per 66 milioni. Non è stata svelata la fonte, ma ci limitiamo ad osservare che queste cifre non corrispondono alle stime elaborate dalla stessa Anica sull’export del cinema italiano (i livelli sono molto più bassi).

E qui si riapre un’altra dolente questione: il marketing della cultura italiano non dispone di un “sistema informativo”, di un dataset statistico che sia minimamente accurato ed affidabile.
E come si può – di grazia – elaborare una strategia, in assenza di informazioni essenziali?!

Sia consentito ricordare che nel 2009 la Regione Lazio, attraverso la Fondazione Roberto Rossellini per l’Audiovisivo, aveva promosso un inedito “Osservatorio Internazionale sull’Audiovisivo ed i Nuovi Media” (Oiam), affidato in convenzione all’IsICult (Istituto italiano per l’Industria Culturale) ed alla Luiss (Luiss Business School). Il progetto era sì finanziato anzitutto da una Regione, ma si poneva come investimento per un’iniziativa di respiro nazionale ed internazionale, al servizio della comunità degli operatori tutti. Il budget per questa iniziativa di ricerca (attività preliminare a qualsiasi non avventata decisione di marketing) era adeguato: 150mila euro l’anno, per il primo triennio. Dimessosi l’allora Presidente della Regione Piero Marrazzo, è addivenuta alla presidenza della Regione Renata Polverini, che, non dedicando nemmeno un minuto all’iniziativa, l’ha cancellata nervosamente con un tratto di penna dal bilancio regionale: Fondazione Rossellini liquidata, Osservatorio killerato. Semplicemente perché era stata promossa dai “rossi”. Tipica vicenda italiana: un articolo su “Prima Comunicazione” (marzo 2011) fu non a caso intitolato ironicamente “dalla padella rossa alla brace nera”…

Il Direttore Generale del Cinema del Mibac, Nicola Borrelli, ha sostenuto che si tratta di un progetto “inevitabile”, perché cresce la coscienza di come la promozione internazionale del cinema italiano determini effetti benefici, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista dell’immagine del nostro Paese. Borrelli ha lamentato che il Mise avrebbe dovuto sostenere con maggiore convinzione la difesa dell’“eccezione culturale” nelle recenti trattative “Tipp” ovvero Trade and Investment Partnership.

“Per rilanciare il mercato del cinema italiano all’estero – ha sostenuto Tozzi (Anica) – dobbiamo investire su promozione e integrazione. Questo vuol dire sostegno economico ai distributori esteri ed individuazione di aree di “sfondamento” dove promuovere il cinema made in Italy”. Cresce la voglia di lavorare assieme, e non soltanto perché un ministero ha messo a disposizione risorse concrete. L’industria del cinema e della fiction italiane sono cresciute in modo significativo, rispetto a quindici o vent’anni fa. Le quote di mercato sono molto alte: l’Italia è tra i 3 o 4 Paesi al mondo con maggiore quota di cinematografia nazionale al box office. Il cinema italiano conquista posizioni eccellenti nei festival internazionali, ma ciò non si traduce in risultati commerciali in termini di export”. Secondo il Presidente dell’Anica, ciò è dovuto al deficit di “immagine” internazionale del cinema italiano: “si esporta un’immagine del cinema nazionale, non soltanto uno specifico film italiano”. E qui – secondo Tozzi – deve intervenire “la politica”, cioè la mano pubblica. Si deve ragionare di “promozione e integrazione”. “Promozione”: in primo luogo, coordinamento, promuovere l’immagine della cinematografia è promuovere l’immagine del Paese. “Integrazione”: collegamento organico con altre industrie culturali. Tozzi ha ricordato che l’Italia è vissuta all’estero come Paese “incarnazione dello stile” e dell’eleganza: “siamo visti così dal mondo. Il nostro Paese non è marchiato da una storia imperialistica, e può dare risposta culturale alle esigenze dei.. Paesi di sfondamento”.

Monti (Ice) ha sostenuto che “l’audiovisivo è importante perché è una grande industria nazionale con 10 miliardi di fatturato, che dà lavoro a 200mila persone. È un’industria che produce contenuti da esportare e un volano per promuovere e raccontare l’Italia e lo stile di vita italiano. Con i fondi del Made in Italy, stiamo rifinanziando iniziative che nel passato recente non erano state supportate”.

“Nella lunga e proficua collaborazione fra Ice ed Istituto Luce Cinecittà per promuovere l’industria cinematografica – ha spiegato Cicutto (Luce Cinecittà) – si è sempre privilegiata l’attività di networking fra i nostri produttori e distributori e i buyer stranieri. La filosofia, cui queste attività si sono sempre ispirate, sta nel considerare il cinema come prodotto del Made in Italy, e non solo come veicolo di promozione dei nostri prodotti di eccellenza”. Evitiamo di “scoprire l’acqua calda”, ha sostenuto ironicamente Cicutto: semplicemente “il cinema stesso è il made in Italy”. Ha ricordato che un qualche precedente interessante c’è stato (un protocollo d’intesa tra Mibac e Mise, a suo tempo siglato da Ornaghi e Passera), ma poi non si è concretizzato. Positiva la delega al turismo assegnata al Mibac, perché potrebbe contribuire ad una visione strategica “integrata” (cultura / made in Italy / turismo).

Panichi (Doc.it) ha confermato che la sensibilità del Mise e dell’Ice nei confronti del settore dei documentaristi italiani è maturata da anni, e già in passato sono state sostenute iniziative per la promozione internazionale. Panichi non ha però ricordato che il problema dell’industria del documentario italiano è – in verità – il mercato interno, dato che né Rai né Mediaset né Sky mostrano la minima sensibilità verso questo settore fondamentale del sistema audiovisivo.

Il Presidente dell’Associazione Italiana Editori (Aie), Marco Polillo (che è anche Presidente di Confindustria Cultura), ha ricordato che si stima che un quinto dei film che arrivano sullo schermo sono tratti da libri. Si tratta di un “progetto innovativo – ha sostenuto – perché mette insieme settori industria culturale contigui ma diversi”. Polillo ha ricordato l’esperienza positiva dell’iniziativa “Words on Screen. New Italian Literature into Film”, finalizzata alla promozione del cinema e dell’editoria nazionale, nell’ambito del progetto del Governo italiano “2013 Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti”: l’Anica, in collaborazione con l’Aie e la Fondazione Cinema per Roma, attraverso New Cinema Network, e con il sostegno del Mise, organizza incontri tra produttori, scrittori ed editori italiani e internazionali.

L’incontro s’è concluso con alcune domande: Franco Montini (Presidente del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici – Sncci, ma intervenuto come giornalista de “la Repubblica”) ha chiesto alcuni chiarimenti sulle risorse complessive, e su quali risorse potranno essere utilizzate per ogni singolo film. La direttrice dell’Ufficio Studi Sviluppo e Relazioni Associative dell’Anica, Francesca Medolago Albani (che ha moderato con eleganza l’incontro), ha precisato che il budget disponibile per l’anno in corso è di 180mila euro, e che verrà presto pubblicato un “bando Anica”, dato che sarà l’Anica a curare il sostegno dell’export dei film italiani. Le risorse sono destinate soprattutto alla promozione della distribuzione in sala di lungometraggi di finzione e di documentari.
I target primari sono il “Far East” inteso convenzionalmente come Giappone, Corea, Cina. Sarà sempre l’Anica ad occuparsi di un “road show” del “made in Italy” in Russia, Cina e America Latina. Si cercherà di intensificare gli scambi “business-to-business”, tra operatori del settore in tre aree geografiche considerate ad alto interesse per lo sviluppo del cinema italiano, come giustappunto la Russia, la Cina e l’America Latina. Verrà favorita la presentazione di progetti di coproduzione, e promossi tra gli operatori stranieri quei benefici che l’Italia può offrire ai produttori internazionali in termini di “tax credit” (nonostante i cruenti tagli apportati dal Governo Letta), fondi regionali per il cinema e “location” di pregio.
Le tappe previste per il “road show” sono: settembre 2013, Italia, “Mostra internazionale del Cinema di Venezia”, delegazione governativa cinese; Brasile, per il “Festival do Rio”; ottobre 2013, Russia, per il “Red Square Screenings”, il mercato internazionale del film di Mosca; novembre 2013, Italia, “Festival Internazionale del Film di Roma”, The Business Street e New Cinema Network, incontri b-2-b con produttori e istituzioni cinesi; dicembre 2013, Argentina per il “Ventana Sur” di Buenos Aires (3-6 dicembre); aprile 2014, Cina per il “Beijing International Film Festival” (23-28 aprile).
Il direttore della testata specializzata “Cinema&Video”, Paolo Di Maira, ha segnalato ironicamente come nel video promozionale dell’iniziativa fossero stati proposte più immagini di film stranieri girati in Italia che di film italiani da esportare all’estero.

Nessuno ha osservato come l’iniziativa presentata non preveda alcun collegamento con altri settori importanti dell’industria culturale italiana: la fiction televisiva, la musica, lo spettacolo dal vivo… Da non crederci. Ancora una volta, interventi occasionali, sporadici, effimeri. Nessuna autentica strategia di medio-lungo periodo. E… briciole.

Conclusivamente, comunque, un’iniziativa commendevole (“meglio poco che niente”, à la Catalano), ma – ribadiamo – la classica goccia nell’oceano.

Di ben altro (strategie e risorse: semplicemente di una politica culturale!) ha necessità il sistema culturale italiano, se si vuole ragionare seriamente di marketing internazionale delle industrie nazionali dell’immaginario.

Temiamo che interventi minimi e sporadici come questi possano paradossalmente liberare la coscienza governativa dal peso delle responsabilità che deve assumersi, nell’abbandonare il sistema culturale italiano a se stesso. Si sente l’eco della canzoncina che spesso siamo costretti ad evocare: “tutto va ben Madama la Marchesa”

 

Articolo redatto da Angelo Zaccone Teodosi ed Elena D’Alessandri
rispettivamente 
Presidente e Responsabile di Ricerca dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale (www.isicult.it)

 

taftersaloonIl banco non è male.
Legno grezzo, di quelli che ti fanno i gomiti e non solo, se non stai bene attento a come ti muovi.
Del resto, il saloon deve portare con lui una certa quale eredità in cicatrici.
L’esperienza è importante: da qualche parte lungo la Frontiera si dice che sia il proiettile di ogni colpo andato a segno.
Ma non siamo qui per parlare delle lunghe cavalcate in equilibrio sul confine, quanto di quello che siete venuti a bere: che sia per ristorarvi o per dimenticare, poco importa.
Questo vecchio cowboy sarà sempre qui, pronto a riempirvi i bicchieri e sempre in attesa del prossimo brindisi.

 

 

 

 

 

 

 

this-is-40Questi sono i 40
di Judd Apatow

Da gustare come: una pina colada, o un tequila sunrise. Una bella goduria estiva, insomma.

Se avete bisogno di: una commedia dolceamara che mostra i lati positivi e non dell’avvicinarsi della decina più temuta.

Di cosa si tratta: Apatow, re della commedia sguaiata made in USA, torna sugli schermi con quello che è stato considerato lo spin off di Molto incinta, titolo che ebbe un grandissimo successo qualche anno fa.
Una coppia alle soglie del fatidico quarantesimo compleanno si trova a dover affrontare una crisi del rapporto legata ad un’altra, ben più radicata, stretta attorno alla paura di invecchiare e di doversi responsabilizzare sempre di più anche e soprattutto a scapito della libertà individuale.
Un piacevole divertissement che coinvolgerà senza dubbio tutti gli spettatori che in quell’età si trovano a dover cercare una propria strada.

 

 

pacific-rimPacific Rim
di Guillermo Del Toro

Da gustare come: B52, Zombie o qualcosa che stenda dopo averci regalato una notte da sballo.

Se avete bisogno di: il ritorno del figliol prodigo del fantasy spagnolo alle prese con il sogno di un’intera generazione di bambini cresciuti negli anni ottanta.

Di cosa si tratta: non ci sarebbe bisogno di alcuna presentazione, per Del Toro – autore dello splendido Il labirinto del fauno – e questo film.
Dovrebbero bastarvi due parole magiche: robottoni e mostri giunti a distruggere il mondo.
Personalmente, corro subito con il pensiero alle serie animate che mi facevano impazzire da bambino, da Daitarn a Mazinga, con la differenza che in questo caso ci troviamo di fronte ad un lavoro di regia ed effetti da paura. Ed il rischio che si riveli il cult dell’estate è enorme.

 

 

 

 

 

Uomini-di-parolaUomini di parola
di Fischer Stevens

Da gustare come: un bourbon, o un whisky di malto d’annata. Liscio.

Se avete bisogno di: tre vecchi “partners in crime” si ritrovano per una notte da leoni ed il confronto finale con il boss che li vorrebbe concime per i vermi da fin troppo tempo.

Di cosa si tratta: un film old school sull’amicizia virile portato sulle spalle da tre giganti della recitazione come Al Pacino, Christopher Walken ed Alan Arkin tutto battute al fulmicotone, testosterone, autoironia alla Gran Torino e qualche pallottola, che non fa mai male.
Malinconia e palle d’acciaio per un film onesto e diretto di quelli che al Saloon trovano sempre un secondo giro offerto.

 

 

 

 

 

pain-and-gainPain&Gain – Muscoli e denaro
di Michael Bay

Da gustare come: Jack e Coca, magari in un bar sulla spiaggia.

Se avete bisogno di: una tamarrata in pieno stile stelle e strisce perfetta per la stagione estiva.

Di cosa si tratta: Michael Bay, da Bad boys a Transformers, è uno dei re indiscussi della grana grossa made in USA, un tamarro fatto e finito che spesso e volentieri sta al Cinema quanto le bottiglie del discount ad una vera e soddisfacente bevuta.
In questo caso, e considerato il periodo, però, questo heist movie decisamente autoironico giocato sui pompatissimi muscoli di The Rock e sulla presenza di Marc Wahlberg risulta praticamente perfetto per non impegnare troppo il cervello e farsi quattro risate per tenere lontano una sera in più il pensiero del ritorno al lavoro alla fine delle ferie.

 

 

 

 

facciamola-finitaFacciamola finita
di Seth Rogen e Evan Goldberg

Da gustare come: una serie infinita di shot rum e pera.

Se avete bisogno di: una notte da leoni da raccontare una volta tornati a casa come l’avventura dell’estate.

Di cosa si tratta: da un corto dei due attori – in questo caso registi – Seth Rogen ed Evan Goldberg, una fracassona commedia sulla scia di Shaun of the dead e Hot fuzz all’interno della quale un gruppo di amici hollywoodiani – che interpretano se stessi – si trovano costretti a fronteggiare la minaccia della fine del mondo nientemeno che da una festa a casa di James Franco.
Le prime recensioni ne parlano come del buddy movie dell’anno, e l’hype è di quelli delle grandi occasioni.
Quindi in alto i bicchieri e buttiamoci a capofitto: e pazienza se il “day after” porterà solo ricordi confusi e l’hangover.

 

TITOLODoppiami! L’altra voce degli attoriDoppiami

 

 

COSEQuando, per la prima volta, sono stati doppiati in italiano film stranieri? Sapevate che per rendere il suono della voce del doppiatore attutito, come se provenisse da un’altra stanza, si pone un cartoncino davanti alla bocca? Come si arriva alla scelta della voce più adatta per un determinato volto, attore, ruolo? Cos’è il doppiaggese? Questi sono solo alcuni degli interrogativi a cui si può trovare risposta leggendo Doppiami!, un saggio sul mondo del doppiaggio, sulla sua storia e sul suo ruolo attuale all’interno del cinema, specialmente italiano. Il doppiaggio è, infatti, una pratica ancora fondamentale nel panorama della distribuzione cinematografica, assolutamente tecnica, precisa e affascinante (se congegnata con metodo e talento). Questo testo aiuta a scoprirne le tecniche, i segreti, le curiosità.

 

 

COMEUna prima parte introduttiva è riservata ad una breve storia sulla nascita del cinema, del sonoro e, quindi, del doppiaggio. Seguono una serie di capitoli molto interessanti sui ruoli coinvolti nella pratica del doppiaggio, tutti ugualmente necessari e indispensabili (contrariamente a quanto si pensi la riuscita del doppiaggio è un gioco di squadra): dal traduttore al direttore, dall’adattatore alla segretaria di doppiaggio, dal fonico al sincronizzatore. L’Appendice, molto piacevole e istruttiva, contiene gli ipse dixit sul doppiaggio, positivi e negativi, pronunciati da famosi registi, attori e doppiatori. La sezione Contenuti speciali riporta, infine, un’intervista illuminante, a cura di Milena Djokovic, con Alessandro Serafini, direttore e fondatore di Studio Enterprise – scuola toscana di recitazione, doppiaggio, teatro – sulle gioie e i dolori di un mestiere difficilissimo.

 

 

proScritto da uno dei registi e direttori di doppiaggio più esperti del panorama italiano, Giuseppe Ferrara, Doppiami! è un volume snello ma completo, che tratta con fluidità, verve e onestà tutti gli aspetti del mondo del doppiaggio, incluse contraddizioni e critiche.

 

 

CONTROL’unico contro è molto generico e riguarda ogni manuale su attività pratiche che si rispetti: per una totale e completa comprensione di ogni parte del testo, si dovrebbe prevedere una parte di messa in atto o di visione in presa diretta di quello che si è potuto solo leggere.

 

 

SEGNI PARTICOLARIPer ovviare, in parte, al problema di cui sopra, il volume riporta alcune pagine di un vero e proprio copione di doppiaggio e di un piano di lavoro di una segretaria di doppiaggio. Nella sezione Come diventare doppiatori offre dei consigli pratici e realistici a chi voglia intraprendere questa carriera.

 

 

CONSIGLIATO AGli appassionati di cinema e di doppiaggio; tutti quelli che si sono sempre chiesti come funzioni il doppiaggio, i curiosi in generale.

 

 

Doppiami! L’altra voce dINFO UTILIegli attori di Giuseppe Ferrara, effequ Editore 2013, 12 Euro.

 

 

Leggi anche l’intervista a Riccardo Rossi, doppiatore di Johnny Depp, Tom Cruise, Adam Sandler, Matt Damon e molti altri, che Tafter ha realizzato.

mostra fotografica location 1
Il fascino del cinema, degli interpreti e delle attrici, nella cornice incantevole di un’isola del Golfo di Napoli. Il focus sui direttori della fotografia, gli scenografi e i registi, che hanno reso indimenticabili, attraverso le loro scelte artistiche, alcune location nazionali e internazionali, valorizzandone l’indentità e l’immagine.

L’Ischia Film Festival, festival cinematografico internazionale, è questo e molto di più. I nostri inviati speciali, Fabrizio Barbato e Carla Di Martino, hanno raccolto per noi degli scatti direttamente da Ischia, per documentare questo imperdibile evento.

Le foto sono di Carla Di Martino e Fabrizio Barbato

taftersaloon

Il banco non è male.
Legno grezzo, di quelli che ti fanno i gomiti e non solo, se non stai bene attento a come ti muovi.
Del resto, il saloon deve portare con lui una certa quale eredità in cicatrici.
L’esperienza è importante: da qualche parte lungo la Frontiera si dice che sia il proiettile di ogni colpo andato a segno.
Ma non siamo qui per parlare delle lunghe cavalcate in equilibrio sul confine, quanto di quello che siete venuti a bere: che sia per ristorarvi o per dimenticare, poco importa.
Questo vecchio cowboy sarà sempre qui, pronto a riempirvi i bicchieri e sempre in attesa del prossimo brindisi.

 

 

 

 

 

 

carax

Holy motors
di Leos Carax

Da gustare come: pastis, con o senza acqua a seconda dei gusti

Se avete bisogno di: un viaggio cinematografico attraverso i generi e l’anima come non se ne vedevano dai tempi di Enter the void

Di cosa si tratta: Leos Carax, autore francese noto principalmente per “Gli amanti del Pont Neuf”, torna in sala con quello che è stato uno dei titoli più importanti della scorsa stagione, un vero e proprio trip interpretato straordinariamente da Denis Lavant che tocca realtà e fantasia, fede e tecnica, amore e dolore.
Fortunatamente anche i distributori italiani, pur se in ritardo, hanno deciso di portarlo nelle nostre sale: perchè questo sfaccettato ballo dai differenti ritmi è una delle esperienze più totalizzanti che la settima arte abbia regalato ai suoi spettatori negli ultimi anni.

 

 

 

 

 

sugarmanSugar Man
di Malik Bendjelloul

Da gustare come: Jack Daniels e Coca.

Se avete bisogno di: grande musica, radici di strada, un viaggio nel cuore degli States.

Di cosa si tratta: lo sconosciuto e leggendario rocker Sixto Rodriguez, sconosciuto ai più, sparito dalle scene negli anni settanta, è al centro della ricerca di due giovani fan desiderosi di scoprire quale possa essere stato il suo destino.
La ricerca di quel personaggio sfuggente con due album leggendari all’attivo conduce i due in Sudafrica, dove li aspettano sorprendenti rivelazioni.

 

 

 

 

 

startrekdarknessStar Trek – Into darkness
di J. J. Abrams

Da gustare come: uno Stinger che punga dritto nel cervello.

Se avete bisogno di: la fantascienza classica rivisitata secondo il genio di uno dei registi più promettenti degli USA

Di cosa si tratta: secondo capitolo della saga dedicata ai personaggi della serie classica di Star Trek rivisitati dalla mano di J. J. Abrams, autore di serial come Alias e Lost e di pellicole di grande impatto emotivo e visivo come Super 8.
Il tentativo del vulcanico J. J. è quello di unire l’intrattenimento e gli effetti ed un approfondimento dei personaggi simile all’approccio che nei fumetti ebbe la Marvel negli anni settanta, quando nel mondo delle “nuvole parlanti” venne introdotto l’innovativo concetto del “supereroe con superproblemi”.

 

 

 

 

stokerStoker
di Park Chan Wook

Da gustare come: un vodka tonic.

Se avete bisogno di: un dramma interiore che scavi tra i fantasmi che nascondiamo nel cuore.

Di cosa si tratta: dopo più di due anni di silenzio torna alla ribalta il leggendario regista della trilogia della vendetta che tanto scalpore fece qualche anno fa, Park Chan Wook.
Per il suo primo film americano il cineasta coreano si appoggia sull’interpretazione come di consueto vibrante della giovane e bravissima Mia Wasikowska, che interpreta una giovane ragazza rimasta orfana del padre alle prese con la progressiva scoperta del fratello di quest’ultimo, giunto d’improvviso nella vita sua e della madre.
Un gradito ritorno per uno degli autori più importanti del cinema asiatico.

Uscirà nelle sale il prossimo 30 maggio, il film “Slow Food Story”, nel quale il regista Stefano Sardo ripercorre la storia di Carlo Petrini, inventore e fondatore di Slow Food. La pellicola, presentata all’ultimo festival di Berlino, racconta di un percorso di cambiamento e di responsabilità sociale, nato in un piccolo paesino del Piemonte, Bra, dalla passione per il buon vino e per il buon cibo di un gruppo di amici, tra i quali spicca il carismatico Carlo Petrini.

Negli anni ’80, due eventi segnano quella che potremmo definire la storia dell’alimentazione italiana ed europea: da un lato, lo scandalo del vino al metanolo, prima di una serie di crisi che hanno visto il concetto di sicurezza alimentare dilatarsi, per essere inteso non più solo nel senso di sicurezza degli approvvigionamenti, ma anche come sicurezza dell’alimento per il consumatore; dall’altro, la comparsa dei fast food, che con l’avvento della globalizzazione si sono diffusi a macchia d’olio e che ne possono essere considerati veri e propri emblemi.

Queste le premesse e il contesto che hanno spinto Petrini a fondare l’associazione “Arcigola”, alla quale a distanza di tre anni, nel 1986, farà seguito la fondazione del movimento internazionale “Slow Food”: slow in antitesi al fast, filiera breve in antitesi a filiera lunga, territorio e valori in risposta alla standardizzazione degli alimenti e dei luoghi di consumo. Una “rivoluzione culturale e gastronomica”, così come significativamente l’ha definita il regista della pellicola, perché il cibo è cultura, è tradizione, è simbolo. Un percorso e un invito al cambiamento che va avanti da 25 anni e che da questo piccolo paesino del nord Italia si è diffuso in ben 150 Paesi, formando una fitta rete che oggi conta oltre 100.000 iscritti e 2.000 comunità, impegnate a produrre alimenti le cui caratteristiche fondamentali sono “buono, pulito e giusto”. Questo è, in effetti, il motto di Slow Food, che come si legge nel sito istituzionale, al concetto di bontà, intesa come qualità organolettica – colore, odore, sapore – dell’alimento, associa elementi afferenti i legami affettivi, identitari e, dunque, culturali, il rispetto dell’ambiente e la giustizia sociale, tanto in riferimento ai produttori, quanto in riferimento ai consumatori.

Una pellicola celebrativa che fa da corona al forte e costante impegno dell’associazione non-profit, nella formazione, nella tutela della biodiversità e delle comunità locali. Si pensi al recente accordo di collaborazione che è stato stipulato tra la Fao e Slow Food per aiutare i piccoli agricoltori dei paesi più poveri, assicurando loro più cibo e, al tempo stesso, valorizzando i prodotti e le ricette locali, in modo tale da immetterli sul mercato a sostegno dell’economia. Attività e azioni che denotano un forte impegno per il territorio e che coinvolgono il territorio stesso, alla riscoperta di un’alimentazione e di uno stile di vita più sostenibile.

 

Continua a leggere su CSR – Culture in Social Responsibility

Intervista a Valeria Golino che parla del suo esordio come regista con il suo Miele, selezionato al Certain Regard del 66mo Festival di Cannes.

Che cosa l’ha spinta a scegliere questa storia per il suo primo film da regista?
Ho letto il libro “A nome tuo” di Mauro Covacich tre anni fa. L’ho trovato un libro fulminante, molto contemporaneo, doloroso e provocatorio, con un personaggio femminile inedito nel panorama della letteratura e del cinema in Italia. Ne ho parlato con Viola Prestieri e Riccardo Scamarcio (che hanno prodotto il film per Buena Onda, ndr) e ho chiesto di acquistarne i diritti. Inizialmente avevamo paura, non eravamo sicuri di affidare a me una storia così difficile come primo film.

Che cosa temeva?
Temevo, per inesperienza, di non riuscire a raccontare in modo appropriato il tema del suicidio assistito, che è diverso dall’eutanasia. Non ho mai pensato che l’argomento fosse troppo ostico in sé, anzi, è proprio questa contraddizione tra vita e morte, luce e buio, che mi ha spinto a fare questo film. Temevo piuttosto che non ce lo facessero fare.

Lei è un’attrice affermata. Il produttore del film, Riccardo Scamarcio, lo è altrettanto. Eppure non comparite davanti alla macchina da presa. Come avete superato la tentazione, così comune, di essere anche interpreti del proprio film?
Volevo che il personaggio femminile non avesse più di trent’anni, quindi più giovane di me. Una donna più matura avrebbe avuto un bagaglio diverso. Poi non volevo fare il mio primo film con me stessa, ero più curiosa di filmare qualcun altro. Non escludo che in futuro possa succedere. Quanto a Riccardo, avrebbe potuto interpretare uno dei due ruoli maschili, ma semplicemente non ci è sembrato il caso.

Qual è la posizione del film in merito al suicidio assistito?
Il mio film non vuole essere né provocatorio né contro, non ha una posizione definitiva, cerca di porsi delle domande. E’ un argomento tabù in Italia, ma più per le istituzioni che per le persone. Personalmente, penso che ogni essere umano abbia il diritto di decidere della propria vita, del proprio corpo e anche della propria fine. Ma ognuno ha la propria storia personale, e quello che volevo fare era proprio addentrarmi in questi dubbi. Irene si fa pagare per fare quello che fa, e ci tenevo che fosse così, perché per lei è un lavoro, non volevo che fosse una scelta ideologica.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Ncvgarr03VY?rel=0]

Nel suo film, in realtà, non si vede morire nessuno. Come mai questa scelta? E nell’epilogo del personaggio interpretato da Carlo Cecchi, si può vedere un omaggio a Mario Monicelli?
Mentre stavamo scrivendo abbiamo avuto notizia della morte di Monicelli, e del come è avvenuta, e sicuramente ha permeato la scrittura. Nel film non vediamo morire nessuno perché esteticamente non mi piace. Volevo che si sentisse tutto il peso e la tensione di questo evento, sacro e grave, ma senza lasciare tracce.

Qual è stato il suo metodo di regia, per un film così coerente anche visivamente?
Mi piacerebbe avere un metodo, ma ancora non ne ho. Ho fatto fotografie, ho preso appunti. Volevo che questo film fosse libero e formale allo stesso tempo, che le inquadrature avessero una serietà, senza fronzoli, ma all’interno di questo volevo anche qualche incidente di luce, uno spostamento di camera. Molte delle cose più belle esteticamente le ho dovute lasciare fuori, perché il film ha un tema tale che non sopportava il superfluo.

La cinepresa segue Jasmine Trinca molto da vicino, quasi come una telecamera nascosta. Quali sono i suoi riferimenti cinematografici?
Ho imparato da tutti i registi con cui ho lavorato. Mi piacciono i primi piani esagerati degli attori. Con Jasmine, più la filmavo e più avevo voglia di avvicinarmi e di guardarla nei particolari, il viso, la schiena, la nuca, non perché fosse necessario alla storia, ma perché più ti avvicini e più lei diventa bella.

Che cosa significa per lei essere a Cannes?
Ho sempre desiderato andare a Cannes e ho sempre pensato al Certain Regard per questo film. L’idea di andare lì tutti ben vestiti mi mette allegria. L’ho fatto altre volte, in realtà ti diverti sempre meno di quello che credi, ma l’idea di partecipare ti dà un senso di appartenenza alla cinematografia mondiale. Mi inorgoglisce.

 

L’articolo è tratto da Cineuropa. L’autrice è Vittoria Scarpa

Il banco non è male.
Legno grezzo, di quelli che ti fanno i gomiti e non solo, se non stai bene attento a come ti muovi.
Del resto, il saloon deve portare con lui una certa quale eredità in cicatrici.
L’esperienza è importante: da qualche parte lungo la Frontiera si dice che sia il proiettile di ogni colpo andato a segno.
Ma non siamo qui per parlare delle lunghe cavalcate in equilibrio sul confine, quanto di quello che siete venuti a bere: che sia per ristorarvi o per dimenticare, poco importa.
Questo vecchio cowboy sarà sempre qui, pronto a riempirvi i bicchieri e sempre in attesa del prossimo brindisi.

 

 

 

 

 

 

L’uomo dai pugni di ferro di RZA

Se avete bisogno di: una tamarrata pulp in salsa jappo.

Da gustare come: Sakè, con una spruzzata di bourbon.

Di cosa si tratta: RZA, nome storico dell’hip hop, produttore, musicista e attore, fa il suo esordio dietro la macchina da presa mescolando i film di arti marziali dell’epoca d’oro di Bruce Lee, il gusto estetico dei recenti epigoni di Hero ed il gusto per il sangue e lo spettacolo sopra le righe di Tarantino.

Il risultato è un cocktail divertentissimo e ben congeniato in cui si mescolano l’aura crepuscolare degli eroi solitari e wrestlers pompati a dismisura, scontri da cartone animato ed una malinconia di fondo da romanticismo sfrenato: totalmente imperfetto, eppure assolutamente irresistibile.

 

 

 

No – I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larrain

Se avete bisogno di: una lezione di Storia che possa ricordare l’importanza della Libertà di pensiero ed azione politica.

Da gustare come: Pisco, liquore nazionale cileno.

Di cosa si tratta: il racconto del grande referendum che, nel pieno degli anni ottanta, mise la popolazione del Cile di fronte alla possibilità di porre legalmente fine alla dittatura di Pinochet, salito al potere grazie al colpo di stato che costò la vita all’indimenticato Presidente Allende.

La campagna per il No, sostenuta dalla sinistra e dalla popolazione stanca degli abusi, fu orchestrata da un giovane pubblicitario che con la sola forza delle idee mostro che un’altra rivoluzione è possibile: una lezione vintage ed emozionante che in periodi politicamente incerti come questo può sempre dare speranza.

 

 

 

Il grande Gatsby di Baz Luhrmann

Se avete bisogno di: un classico che non finisce mai di stupire.

Da gustare come: uno champagne spumeggiante.

Di cosa si tratta: la rivisitazione nella grandiosa chiave di Baz Luhrmann del mito di uno dei romanzi più importanti della letteratura a stelle e strisce, una storia d’amore tragica sullo sfondo della New York degli anni venti intrisa di jazz e sogni infranti.

Il giovane campagnolo Nick viene introdotto all’alta società dall’indimenticabile Gatsby, personaggio destinato a cambiare la vita del ragazzo: un cast all star per il film d’apertura del Festival di Cannes, tra i più attesi dell’intera stagione.

 

 

 

La grande bellezza di Paolo Sorrentino

Se avete bisogno di: pensare che il Cinema italiano non sia finito come troppo spesso pare farci credere.

Da gustare come: un Velletri intenso.

Di cosa si tratta: Sorrentino, alle spalle l’esperienza americana di This must be the place, torna nel Bel Paese girando interamente nella Capitale ed affidandosi ancora una volta al volto che è stato il simbolo del suo Cinema fino ad oggi, Tony Servillo.

Un viaggio disincantato e dolente all’interno di una società in disfacimento che ricorda molto le rovine dell’antico Impero, per un’estate abbandonata alle onde di troppo gin tonic ed una fotografia che induce ad un’anestesia perenne, o alla voglia di scappare da questa bellezza ormai decadente persa da troppo tempo in uno specchio deformato e deformante.

 

 

Only god forgives di Nicolas Winding Refn

Se avete bisogno di: quello che potrebbe essere il film dell’anno.

Da gustare come: un Mai Tai ghiacciato.

Di cosa si tratta: nel cuore di una Bangkok fotografata con gli stessi occhi che hanno visto assurgere a cult assoluto Drive, un club legato a doppio filo alla malavita e alla thai boxe vede risolversi un colpo dopo l’altro le questioni sospese tra Julian, che ne gestisce gli affari ed appartiene più al mondo orientale che a quello britannico, e le persone responsabili della morte di suo fratello.

Un trailer che è già da brividi e l’attesa dei fan e dei cinefili ormai indissolubilmente legati a quella che è una delle coppie più promettenti del Cinema attuale: Refn e Gosling.

Colpi proibiti, botte da action ed una tensione crescente da thriller del cuore sono gli ingredienti principali di quello che sarà senza dubbio uno dei film più influenti ed importanti della stagione, e che punterà – e non poco – a portarsi a casa la Palma d’oro.

 

Per tutti gli altri film, da mandar giù fino all’ultima goccia, mi trovate anche sul blog White Russian

 

Il banco non è male.
Legno grezzo, di quelli che ti fanno i gomiti e non solo, se non stai bene attento a come ti muovi.
Del resto, il saloon deve portare con lui una certa quale eredità in cicatrici.
L’esperienza è importante: da qualche parte lungo la Frontiera si dice che sia il proiettile di ogni colpo andato a segno.
Ma non siamo qui per parlare delle lunghe cavalcate in equilibrio sul confine, quanto di quello che siete venuti a bere: che sia per ristorarvi o per dimenticare, poco importa.
Questo vecchio cowboy sarà sempre qui, pronto a riempirvi i bicchieri e sempre in attesa del prossimo brindisi.

 

 

 

 

 

 


Jimmy Bobo – Bullet to the head

di Walter Hill

Se avete bisogno di: una lezione di Cinema tamarro e old school come ai bei tempi degli eighties.

Da gustare come: Jack Daniels liscio.

Di cosa si tratta: Walter Hill, autore di supercult come I guerrieri della notte, torna alla ribalta con un action di quelli che non se ne fanno più, ripescando uno Stallone in grandissimo spolvero per affiancarlo alla nascente star Jason Momoa e a volti già noti come Christian Slater, confezionando una storia di corruzione e morte ambientata in Louisiana nel pieno rispetto delle regole dei vecchi polizieschi che hanno fatto la fortuna della generazione dei vecchi cowboys come il sottoscritto.
Per un amarcord con stile – e botte non risparmiate -.

 

 

 

 

 

Attacco al potere – Olympus has fallen
di Antoine Fuqua

Se avete bisogno di: un bel blockbuster d’autore fracassone.

Da gustare come: un B52, mischione stracciabudella.

Di cosa si tratta: pellicola d’azione sulla scia delle fobie USA figlie dell’amministrazione Bush e dei tempi di 24 diretta dal regista di King Arthur e Training day, una di quelle proposte di grana grossa buone per mettere d’accordo il pubblico occasionale e quello di nicchia in cerca di uno svago ben confezionato.
Cast di prim’ordine e trama che mescola terrorismo e complotti, esplosioni e pose da macho tipiche della produzione tamarra di cui sopra: nel deserto – o quasi – che sono stati gli ultimi due mesi dopo l’ottimo inizio d’anno, direi che non dovrebbe essere doloroso farsi andare bene anche cose come questa.

 

 

 

Kiki – Consegne a domicilio
di Hayao Miyazaki

Se avete bisogno di: un film d’animazione in grado di conquistare tutta la famiglia. Ma proprio tutta.

Da gustare come: un buon sakè.

Di cosa si tratta: per tornare al discorso di cui sopra, se il sottoscritto è costretto a consigliare una riedizione per la sala di un film – bellissimo – datato 1989 qualcosa nella recente distribuzione non deve proprio funzionare a dovere.
Perlomeno avrete l’occasione di rispolverare una pellicola del Maestro Miyazaki, ammirato anche dal grande Kurosawa nonchè nome di assoluto riferimento per l’animazione non solo giapponese, ma mondiale.
Una storia divertente, pulita ed appassionante in grado di conquistare a qualsiasi latitudine ed età, ed una magnifica avventura.

 

 

 

Iron man 3
di Shane Black

Se avete bisogno di: una baracconata tra il fumetto ed il trash, perchè non avete avuto abbastanza delle proposte già segnalate.

Da gustare come: Jim Beam e Coca.

Di cosa si tratta: terzo capitolo delle avventure dell’uomo d’acciaio di casa Marvel nonchè paladino degli Avengers, che affida il suo destino a Shane Black – regista di Kiss kiss bang bang e sceneggiatore della serie di Arma letale – per riprendersi dallo scivolone che fu il secondo capitolo, delusione rispetto all’ottimo primo.
Robert Downey Jr sarà sempre una garanzia, la trama ripesca saghe che furono storiche per gli albi stampati, gli effetti promettono di essere sorprendenti: solo Iron man, a questo punto, può essere nemico di Iron man.

 

 

 

 

Le streghe di Salem
di Rob Zombie

Se avete bisogno di: un horror nella piena tradizione del genere che strizza l’occhio al pulp e agli anni settanta.

Da gustare come: qualcosa di tosto e liscio. Mezcal o assenzio, direi.

Di cosa si tratta: Rob Zombie, musicista, regista e produttore, autore degli ottimi La casa dei 1000 corpi e La casa del diavolo ma anche dei decisamente meno interessanti Halloween e Halloween 2, torna sul grande schermo con una pellicola visionaria e disturbante che riporta l’attenzione sulla città di Salem, resa nota qualche secolo fa a causa dei roghi che consegnarono alla “giustizia” le streghe.
In un’ambientazione attuale, il vecchio Rob torna ad indagare sull’animo umano e sugli eccessi di violenza che avevano caratterizzato il fulcro dei suoi primi passi dietro la macchina da presa.

 

 

 

 

Per tutti gli altri film, da mandar giù fino all’ultima goccia, mi trovate anche sul blog White Russian

GLI AMANTI PASSEGGERI

di Pedro Almodòvar

Cast: Antonio del La Torre, Hugo Silva, Miguel Angel Silvestre, Laya Martì, Javier Càmara

Data di uscita: 22 marzo 2013

Per chi si sia sempre chiesto quanto fosse più piacevole e divertente viaggiare in business class piuttosto che in economy, arriva la conferma da Amanti Passeggeri, nuova fatica di Pedro Almodovar interamente ambientata sopra un volo della immaginaria compagnia Peninsula, che da Madrid si sta dirigendo, o almeno vorrebbe farlo, in direzione di Città del Messico. Per un guasto meccanico, il velivolo è però costretto a girare intorno alla pista aspettando l’ok per un atterraggio di emergenza. Nel mentre l’equipaggio dell’aereo si prodiga per non scatenare il panico a bordo. Per i passeggeri in economica viene scelto un potente anestetico che li addormenta per tutto il viaggio, mentre per quelli in business (una coppia di tamarri, un finanziere corrotto, un serial killer, una consumata maitresse, una sensitiva vergine, un dongiovanni pentito) si scatena, grazie anche un abbondante razione di Agua de Valencia addizionata con mescalina, un tourbillon di balletti, rapporti omo ed eterosessuali e confessioni a cuore aperto, fino ad un atterraggio di fortuna in un aeroporto fantasma.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=a30iALmWHng]

Abbandonando i toni del melodramma più cupo degli ultimi film, il regista castigliano ritorna al tono grottesco e folcloristico dei suoi primi lavori, attraverso una commedia catartica di impostazione teatrale con evidenti influssi estetici anni ‘80, che lascia muovere, o meglio parlare, all’interno di un simbolico e angusto recinto, variegati personaggi, ciascuno con un passato o un presente da rimuovere, cancellando progressivamente barriere sociali e inibizioni fino a raggiungere un collettivo happy end. In una pellicola che nonostante tutto non strappa grandi risate, degno di menzione il gaio balletto degli stewards sulle note di “I’m so excited”, di pregevole senso coreografico. Per gli amanti del “mal comune mezzo gaudio”, infine da segnalare alcuni, neanche troppo velati, riferimenti a recenti scandali politico-finanziari in terra iberica.

 

 

Il banco non è male.
Legno grezzo, di quelli che ti fanno i gomiti e non solo, se non stai bene attento a come ti muovi.
Del resto, il saloon deve portare con lui una certa quale eredità in cicatrici.
L’esperienza è importante: da qualche parte lungo la Frontiera si dice che sia il proiettile di ogni colpo andato a segno.
Ma non siamo qui per parlare delle lunghe cavalcate in equilibrio sul confine, quanto di quello che siete venuti a bere: che sia per ristorarvi o per dimenticare, poco importa.
Questo vecchio cowboy sarà sempre qui, pronto a riempirvi i bicchieri e sempre in attesa del prossimo brindisi.

 

 

 

 

 

 

 

Il lato positivo
di David O. Russell

Se avete bisogno di: una commedia dolceamara in stile Sundance che è una meravigliosa storia di riscatto emotivo.
Da gustare come: un mint julep, aggressivo al primo sorso ma pronto a cullarvi nello zucchero di canna.
Di cosa si tratta: Pat, giovane fresco di traumatico divorzio e otto mesi di istituto di igiene mentale, torna a casa dai genitori per cercare di riprendere il controllo della sua vita. Un giorno conosce Tiffany, una giovane donna che ha da poco perso il marito poliziotto: tra i due nasce un complesso legame fatto di compromessi, che porterà entrambi a trovare un nuovo punto di partenza per la propria vita.
Scritto alla grande e recitato ancora meglio – Jennifer Lawrence, fresca di Oscar, è splendida e bravissima – è una delle sorprese migliori di questo inizio 2013.

 

 

Sinister
di Scott Derrickson

Se avete bisogno di: un horror che rivisita molti cliché del genere con intelligenza, regalando più di un momento di tensione da manuale.
Da gustare come: un whisky di malto. Possibilmente liscio.
Di cosa si tratta: Ellison Oswalt è uno scrittore specializzato in romanzi inchiesta che ripercorrono le indagini delle autorità fino a ribaltarne gli esiti in cerca di un successo che da troppi anni manca ai suoi lavori. Per poterlo raggiungere di nuovo affitta la casa dove è avvenuto un atroce delitto, ed una famiglia è stata trovata impiccata all’albero del giardino: la figlia minore degli assassinati, però, risulta ancora scomparsa, e Oswalt vorrebbe scoprire che fine può aver fatto.
Le sue indagini, però, porteranno a galla segreti che sarebbe meglio lasciare al silenzio, pena un viaggio all’Inferno tra i più terribili che si possano immaginare.

 

 

Mea maxima culpa – Silenzio nella casa di Dio
di Alex Gibney

Se avete bisogno di: un documentario che è un pugno nello stomaco.
Da gustare come: più che gustare, andrebbe visto con il disgusto dell’hangover peggiore.
Di cosa si tratta: l’autore del premiatissimo “Taxi to the dark side”, che testimoniava le torture subite da presunti terroristi negli USA a seguito della politica bushista del sospetto post-undici settembre, Alex Gibney, porta il pubblico in un viaggio allucinante attraverso il fenomeno della pedofilia all’interno della Chiesa Cattolica, e in special modo negli istituti che ospitano ragazzi sordomuti.
Una terribile ricerca che porta dagli States all’Irlanda, senza dimenticare anche l’Italia, e testimonia una delle piaghe più clamorosamente taciute – o almeno, più taciute di quanto non si dovrebbe – da parte di una delle potenze politiche e non solo religiose mondiali.

 

 

Un giorno devi andare
di Giorgio Diritti

Se avete bisogno di: ritrovare voi stessi.
Da gustare come: Cachaca, con limone e zucchero.
Di cosa si tratta: torna sul grande schermo uno dei più importanti registi dell’attuale panorama italiano, Giorgio Diritti, che dopo lo straordinario “L’uomo che verrà” racconta l’epopea di Augusta, giovane donna alla ricerca di se stessa in viaggio tra le comunità indio e la natura del cuore dell’Amazzonia.
Un film che guarda all’esterno e al paesaggio per giungere al cuore, in una tradizione che passa da Herzog per giungere a Malick, del quale Diritti è, di fatto, l’equivalente nostrano.
Sicuramente un titolo non per tutti, ma che si prospetta già come uno dei più importanti della produzione tricolore di quest’anno.

 

 

Il grande e potente Oz
di Sam Raimi

Se avete bisogno di: fantasia, immaginazione e un pizzico di follia.
Da gustare come: un daiquiri alla frutta, scegliete voi quella che preferite.
Di cosa si tratta: uno dei Maestri dell’horror anni ottanta, Sam Raimi – più di recente salito agli onori della cronaca con la trilogia dedicata a Spider Man -, dirige un prequel del cult planetario “Il mago di Oz”, raccontando l’origine di quello che sarà il fantastico mondo visitato da Dorothy.
Un tripudio di effetti, magia e divertimento come solo il Cinema della meraviglia è in grado di regalare al pubblico, per una pellicola che riuscirà a mettere d’accordo qualsiasi età e tipo di spettatore disposto a farsi travolgere e sradicare da questa quotidiana realtà per esplorare un mondo incantato e stupefacente.

 

Cineuropa intervista Calin Peter Netzer, regista di Child’s Pose
Ha co-firmato la sceneggiatura di Child’s Pose con Razvan Radulescu. Come è nata l’ispirazione?
Abbiamo inizialmente lavorato con Razvan su un progetto completamente differente, ma che già ruotava attorno a una famiglia che aveva dei conflitti. Ma lo abbiamo abbandonato e abbiamo cominciato a discutere delle nostre vite e dei rapporti che abbiamo con ciascun membro delle nostre famiglie. Ci siamo detti che era un soggetto interessante. Quindi, tutto è partito dal mio rapporto con mia madre, che abbiamo poi sviluppato sotto forma di finzione.

Perchè ha scelto di ambientare la storia nella classe privilegiata rumena?
Tra madre e figlio, c’è una relazione quasi patologica. Abbiamo scelto la classe medio-alta perché pensiamo sia molto più probabile trovarvi un comportamento simile che non nelle classi sociali più basse. Child Pose è un dramma psicologico.

Perché questo titolo?
Nel film, c’è una scena in cui la protagonista fa yoga e prende la posizione denominata Child Pose. Volevamo inserirlo nel titolo giacché il personaggio del figlio è descritto come una vittima della relazione.

Questo rapporto madre-figlio è caratteristico della Romania?
Secondo la mia esperienza, la possessività dei genitori nei riguardi dei propri figli è molto forte nei paesi dell’ex blocco dell’Est. Questo fenomeno è più frequente in Romania che non in Germania, ad esempio, dove ho passato quasi dodici anni e dove l’educazione dei bambini è molto diversa.


Quali erano le sue intenzioni riguardo alla messa in scena?

Leggendo la sceneggiatura, si direbbe che sia minimalista, ma volevo tentare un approccio nuovo, non utilizzando lunghe inquadratre fisse, ad esempio. Ho cercato di essere vicino ai personaggi, la cinepresa era quasi incollata a loro. E dato che questa storia mi è molto vicina, volevo trattarla nel modo più obiettivo possibile. Ho cercato in particolare di visualizzare durante le riprese quale sarebbe stato il lavoro di montaggio. Avevamo due cineprese, 126 pagine di sceneggiatura e abbiamo girato 13-14 ore al giorno. Abbiamo poi passato due mesi in sala di montaggio. E’ stato un ottimo esercizio per me imparare a perdere un po’ di controllo.

 

http://cineuropa.org/vd.aspx?t=videoembed&l=it&rdID=231406&did=232009&fmt=flv

L’articolo è tratto da Cineuropa. L’autore è Fabien Lemercier

Cineuropa intervista Emil Christov, regista di The Color of Chameleon

Perché ha scelto The Color of The Chameleon per la sua opera prima?
E’ una storia lunga, ma per farla breve, all’inizio ero il direttore della fotografia del film. Dopo la rinuncia del regista sei mesi prima dell’inizio delle riprese, l’autore del romanzo, anche produttore del film, mi ha chiesto di diventarne il regista e ho accettato. Non ero preparato e non avevo l’ambizione di diventare regista. Ero contento della mia carriera da direttore della fotografia, che conta per ora trenta film. Per sentirmi più a mio agio, ho chiesto la modifica di una quarantina di pagine della sceneggiatura. Il mio amico sceneggiatore ha accettato senza problemi e mi sono lanciato nell’avventura.

Il progetto sembra pertanto molto ambizioso…
Sì, ma non è con questa filosofia che lo abbiamo trattato. Ho chiesto alla mia squadra di divertirsi come bambini con i giocattoli. Il film è un gioco. Non so neanche cosa significhi il successo e non mi interessa. Mi sono lanciato per piacere ed è per questo che tutta questa storia è ironica e che non si prende mai sul serio, anche se gli attori fanno finta di prendersi sul serio. Questo li rende ancora più divertenti.

Che senso hanno le allusioni ricorrenti a Casablanca?
Anche quello è un gioco. La giovane donna mostra il film di Michael Curtiz al protagonista chiedendogli di riassumerne la storia, e quest’ultimo si ricorda soltanto una sottotrama minore, quella di due bulgari che vogliono fuggire negli Stati Uniti. Tutto questo evidenzia il ridicolo di questi personaggi che fanno cose molto serie ma assurde, in un sistema che lo è altrettanto.

Come ha finanziato un film del genere in Bulgaria?
Il film ha ricevuto i soldi del Centro Nazionale del Film in Bulgaria e della televisione nazionale bulgara. E’ stato anche coprodotto da NU Boyana Film Studios, una società americana che ha privatizzato la maggior parte degli stabilimenti riservati al cinema in Bulgaria, compresi gli studios dove abbiamo girato. Il budget si aggira intorno agli 800.000 euro, ma volevo che sembrasse una produzione più cara. E’ sempre un gioco. E’ la mia natura di direttore della fotografia, so comprendere il valore aggiunto del lavoro visivo su un film che dispone di un budget che in Bulgaria è medio, ma invece molto debole in confronto alla produzione internazionale…

Il film ha sollevato critiche politiche legate al suo soggetto?
Non proprio. La sceneggiatura è solo una piattaforma sulla quale giochiamo e comunichiamo il piacere di spiare e l’arte della manipolazione. Ci sono, certo, dei riferimenti politici, ma come i riferimenti alla letteratura, al cinema e alla musica. Lo spettatore deve avere una certa cultura per divertirsi con noi, ma deve prima di tutto capire che il film è un gioco e non un pamphlet politico. Ognuno interpreta il film a seconda della sua cultura. Un amico psichiatra lo ha analizzato alla luce delle sue nozioni di psico-patologia, un altro, filosofo, ci ha visto una riflessione sulle teorie postmoderne della decostruzione, un politologo mi parla di dimostrazione del fallimento totale delle élite durante la caduta del regime comunista. Le interpretazioni sono molto diverse in funzione dei personaggi, e tutti sono divertenti.

Qual è, alla fine, il fondamento storico di questo racconto?
E’ tutto inventato. Non c’è mai stato un dipartimento segreto battezzato S.E.X., ma avrebbe potuto benissimo esserci. Dopo la caduta del comunismo in Bulgaria, c’è stato un periodo di transizione durante il quale persone completamente incompetenti si sono ritrovate dal giorno alla notte nei posti di potere. Questa assurdità e le sue conseguenze sono storicamente reali.

Come si spiega che il film non sia stato ancora venduto a distributori internazionali?
E’ un mistero. Il film uscirà a marzo sugli schermi bulgari. I compratori internazionali hanno amato il film e il pubblico dei festival ne è entusiasta, tutti sottolineano il livello della produzione e la sorpresa di vedere un film del genere provenire dalla Bulgaria. Tuttavia, quando è il momento di comprarlo per una distribuzione internazionale, sembra che il film diventi di colpo troppo parlato e che necessiti di una mole scoraggiante di sottotitoli per gli spettatori internazionali. E’ l’argomento di rifiuto più evocato finora.

http://cineuropa.org/vd.aspx?t=videoembed&l=it&rdID=229015&did=230104&fmt=flv
L’articolo è tratto da Cineuropa

Roma ha dato un caloroso benvenuto alla XII° rassegna del “Florence indian film festival” al cinema Trevi, con l’auspicio che questa iniziativa venga riproposta anche per le edizioni successive.
Il programma romano si è sviluppato in soli tre giorni, sicuramente tralasciando qualche buona pellicola, che ha trovato il suo spazio nei sette giorni di Firenze, ma ha sicuramente offerto al pubblico un concentrato delle migliori proposte del cinema indiano del momento, presentando il vincitore del premio assegnato dal pubblico fiorentino al miglior cortometraggio, al miglior documentario e al miglior lungometraggio. Inoltre ha presentato un kolossal: Gangs of Wasseypur 1 e 2, apprezzato quest’anno all’ultima Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e un film di successo di uno dei più apprezzati registi indiani, Sanjay Leela Bhansali, Black.

Le sponde dei fiumi indiani e italiani non sono poi così lontane, ma sono unite da metri di pellicola. Il regista, Anurag Kashyap, autore del dittico Gangs of Wasseypur 1 e 2, ha subito la fascinazione del cinema vedendo De Sica, ed è forse al cinema italiano che deve il suo realismo, toccante e coinvolgente. Il suo dittico narra, in oltre 5 ore di film, diviso in due parti non necessariamente collegate, la saga di due famiglie, I Singh e i Khan, assetate di vendetta nello scenario dell’India del nord, il Bihar, dalla fine dell’epoca coloniale ai giorni nostri. Indiani in versione per noi inedita: gangster, mafiosi, corrotti, violenti. Ingredienti che ben conosciamo e che, probabilmente, ci fanno sentire, questo “Padrino” indiano, più vicino, anche se a prima vista la poligamia islamica sembra non riguardarci (ma quanti maschi occidentali hanno una sola moglie/compagna, senza dichiarare amanti o storie collaterali?).

Stupefacente il film Chittagong del pluripremiato scienziato della Nasa (Jet Propulsion Laboratory, inserito nel 1999 nella US Space Technology Hall of Fame) Bedabrata Pain, che nel 2008 decide di lasciare la sua carriera di scienziato e di insegnante all’UCLA di Los Angeles, per dedicarsi a quella di regista, cosa di cui artisticamente gli siamo grati. Già alla sua prima opera, con questo film, gli viene assegnato dal pubblico il premio per il miglior lungometraggio della rassegna fiorentina e il Piaggio Foundation Award, consistente in una Vespa ultimo modello. Un’intelligenza creativa come quella di Bredabrata non fa distinzione tra arte e scienza, come lui stesso ha asserito. Il Bengala di Tagore e Ray (il padre di Bedabrata è nato a Dhaka e lui ha studiato a Calcutta) continua a dare i suoi frutti e a trasmettere nel dna dei suoi discendenti i germi di quella cultura antica e moderna, allo stesso tempo, nella sua apertura al futuro e ad ogni germe di creatività. Il cinema era già ‘di casa’ e probabilmente la moglie, Shonali Bose, cineasta, non ha posto ostacoli quando Bedabrata ha deciso di investire tutti i suoi risparmi per la realizzazione di questo lungometraggio.
Nel 1930, Chittagong, una cittadina ad est di Calcutta, è stata protagonista dei primi moti di ribellione contro l’odioso dominio britannico. Non un covo di rivoluzionari ma un gruppetto di studenti minorenni, con tutte le loro incertezze e debolezze, che, guidati dal loro maestro di scuola e di vita, decidono di ribellarsi alla violenza, alla sottomissione, all’ingiustizia. Sarà il loro viaggio di iniziazione il modo migliore di affermare i valori in cui erano stati educati e diventare adulti. Bravissimi gli attori ed il protagonista vero della storia, Jhunku Roy, che abbiamo avuto il privilegio di conoscere, seppure al cinema e per pochi minuti. Alla fine del film è sopravvissuto soltanto un paio di settimane. Ci auguriamo vivamente che questo film pieno di valori, a cui non siamo più abituati travolti dal consumismo ed egoismo, trovi il suo giusto spazio nelle sale cinematografiche e nelle scuole.

The Rat Race, è più di un pluripremiato documentario sui cacciatori di topi a Mumbai, ma è un’analisi della situazione sanitaria, della realtà lavorativa, dei problemi degli studenti universitari, della più ricca città dell’India, dove è concentrato il 95 % della ricchezza nazionale. E’ proprio qui che esplode, in tutte le sue contraddizioni, la moderna metropoli del subcontinente indiano: 14 milioni di abitanti, 84 milioni di topi, quartieri lussuosi e slum, capitale dell’industria cinematografica e disoccupazione, ricchezza sotto i riflettori e, nel buio della notte, il fantasma della peste, l’ultima nel 1994. Nel 2011 sono stati uccisi 348.000 topi. Mooshik (topo sacro), è il veicolo di Ganesh da adorare, ma allo stesso tempo i ratti devono essere uccisi per necessità, infrangendo un precetto religioso. L’intrepida Menacherry, pedina implacabile, con la sua macchina da presa documenta la vita di questi cacciatori di topi. L’idea nasce da un annuncio per pochi (30) posti di lavoro precari, per cacciatori di topi a cui rispondono 2.000 candidati. Ne devi uccidere almeno 30 ogni notte altrimenti sei fuori. L’obiettivo: diventare cacciatori di topi a tempo indeterminato per il Comune e avere dei guanti in dotazione! Sono molti gli studenti universitari che fanno questo lavoro di notte per mantenere i propri studi. Un documentario da proiettare nelle nostre università, forse contribuirebbe alla consapevolezza del diritto irrinunciabile alla cultura e del privilegio che ha chi può dedicarsi ad essa. La regista Miriam paragona un documentario alla tela di un pittore che non è uno studio cinematografico ma la città stessa. La maggiore difficoltà Miriam l’ha incontrata nel voler filmare la discarica dove i ratti vanno a finire, poiché il permesso le è stato negato per ben due volte. Il protagonista del film è un Parsi, Behram Harda (57 anni), che sta andando in pensione, ed il documentario gli offre l’opportunità di mettersi in gioco di fronte alla macchina da presa: avrebbe voluto far parte del mondo del cinema, ma poi si è rassegnato al suo lavoro sicuro. Ora si paragona a James Bond con licenza di uccidere (i ratti)!

Calcutta Taxi è il brillante cortometraggio di Vikram Dasgupta, di circa 20 minuti, premiato a Firenze. Il montaggio è dinamico e creativo, benché si tratti di una storia vera. Il regista non ha dato al suo plot uno sviluppo cronologico, ma ha scelto uno percorso narrativo fatto di flashback, che partono dallo stesso momento della giornata, che sembra ripetersi, ma vista ogni volta dal punto di vista di un protagonista diverso, con sorprendenti colpi di scena. Su un taxi di Calcutta si incrociano tre protagonisti, il loro incontro segnerà le loro vite.

Poco convincente il film di Sanjay Leela Bhansali nonostante la presenza di un mito del cinema indiano: Amitabh Bachchan. Ma non bastano dei bravi attori a fare un buon film. Il rispetto dei canoni del film bollywoodiano, l’assenza di danze e una tematica straziante e commovente, come quella della ragazza sorda e cieca che riesce ad andare all’università fanno sì che Black, l’oscurità in cui vive la protagonista, abbia riscosso forse, in Italia, più lacrime che consensi. Eppure il recupero ad una vita quasi indipendente di una ragazza handicappata e la sua sete di cultura sono temi profondamente seri, sebbene il regista abbia puntato più sulla commozione dello spettatore che sulla problematica. Convince ancor meno quando lui stesso ridicolizza la “diversamente abile” Michelle facendola camminare con un’andatura che ricorda Charlot di Charlie Chaplin: non si capisce perché una ragazza sorda e cieca, senza avere una menomazione alle gambe, debba avere una camminata ridicola.

Arrivederci al prossimo anno, le rive del Tevere aspetteranno ancora l’approdo del cinema indiano.

 

La rassegna Bollywood, tenutasi al Teatro Quirinetta di Roma dal 29 novembre al 9 dicembre, ha riscosso il consenso del pubblico, sempre più numeroso, grazie alla varietà delle sue proposte.

 

DELHI BELLY
Regia di Abhinay Deo
Commedia 102’
India 2011 – v.o. inglese/hindi sottotitoli italiano/inglese

Consigliamo queste due ore, circa, di puro divertimento con il film: “Diarrea indiana” (traduzione italiana del titolo) proiettato venerdì 7 dicembre. Una commedia con un ritmo vivace, un po’ demenziale, un po’ splatter ma estremamente divertente, grazie al montaggio, alla scrittura di Akshat Verma e alla regia di Abhinay Deo, la cui provenienza dalla scuola degli spot pubblicitari ben si rintraccia nel dinamismo del film. Sullo sfondo c’è Delhi e la sua architettura fatiscente, come l’appartamento condiviso da tre amici creativi, ingenui e un po’ cialtroni: il giornalista Tashi (Imran Khan), il fotografo Nitin (Kunaal Roy Kapur) e il disegnatore Arup (Vir Das). La fidanzata incarica Tashi di consegnare un pacchetto, ma un disguido li costringerà a confrontarsi con una banda della malavita locale. La disavventura si trasforma in avventura grazie anche a Menaka (Poorna Jagannathan), collega di Tashi, che irrompe nella trama. A questo punto vi chiederete il perché del titolo?! I rumori intestinali di Nitin, che si è abbuffato di tandoori chicken, accompagnano i rocamboleschi inseguimenti, i travestimenti e le divertenti peripezie del gruppo. Irriverente commedia che ha riscosso consensi da parte del pubblico, ovunque è stata in programmazione: India, Inghilterra, Stati Uniti e Australia, ed anche da parte della critica che ha apprezzato questa nuova proposta bollywoodiana. Difficilmente, come nella migliore tradizione bollywoodiana, riuscirete a dimenticare il motivo: “I heate you, I love you…”

 

 

 

 

DHOBI GHAT (Mumbai Diaries)
Regia di Kiran Rao
Drammatico 100’
India 2010

Colpisce positivamente il debutto della giovane regista Kiran Rao (anche scrittrice di quest’opera), considerato dalla critica un film d’arte, rappresentante del cinema parallelo e non certo catalogabile come film bollywoodiano, mancano i balletti e le danze, nonostante la musica sia raffinata, spaziando oltre l’India con un brano di Ryuichi Sakamoto. Se nel passato di Kiran Rao c’è un’ottima scuola di regia – è stata assistente alla regia di Ashutosh Gowariker e Mira Nair – per il futuro, considerato questo esordio, ci aspettiamo grandi pellicole. Ultimamente Kiran Rao, come accade spesso nel cinema indiano, ha anche prodotto alcune pellicole di successo come Peeepli Live (2010) e Dhobi Ghat (2011). Inoltre è la moglie del protagonista (Arun) di Dhobi Ghat): Aamir Khan, con cui ha prodotto il film.
Nelle strade di Mumbai si incrociano le vite e si stringono rapporti tra quattro persone molto differenti tra loro: Arun, un pittore solitario che forse nasconde qualcosa, Shai, arrivata dagli Stati Uniti, un anno sabbatico per dedicarsi alla sua passione, la fotografia, Munna, giovane lavandaio che coltiva il sogno di diventare un attore di Bollywood, e Yasmin ragazza sconosciuta che ha affidato la sua storia a delle videocassette ritrovate in un appartamento. Il passato riemerge, inserti di video, fotografie, filmati contribuiscono al tessuto di una trama che con i suoi continui flash-back, dolori, solitudini e sentimenti mantiene alta l’attenzione dello spettatore.

 

DELHI-6
Regia di Rakeysh Omprakash Mehra
Drammatico 141’
India 2009

Rakeysh Omprakash Mehra è sceneggiatore, produttore e regista di Delhi-6, presentato a Venezia (fuori concorso) nel 2010, il cui titolo deriva dal codice postale della vecchia Delhi: 1000069. E’ in perfetto stile bollywoodiano, ma con un pregio in più rispetto agli altri dello stesso genere, affronta due tematiche delicate e attuali: i rapporti con gli intoccabili e il conflitto tra hindu e musulmani, scatenato spesso da interessi ‘altri’, e che qui ha come protagonista la “Scimmia Nera”, invenzione usata per spaventare la gente. Tuttavia nel rispetto dei canoni tipici del genere, le cause dei conflitti e problemi non vengono affrontati, ma ci si limita a medicare e guarire il tutto con un ‘happy-end’. E’ un viaggio, seduti in poltrona, nella Delhi più autentica con tutto il suo traffico e i suoi ingorghi: i vicoli di Chandni Chowk, il mercato della Old Delhi, la moschea Jama Masjid, la più grande dell’India e i siparietti come il parto della mucca sacra in mezzo al traffico. La musica, molto bella, è del premio Oscar 2009 per la colonna sonora di The Millionaire: Allahrakka Rahman. Immancabile è la storia d’amore tra i due protagonisti, complicata da un matrimonio combinato. Roshan (Abhishek Bachchan, figlio del più illustre Amitabh) è un giovane americano, di origine indiana, che accompagna la nonna nel suo ultimo viaggio in India per ritrovare la sua casa e la sua famiglia. L’espressione della crisi dei Non Resident Indians è l’anziana, partita con tutta l’intenzione di non tornare, di fronte ai cambiamenti e conflitti religiosi che trova in patria, ha alcune perplessità a rimanere, mentre Roshan è trattenuto dall’amore. Unica perplessità del film è il ritmo, lento con pause lunghe, una durata oltre le due ore che non si giustifica e che gli esordi di Rakeysh Omprakash Mehra, nel mondo degli spot pubblicitari e video musicali, avrebbero potuto evitare. Forse il pubblico romano ha maggiormente apprezzato il suo film-documentari: Bollywood: The Greatest Love Story Ever Told, co-diretto con Jeff Zimbalist.

 

GUZAARISH
Regia di Sanjay Leela Bhansali
Drammatico 126’
India 2010

Se vi piacciono le storie d’amore melodrammatiche e che riescono a strappare le lacrime, questo è il film per voi, anche se l’eutanasia, tematica che accompagna tutto il film, è trattata con garbo e leggerezza. Il regista, Sanjay Leela Bhansali, è radicato nel cinema come più non si potrebbe: sceneggiatore, regista, produttore e compositore, riesce a legittimare l’inserimento nella vita del protagonista tetraplegico persino di un balletto, con lui che sogna di danzare: forse la scena più bella del film. La storia inizia con il suo corpo completamente paralizzato a seguito di una caduta: lui è un ex illusionista e da questo deriva la sua costante ironia come se si confrontasse continuamente con un pubblico invisibile. I momenti di più intensa drammaticità sono alleggeriti da battute o spettacolari balletti e musiche. Lo stile inconfondibile del regista è lo stesso del suo film di maggior successo: Devdas (2002). La coppia di protagonisti è la stessa del kolossal Jodhaa Akbar (2008): Aishwarya Rai Bachchan e Hrithik Roshan. La sensibilità con cui è trattato un tema così serio è diluita però da una storia e una recitazione un po’ stucchevoli.

 

Due rassegne di cinema indiano nel mese di dicembre in Italia: Bollywood al Teatro Quirinetta di Roma dal 29 novembre al 9 dicembre e River to River a Firenze dal 7 al 13 dicembre e poi a Roma al cinema Trevi dal 14 al 16 dicembre.
Ma perché tanto cinema indiano in occidente dove di certo non mancano film, festival e rassegne?

Per capire cosa significa il cinema per gli indiani, basterebbe fare l’esperienza di vedere un film in una sala indiana, dove lo spettatore non è passivo ma interagisce con il film: la gente canta perché già conosce le canzoni dei film trasmesse in anteprima alla radio o in televisione, piange alle loro storie, recita le battute più famose. In alcune zone remote del subcontinente il cinema, proiettato anche su un telo con il pubblico seduto a gambe incrociate a terra, è stato una fonte di informazione, di rappresentazione della realtà o dei sogni della gente. L’India può vantare dai 13 ai 15 milioni di spettatori al giorno e una produzione annua di circa 1.000 film, superiore a quella americana. Inoltre sarebbe più corretto parlare di cinematografie indiane, in quanto l’India è una repubblica federale con 26 governi statali e con 20 lingue ufficiali e ogni regione produce film nella propria lingua che si fonde sempre di più con l’inglese, formando un nuovo “hinglish”(da “hindi” e “english”).
La produzione del cinema indiano era già stata apprezzata all’estero ai primi del ‘900, con film in cui le parti femminili erano recitate ancora da attori maschili, il primo film a soggetto mitologico Raja Harishchandra del 1913 di Dada Sahab Phalke, tratto dal Mahabharata (in programma nella rassegna di Firenze domenica 9 dicembre), ricevette critiche favorevoli anche fuori dai confini nazionali. Già all’epoca i film muti non mancavano di rappresentare alcuni intervalli di varietà con danze e musica, perché la musica ha sempre fatto parte dell’estetica indiana e non è solo un’acquisizione recente di Bollywood. La danza e la musica sono vissute come forme di linguaggio alla stregua dei dialoghi.

Il cinema indiano ha conquistato già molti paesi esteri, oltre quelli dell’estremo Oriente: Africa e Medio Oriente in cui film indiani vengono programmati regolarmente, i paesi dell’Europa dell’est, e negli ultimi anni Stati Uniti ed Europa occidentale. All’inizio il pubblico estero era costituito principalmente dai Non Resident Indians, emigrati in occidente con la nostalgia della Madre India ma in seguito dopo l’onda New Age, la diffusione delle discipline e filosofie orientali (yoga, meditazione etc.) gli occidentali hanno dimostrato di apprezzare il cinema indiano che ha prodotto un giro d’affari enorme. Inizialmente i film indiani sono stati proiettati principalmente nel circuito dei Festival internazionali. Quest’anno a Cannes erano presenti diversi film ed intere rassegne dedicate sono diventate regolari appuntamenti, non solo per addetti ai lavori ma anche per il grande pubblico. Originariamente i Festival prediligevano i film d’autore indiani (con la meravigliosa fotografia in bianco e nero, carica di suggestioni), rispetto a quelli di puro intrattenimento stile Bollywood (fusione tra Bombay e Hollywood) basati sulla formula masala (in hindi “miscela di spezie”) che iniziano nel dopoguerra: storie semplici, romantiche, a lieto fine, forti passioni, melodrammi, con un numero minimo di canzoni accompagnate da danze e siparietti comici intrisi di una visione del mondo induista. Come noi abbiamo avuto il cinema dei “telefoni bianchi”, l’India ha creato Bollywood, finalizzata all’evasione, a far dimenticare i problemi della povertà, anche attraverso locations lussuose o paesaggi turistici internazionali, come le Alpi svizzere o Venezia.
La leadership indiana ha presto compreso la funzione di questo straordinario strumento di comunicazione, e istruzione, e dagli anni ’60, ha programmato una serie di investimenti a favore del cinema, con lo scopo di promuovere la propria immagine all’estero.

Ma il cinema d’autore, che si rivolge alla mente dello spettatore, ha un pubblico limitato e dopo che Bollywood, attento alla reazione emotiva dello spettatore, è entrato in crisi negli anni ’80 (i ¾ della produzione non raggiungeva le sale), si è affermato, soprattutto a livello internazionale il “cinema di mezzo” (Mira Nair, Deepa Metha), un compromesso tra il cinema d’autore/sperimentale e quello commerciale indirizzato a soddisfare i gusti del pubblico, con maggiore attenzione agli incassi. Nel 1983 Gandhi, film anglo-indiano, vince l’Oscar. Dalla new economy degli anni ’90 il cinema indiano ha tratto nuovo impulso, indirizzandosi verso tematiche più aderenti alla realtà: conflitti generazionali, i problemi degli indiani all’estero, i matrimoni combinati (tradizione ancora praticata in India), i problemi dell’urbanizzazione, la condizione della donna etc. Gli investimenti esteri hanno determinato un ampliamento dei suoi generi: gialli, film di fantascienza, polizieschi, drammatici, storici etc., andando incontro ad un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo e iniziando ad avere la considerazione della critica internazionale più esigente. Sembra finita così la dicotomia tra cinema commerciale e cinema parallelo.
Il segreto del successo della settima arte indiana anche in occidente risiede, oltre che nell’imponente macchina produttiva, nella realizzazione di prodotti ben confezionati che nulla hanno da invidiare, in quanto a linguaggio e tecniche cinematografiche, ai prodotti americani. Si tratta di film in grado di essere apprezzati da un vasto pubblico, che fanno divertire, curatissimi da un punto di vista musicale e coreutico, capaci di toccare i sentimenti e le emozioni della gente, divenendo così il luogo dove si avverano i sogni dell’uomo comune, dove la giustizia trionfa. Un esempio su tutti, il film della regista Mira Nair, che vive all’estero dal 1976: Monsoon Wedding, premiato a Venezia (2001), nella formula masala. Questo film ha avuto più successo tra il grande pubblico del suo più impegnato Salaam Bombay! (premiato a Cannes), film realista sui bambini di strada dell’odierna Mumbay, che ha ottenuto come risultato la creazione della fondazione Salaam Balak, con diversi sedi in India, per i bambini di strada.

Molti registi indiani vivono all’estero e quindi ben conoscono la cultura, i gusti delle popolazioni non indiane e sono estimatori del cinema occidentale: non a caso le commedie sentimentali del cinema americano e francese sono state una fonte di ispirazione per film indiani di successo. Inoltre le multisale hanno favorito una diversificazione dei prodotti. Rimane una perplessità nei confronti di film sempre più occidentalizzati: riuscirà il cinema indiano a non perdere la propria autonomia e cifra stilistica nel suo andare incontro ad un pubblico sempre più globalizzato? Un esempio, sono inglesi sia il regista che lo sceneggiatore del film premio Oscar The Millionaire (Danny Boyle, e Simon Beaufoy) ma in molti sono convinti di aver visto un film indiano, senza sapere che l’unica sopravvivenza indiana, oltre l’ambientazione, è la musica!

 

1942
Regia di Feng Xiaogang
Kolossal
Cina 2012

Il film è tratto da Remembering 1942, un romanzo di Liu Zhenyun.
Feng Xiaogang è un regista molto amato in Cina che, solo dopo aver sbancato il box office nazionale, è riuscito a realizzare il suo film sulla carestia del 1942. Nel cast ci sono soltanto due divi non-cinesi, ma americani: Adrien Brody e Tim Robbins, che interpretano un giornalista americano ed un prete cattolico negli anni della guerra contro il Giappone.
La tragica carestia del 1942 è stata una delle più gravi del XX secolo: si è abbattuta nella provincia cinese di Henan, causando la morte di 3 milioni di persone. Il governo non ha pietà del popolo e distoglie le forniture di grano a favore delle truppe cinesi impegnate nella guerra contro il Giappone. Questo costringe gli abitanti, ricchi e poveri, ad un duro e faticoso esodo verso lo Shaanxi, la terra promessa dove sperano di continuare a vivere.
Il film racconta questa epica e inutile marcia di milioni di persone, durante la quale nemmeno i facoltosi proprietari terrieri si salvano dalla fame, e anche i sacerdoti, di fronte a tanta sciagura, perdono la loro fede in Dio. La fame rende gli sfollati tutti uguali e vittime, l’eroe è l’uomo comune che cerca di sopravvivere senza vendere le proprie figlie per un pugno di farina. Tutto questo è fotografato da un giornalista del Time, Theodore White (Adrien Brody) che tenta di aiutare la popolazione usando i suoi contatti. I cinesi alla fine sembrano persino sollevati dell’arrivo degli invasori giapponesi nella provincia di Henan: cedendo questo territorio si disfano di 30 milioni di problemi, ovvero una popolazione stritolata dalla fame e dalla guerra. E’ una lezione di storia poco nota all’occidente, che condivide con l’Asia i milioni di morti della seconda guerra mondiale.
Il regista ha sottolineato, nell’intervista che, mentre il mondo conosce la tragedia degli ebrei nella seconda guerra mondiale, ignora quella cinese. Ma forse, possiamo aggiungere, gli stessi cinesi oggi conoscono poco la vicenda. Il film è denso di colpi di scena, battaglie, incursioni di banditi, bombardamenti aerei che rendono scorrevoli le oltre due ore di spettacolo. Feng Xiaogang non rinuncia a nessuno dei requisiti del kolossal: migliaia di comparse e scenografie imponenti. Una produzione grandiosa, una immensa tragedia umana ricostruita storicamente, un film epico-popolare che suscita forti emozioni senza essere retorico, ma che non convince completamente forse per qualche ripetizione o per l’inserimento di personaggi, come il sacerdote (Tim Robbins), che nulla sembrano aggiungere alla storia.

 

BULLET TO THE HEAD
Regia di Walter Hill
Azione – 92’
USA 2012

Un proiettile in testa, classico film d’azione ben fatto, divertente e con un ritmo incalzante. Brillante l’interpretazione di Sylvester Stallone di un sicario rude e attempato, Jimmy Bobo, ma con un cuore generoso. Jimmy Bobo lavorava insieme ad un socio che viene ucciso ed è proprio per vendicare l’amico, e cercarne l’assassino, che si rassegna a entrare in società con Taylor Kwon (il bravo Sung Kang) di Washington DC, detective coreano e tecnologico, difensore della legge che rimanda l’arresto di Bobo a dopo la cattura dei mandanti.
La vena di ironia che accompagna tutto il film scaturisce dal contrasto tra i due protagonisti, opposti in tutto: Bobo incarna il giustiziere vecchia maniera (“niente donne, niente bambini”), la legge della strada, il codice d’onore, assesta pugni e atterra nemici; il detective incarna la legalità, usa la tecnologia per scoprire i malfattori. Peccato che nel doppiaggio in italiano si perderà la voce roca ed il timbro con cui Stallone sferza con le sue battute chiunque gli capiti a tiro.
Un’inaspettata protagonista femminile (Sarah Shahi), che non è la solita amante sexy di uno dei due, movimenta la trama.
In fondo il vero pericolo non è il killer assoldato per uccidere un altro delinquente, ma la malavita dei grossi affari, dei palazzinari.
L’ispirazione è venuta al bravo sceneggiatore, Alessandro Camon, da una graphic novel dell’autore francese Alexis Nolent (Matz) e illustrata da Colin Wilson. La location scelta da Mr. Hill è un luogo che lui adora: New Orleans, dove ha girato altri due film.
Qualche sbavatura negli eccessi: la pendrive, in cui sono memorizzati i documenti della banda criminale, funziona perfettamente anche dopo una nuotata in acqua.
La frase indimenticabile di Jimmy Bobo (Sly): “non sono le pistole ad uccidere ma le pallottole, la prossima volta ricordati di caricare la tua pistola”.
Un Walter Hill, regista famoso per “I guerrieri della notte” e “48 ore” con un’altra coppia anomala di protagonisti, è tornato, smagliante e in ottima forma dopo dieci anni, a girare per il cinema un action movie stile anni ’80 ben confezionato e divertente.
Il film, distribuito dalla Buena Vista International, uscirà nelle sale cinematografiche italiane ad aprile 2013.

 

GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY
Regia di Peter Greenaway
Storico artistico – 128′
Paesi Bassi 2012

Il film, presentato in anteprima a Roma al Festival Internazionale del cinema, è stato proiettato al Maxxi, la scelta di un museo piuttosto che di una sala cinematografica, nel caso di Greenaway, è particolarmente appropriata.
Fedele al principio della fusione di tutte le forme d’arte, Greenaway, che è soprattutto un artista, perché sarebbe riduttivo definirlo ‘regista’, ha fatto precedere la proiezione al Maxxi da un concerto, un modo per accompagnare il pubblico dentro l’atmosfera barocca del film.
Goltzius and the Pelican Company, dedicato al famoso incisore e pittore olandese Hendrik Goltzius (1558 – 1617), interpretato dal bravissimo Ramsey Nasr, è il secondo film di una trilogia dedicata a tre artisti: il primo è stato il mirabile Nightwatching (ispirato al famoso ed enigmatico quadro La ronda di notte di Rembrandt), film presentato a Venezia nel 2007 e purtroppo mai distribuito in Italia; e il terzo uscirà nel 2016 in occasione del cinquecentenario della morte del pittore Hieronimus Bosch.
Un film di Greenaway non si ‘vede’, è una partecipazione ad un’esperienza artistica, si entra nell’opera, è una fruizione plurisensoriale, a cui soltanto l’olfatto non partecipa, mentre persino il tatto sembra appagato dal realismo carnale delle immagini.
Goltzius vuole convincere il Margravio di Alsazia a finanziare un libro di incisioni sugli episodi più ambigui e scandalosi del Vecchio Testamento e un altro sulle Metamorfosi di Ovidio, a tal fine mette in scena con la sua compagnia i sei tabù sessuali (voyeurismo, incesto, adulterio, pedofilia, prostituzione e necrofilia) rintracciabili nelle storie del veterotestamentarie (Adamo ed Eva, Lot e le sue figlie, Davide e Betsabea, Giuseppe e la moglie di Putifarre, Sansone e Dalila, Salomè e Giovanni Battista). In realtà il sesso è il solo tabù, esorcizzato dalla religione ma perseguito ipocritamente dai religiosi. Il film è un manifesto contro i dogmi e i tabù religiosi di ogni confessione.
E’ così che si scatena la fantasia e la padronanza dei linguaggi artistici di Greenaway: musica, danza, parole, scrittura, teatro, quadri in sovrimpressione, il tutto ambientato in un luogo simbolo di archeologia industriale che ricorda l‘Arsenale di Venezia. L’artista Greenaway si pone lo stesso obiettivo dell’artista Goltzius, seppure gli strumenti sono diversi: cinema e incisioni, distillare la sensualità fino a renderla sublime. Innumerevoli le citazioni di raffinata cultura, soprattutto pittorica, e i nudi, figure danzanti, rappresentazioni erotiche, quasi personaggi di quadri, protagonisti di un happening che non è mai volgare perché solo l’ignoranza e il bigottismo religioso sono volgari. L’essenza è rivelata dal regista: “tutto, nella nostra vita, può essere messo in discussione, tranne due cose: il sesso, che è all’origine della nostra nascita, e la morte”. L’inizio e la fine, Eros e Thanatos, sono imprescindibili. Geniale è lo scambio continuo tra vita e teatro: la vita stessa diventa palcoscenico e il teatro prende vita. La finzione è dichiarata, la recita avviene davanti a noi, una Babele barocca, un vortice artistico e colto (arte, religione, morale, politica), da cui non si emerge e che non si domina ma che richiede allo spettatore di lasciarsi andare, di farsi trasportare in un universo simbolico.
Greenaway ci regala un’opera sontuosa e sperimentale, il suo è un linguaggio che fonde video-arte, cinema e pittura, un’opera multidimensionale, un palinsesto artistico, con più livelli di significato e di lettura (dall’arte e la sua mercificazione alla religione), ma con una predilezione per il linguaggio visivo. Proprio per questo l’unico eccesso è forse nel narratore onnisciente (Goltzius), racconto e romanzo di se stesso, che forse troppo distrae dal flusso delle immagini, ricche di citazioni iconografiche sacre. Ogni inquadratura è trattata dal regista come un’opera pittorica sfarzosa, in cui ogni dettaglio è scelto e curato, quadri barocchi a cui la musica di Marco Robino aggiunge una elegante espressione lirica.

 

THE MOTEL LIFE
Regia di Gabriel Polsky e Alan Polsky
Drammatico – 95’
Stati Uniti 2012

Premiato dal pubblico quale migliore film in concorso e vincitore del premio per la migliore sceneggiatura al Festival Internazionale del Film di Roma The Motel Life è stato uno dei lungometraggi più applauditi in sala.
La sceneggiatura ha un ritmo incalzante ed è ricca di colpi di scena, merito di Noah Harpster e Micah Fitzerman-Blue. Il film, tratto dal romanzo del cantante country Willy Vlautin, è la storia di due fratelli rimasti presto orfani, che a seguito di varie e sfortunate vicende si trovano in fuga da un motel all’altro. La madre, prima di morire, aveva raccomandato loro di restare sempre uniti a qualsiasi costo: questo legame sarà il filo conduttore della loro vita e anche della loro dannata sorte, perché ognuno dei due è cresciuto avendo come riferimento l’altro.
I registi, due fratelli che comunicano attraverso l’arte del cinema e con la fantasia, proprio come i protagonisti del film, indagano abilmente il confine tra legame affettivo e dipendenza reciproca.
Frank e Jerry Lee Flannigan, interpretati da Emile Hirsch (protagonista dello stupendo “Into the wild” di Sean Penn) e Stephen Dorff, bravissimo, esprimono i loro disagi anche attraverso i racconti di Frank, che hanno lo scopo di tranquillizzare il fratello, e i disegni di Jerry Lee, che sono inseriti in modo originale nello sviluppo del film; in fondo questo talento li riscatta. I disegni che si animano sullo schermo offrono incantevoli pause al pathos della storia, inserti fumettistici che danno un valore aggiunto all’opera. Una storia di perdenti su cui sembra abbattersi ineluttabile la sfortuna, ambientata nella fredda e anonima Reno. Ma non è un film sull’infausto destino che sembra precipitare le vite dei due protagonisti nel baratro: il fine non è commuovere lo spettatore, perché chi ha risorse e sentimenti alla fine riesce a dare una rotta alla propria vita. Un film on the road, un viaggio di iniziazione lungo le strade di provincia del Nevada.
L’esordio alla regia dei fratelli Polsky, già produttori indipendenti, è stato brillante e particolarmente apprezzato dal pubblico. Non si può parlare di un capolavoro ma è sicuramente un film ben confezionato, considerato anche il breve tempo in cui è stato girato, meno di un mese.

 

LE 5 LEGGENDE (Rise of the Guardians)
Regia di Peter Ramsey
Animazione 3D – 89′
USA 2012

Le 5 leggende è il nuovo cartoon della Dreamworks che dal 29 novembre sarà presente nelle sale cinematografiche. Ha ricevuto al Festival Internazionale del Film di Roma, dove è stato presentato in anteprima mondiale, il “Vanity Fair International Award for Cinematic Excellence” per il suo contributo innovativo e artistico. Prodotto da Guillermo del Toro, tratto dalla serie di libri illustrati “The Guardians of Childhood” di William Joyce sarà sicuramente il film di punta di Natale. Quello che lo differenza da altri cartoon 3D, oltre la tecnica innovativa e i colori sfavillanti, è il ritmo: è stato girato come un film d’azione, forse per conquistare anche un pubblico adulto.
E’ la storia epica di eroi costretti a lottare contro Pitch (l’Uomo Nero) che vuole portare le tenebre sulla terra e trasformare i sogni dei bambini in incubi. Contro Pitch (pitch black significa nero come la pece) si schierano i Guardiani dei sogni dei bambini, che solo uniti riusciranno a sconfiggere l’Uomo Nero. Questi supereroi, scelti dalla Luna, provengono prevalentemente dal mondo anglosassone. Jack Frost, è lo spirito della neve, controlla il clima e con un bastone magico è in grado di scatenare neve, tempeste, freddo e vento. Babbo Natale, che parla con accento russo, ha due grandi tatuaggi sulle braccia: su uno c’è scritto cattivo e sull’altro buono. Calmoniglio, il coniglio di Pasqua, sa usare il boomerang ed è esperto di arti marziali. La Fatina dei denti (the Tooth Fairy), sembra un colibrì, è bellissima e vivace, vestita con stupendi colori cangianti (blu e verde), vola nelle case dei bambini per lasciare un soldino per ogni dente caduto. Nei dentini dei bambini si conservano i loro ricordi e, imprigionando le fatine, Pitch fa sparire tutti i ricordi dei bambini. Sabbiolino (Sandman) è il guardiano dei sogni, non parla ma si fa capire attraverso le immagini di sabbia che lui stesso crea. Tutti sono magicamente potenti ed esistono solo perché c’è gente che crede in loro, solo così i sogni, la luce e i colori alla fine ritorneranno.