Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
Partita IVA 03068171200 | Codice Fiscale/Numero iscrizione registro imprese di Roma 03068171200
CCIAA R.E.A. RM - 1367791 | Capitale sociale: €10.000 i.v.
La relazione fra pubblico e privato nella gestione e nella valorizzazione della cultura ha sempre costituito un tema caldo, un nodo da sciogliere, in un Paese che come il nostro è nato guardando ai beni culturali da una prospettiva centralista e che per molti versi ancora stenta a mutare la sua prospettiva. Imprese culturali e creative, start up, organizzazioni di terzo settore operanti a diverso livello nell’ambito- dalla conservazione alla valorizzazione, dalla formazione alla progettazione – da sempre si scontrano con la difficoltà di ricavarsi un ruolo legittimo al fianco del potere pubblico, dovendo confrontarsi al tempo stesso con il mercato e la sua domanda. Colpito duramente dalla tempesta economica e finanziaria che dal 2007 si è abbattuta sull’orizzonte internazionale, questo tessuto imprenditoriale, fatto di persone, idee e progettualità, è la frangia del settore culturale e creativo che si mette maggiormente in gioco, accettando in prima persona la sfida di fare cultura in un Paese centralista e burocratizzato come l’Italia e confrontandosi continuamente col mercato e con la redditività degli investimenti intrapresi.
Chi decide di fare cultura si assume il compito di immaginare il futuro, di sperimentare idee, progetti, prodotti e servizi ad alto valore aggiunto e si prefigge l’obiettivo di dare vita a modelli di attività e produzione sostenibili, capaci di generare output che incontrino i desideri della domanda e sappiano stimolarli, restando competitivi sul mercato. Non è forse a tutti quei soggetti che decidono di assumere un approccio imprenditoriale nei confronti delle attività culturali e creative che dovrebbe andare il sostegno pubblico e comunitario in una congiuntura difficile come quella attuale? Come suggerisce lo stesso Libro Verde della Comunità Europea, è la nascita di nuove imprese, soprattutto nei settori di riferimento, a rappresentare uno dei mezzi più efficienti per lo sviluppo del sistema economico e sempre cultura e creatività costituiscono due leve strategiche per la riconversione dei territori, colpiti dalla crisi dell’industria e della manifattura.
Di sostegno si è effettivamente parlato, ma forse nella confusione del momento si è perso di vista l’obiettivo di fondo, ovvero l’introduzione di misure che supportino lo sviluppo di un comparto, laddove per comparto si vogliono intendere le realtà imprenditoriali e di terzo settore che concorrono in prima persona a dare vita alle attività, al fianco del pubblico, assumendosi il rischio.
Mi riferisco alla proposta, avanzata in relazione al ciclo di programmazione dei fondi comunitari 2014-2020, di costituire un Fondo per la Progettualità Culturale concepito, in ultima istanza, per il finanziamento degli Studi di Fattibilità Esecutivi: naturali e possibile committenze dalla Pubblica Amministrazione alle grandi società di consulenza, come Federculture, la Fondazione Fitzcarraldo, Struttura e la stessa Monti&Taft, per fare solo alcuni nomi. Tale misura dovrebbe concorrere in modo forte alla riqualificazione della progettualità portata avanti dalla Pubblica Amministrazione, facilitando la concertazione interistituzionale e stimolando al tempo stesso la partecipazione del privato alle iniziative realizzate, beneficiarie di una maggiore “certificazione di sicurezza” dal punto di vista della resa economica e finanziaria.
Ponendosi l’obiettivo della crescita sistemica del settore culturale, forse l’istituzione di una misura forte come quella del Fondo di Garanzia diventa legittima, forse, se pensata in relazione alle Micro e Piccole Medie Imprese, alle start up e alle organizzazioni di terzo settore che a diverso titolo provano a concorrere sul mercato,sull’onda della crisi e della burocrazia. Incentivi per l’imprenditoria giovanile, agevolazioni per le nuove assunzioni, benefici fiscali, sussidi per la ricerca e l’internazionalizzazione dei prodotti e dei servizi sono solo alcuni delle misure che potrebbero rientrare nella sfera d’azione di un fondo pensato appositamente per il sostegno delle imprese e delle organizzazioni culturali italiane, in un’ottica di reale apertura al privato, profit e non profit.
Foto di Ian Lyam Design
Fino ad un po’ di tempo fa si protestava contro il capitalismo e le multinazionali, possibilmente incatenandosi sotto la sede di un’azienda incriminata. Oggi lo si può fare iscrivendosi ad un social network: Sixth Continent. Il Sesto Continente è quello proposto da Fabrizio Politi, l’ideatore del sito, che si basa su un sistema diverso di commercio. In base ad un algoritmo, il Mo.Mo.Sy. (Moderate Monetary System), si dividono le aziende mondiali in verdi e in rosse, in virtuose e in dannose, in realizzatrici di ricchezza e in produttrici di impoverimento. Calcolando il rapporto tra l’utile netto e il numero dei dipendenti si scopre quali aziende producono un profitto che è in equilibrio con gli utili dei propri dipendenti e del resto della comunità. Le aziende che, invece, sono in rosso (ad esempio Google, Amazon o Ikea), producono un profitto troppo maggiore che genera una concorrenza sleale: in sostanza molta ricchezza nelle mani di pochi, contro ricchezza equamente distribuita.
Entrando a far parte del Sesto Continente si può interagire con il nuovo modello economico a vari livelli. Lo scopo, in ogni caso, è quello di consumare, agevolando, però, i produttori che rispettano un tipo di economia virtuosa.
Si può interagire con il social network a diversi livelli.
1) Semplice cittadino: al momento dell’iscrizione a Sixth Continent si diventa cittadini e si ha accesso all’app gratuita, in versione web e mobile, Mo.Mo.Sy., che permette di vedere quali imprese e quali prodotti sono verdi e quali rossi. Ogni cittadino riceve, inoltre, un Reddito di Cittadinanza assegnato in maniera progressiva e in base alla Nazione di residenza: si tratta di un reddito che deriva dagli acquisti fatti da tutti i cittadini. Il 3% dei proventi di imprese e negozi che aderiscono al Sesto Continente vengono ridistribuiti secondo una serie di regole spiegate a fondo nel sito. Tale reddito, se utilizzato, rientra nella categoria fiscale della Provvigione Indiretta e può essere speso nei negozi affiliati, coprendo fino al 50% dei costi. Inoltre, se si invitano altri amici si ha la possibilità di aumentare il proprio credito.
2) Manager: si può diventare Marketing Manager di Sixth Content promuovendo l’iniziativa e affiliando negozi e imprese, ottenendo un guadagno per provvigione. Si può anche ricoprire il ruolo di Store Manager che, rispetto al Marketing Manager, ha la possibilità di formulare proposte sulla piattaforma e-commerce.
3) Aziende e Imprese: imprenditori e commercianti (che devono rientrare in area “verde” secondo l’algoritmo Mo.Mo.Sy.) possono decidere di aderire al modello economico del Sesto Continente, pagando al momento dell’affiliazione, in cambio di vantaggi quali l’attrazione di nuovi clienti, la possibilità di rendere competitivi i propri prezzi e di avviare anche un vendita e-commerce tramite la piattaforma.
Se il modello economico di Sixth Continent, magari ulteriormente affinato e implementato, dovesse prendere piede a livello globale, si tratterebbe davvero di una bella risposta, competitiva, alla voracità della multinazionali. In ogni caso è un buono strumento per fare acquisti in maniera più consapevole.
I meccanismi di Sixth Continent non sono immediati. Il social è abbastanza complesso e per sfruttarlo e capirlo al meglio bisogna esplorarlo, studiarlo e navigarci molto su.
In poco più di un mese il social ha totalizzato circa 10.000 cittadini e più di 110.000 like sulla pagina Facebook.
Imprenditori, commercianti, aziende, consumatori, appassionati di finanza ed economia, promotori dello sviluppo sostenibile, detrattori delle multinazionali, idealisti, sognatori.
Non è la caccia alle streghe, anche se molti la evocano per difendersene. Quel viandante che passasse dall’Italia in questi mesi non potrebbe restare indifferente alla gragnuola di sospetti, accuse, avvisi di garanzia e rinvii a giudizio che colpiscono con ecumenico distacco politici e amministratori di ogni schieramento e di ogni settore. Non vogliamo né possiamo (nel senso che non abbiamo gli strumenti per valutare la cosa) emettere ulteriori sentenze o comunque giudicare. Però qualche domanda emerge comunque.
Tra i tanti, e tanti sono davvero, compaiono a tutte le latitudini della Penisola assessori, dirigenti e funzionari del comparto cultura, turismo, formazione e comunicazione, con accuse che vanno dall’abuso d’ufficio al peculato passando per truffa, corruzione e concussione. Ora, evitando di cedere al gossip o alla massificazione ci si può chiedere come mai tali reati possano attecchire in area culturale, con buona pace di tutte le frasi da Bacio Perugina che affollano gli orizzonti dell’arte italiana.
Naturalmente non si tratta di una deriva antropologica. Chi si occupa di cultura non è migliore né peggiore di chi si occupa d’altro. Ma non dimentichiamo che regole cattive e procedure opache possono dare una mano a chi vuole trasformare le risorse pubbliche in gruzzolo privato: poche e trasparenti regole potrebbero quanto meno minimizzare l’estro dei delinquenti. Il fatto è che il nerbo dell’azione pubblica in campo culturale rimane esclusivamente il sussidio finanziario.
Sono fondi pubblici erogati periodicamente a copertura di tutto il versante della spesa di ogni bilancio. Non c’è collegamento con specifici flussi di spesa, né con precise desti-nazioni dei sussidi stessi, né con componenti dell’intero progetto culturale. La maggior parte delle risorse culturali non ha un reference price: sappiamo quanto costa un sacco di cemento, un chilometro di cavo d’acciaio, un’automobile, un ettolitro di benzina. Ma il lavoro di un attore, un musicista, un regista o uno scenografo, così come di un curatore o esperto d’arte non hanno una tariffa oggettiva e stabile. La cosa vale pure per strutture, oggetti e materiali.
In sintesi, le regole del gioco sono nebulose e generiche, i meccanismi di valutazione e decisione sono variegati e instabili, il monitoraggio è di fatto assente e la sanzione non prevista o comunque non credibile. Con animo laico potremmo dire che l’emersione di reati amministrativi è conseguenza naturale del reticolo di norme e prassi che quasi invitano a una certa disinvoltura. Se poi siamo – come pure avviene in moltissimi casi – in presenza di persone oneste e di professionisti limpidi dobbiamo renderci conto che l’onestà non può bastare ad arginare il piano inclinato dello sfilacciamento finanziario: anche se nessuno ruba i conti della cultura vanno peggiorando senza alcun parametro di riferimento, e guai a discuterne le scelte, come se la libertà espressiva (sacrosanta) fosse mescolata in modo inestricabile all’arbitrio gestionale (devastante).
Finché le regole non cambiano le cose non possono funzionare. Eppure basterebbe poco: fornire infrastrutture, tecnologia e formazione anziché denaro; misurare l’andamento del prodotto culturale dalla durata della sua vita economica all’ampiezza del suo bacino territoriale; monitorare la congruità delle attività con i programmi; verificare la crescita del pubblico e la sua provenienza; incentivare le connessioni esterne; premiare le innovazioni creative. Se l’azione pubblica consiste in un sussidio tutti si possono autocertificare come professionisti della cultura; se il piano si sposta al sostegno in-kind solo i programmi credibili ed efficaci potranno essere realizzati. E la tentazione di delinquere finirà per annegare nella mancanza di appigli e pretesti.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro
Dopo il successo della prima edizione è tornato anche quest’anno il bando Che Fare volto a premiare con 100 mila euro progetti culturali innovativi e con forte impatto sociale. Per capire le novità introdotte abbiamo intervistato Marco Liberatore, responsabile comunicazione del bando, che ci ha spiegato non solo come partecipare, ma ci ha fornito anche qualche dritta per aggiudicarsi il premio.
È partita la nuova edizione del Bando Che Fare 2013. Quali sono le novità rispetto all’anno passato?
Il 28 ottobre abbiamo aperto la seconda edizione del nostro bando, quella dell’anno passato è stata la prima e ci è stata utile per lanciare a livello nazionale un dibattito su uno dei temi che riteniamo di grande interesse collettivo, quello del finanziamento alla cultura, che non vuol dire solamente “Come si pagano i musei” o “dove trovano i soldi gli enti lirici” ma anche, e più semplicemente, in un paese che investe sempre meno in ricerca e in istruzione, come posso rendere sostenibile un’iniziativa culturale se i referenti tradizionali di un tempo (enti locali e istituzioni) si sono eclissati?L’edizione dello scorso anno ci è quindi stata utile per sollevare un problema e per metterci nell’ottica di cercare delle possibili risposte. Data la situazione politica ed economica come muoversi? Che strade percorrere? Di fatto il bando è espressione di un’operazione culturale più ampia.
Preso atto dell’esperienza molto positiva abbiamo deciso di riprovarci. Quando rifai una cosa del genere per la seconda volta cerchi di farla meglio, naturalmente, e questo vuol dire soprattutto potenziare la struttura, lavorando sulla squadra e ottimizzando gli aspetti critici, che ci sono sempre, individuati alla prima esperienza. Gli aspetti più evidenti sono ovviamente legati al sito, nuovo, più funzionale e ricco di contenuti. Uno di questi è il Vademecum, una sorte di guida che abbiamo stilato grazie all’apporto di alcuni nostri partner (Fondazione Fitzcarraldo, Tafter, Fondazione <ahref, Avanzi). L’altra novità è legata all’allargamento della rete dei partner.
Squadra che vince non si cambia. Con chi collaborate quest’anno e quale il valore aggiunto del vostro network?
Alcuni partner sono gli stessi dell’anno scorso: Avanzi, Fondazione<ahref, Tafter, Domenica del Sole 24 ore. A questi si sono aggiunti altri: Fondazione Fitzcarraldo, Societing, Vita, Bollenti Spiriti della Regione Puglia, Enel e Lìberos, il progetto che ha vinto l’anno scorso.
L’allargamento della rete è fondamentale, rafforza cheFare e ci permette di collaborare con realtà di cui abbiamo grande stima. Soprattutto ci permette di unire competenze e capacità differenti.
Ho un progetto nel cassetto riguardante l’innovazione sociale e culturale. Come faccio a partecipare al bando? Ci sono dei requisiti da rispettare?
Il bando e aperto a organizzazione profit e non profit e per partecipare è sufficiente andare sul nostro sito (www.che-fare.com), scaricare il bando e compilare il form online. Noi però suggeriamo prima di tutto di leggere il vademecum e di scaricare il fac-simile del modulo da compilare, in modo da avere tutto il tempo per rispondere al meglio alle domande e alle richieste lì esposte. E solo in un secondo momento riempire il modulo online.
In generale sono soprattutto due gli elementi da tenere in considerazione, gli otto requisiti richiesti ai progetti e il business model. Il nostro bando si rivolge a progetti culturali di innovazione sociale e abbiamo cercato di identificare otto criteri utili a identificarli: collaborazione, progettazione innovativa, scalabilità e riproducibilità, sostenibilità, equità, impatto sociale, approccio open source, capacità di coinvolgimento delle comunità.
Cosa è successo a chi ha vinto lo scorso anno?
Ha potuto dare un impulso significativo al proprio progetto, rafforzando l’organizzazione e realizzando una buona parte degli obiettivi. La prima edizione è stata vinta da Lìberos, un comunità di lettori scrittori, editori, librai e associazioni della Sardegna, un social network del libro che sfrutta la filiera editoriale per creare valore sociale, una rete virtuale e fisica, radicata sul territorio che promuove e organizza incontri, reading ed eventi culturali in mille forme e modi diversi. Per dieci mesi, dopo la premiazione, abbiamo monitorato il progetto, confrontandoci con loro sulle possibilità di crescita della loro iniziativa. Tra pochi giorni, inoltre, si terrà il loro convegno annuale (durante il fine settimana del 30 novembre) e avremo modo di conoscere quali saranno le loro prossime mosse. È un progetto molto bello e valido e anche per questo li abbiamo voluti come partner per la seconda edizione del nostro bando.
È tempo di consigli. 3 consigli che daresti a chi decide di partecipare…
Studiare il vademecum, fare network, guardarsi intorno e imparare da chi ne sa di più.
Sul vademecum e sul collaborare e fare rete abbiamo già detto, sull’imparare da chi ne sa di più le cose stanno così: a scuola ci insegnano che copiare dal compagno di banco è sbagliato ma nella vita come nel mondo animale si apprende soprattutto per imitazione. È il primo passo per poi fare le cose a proprio modo. C’è sempre qualcuno più bravo di noi o che ha più esperienza e che magari ha già affrontato e superato problemi che noi incontriamo per la prima volta. Credere di sapere tutto non è l’atteggiamento giusto per fare innovazione e vedere come fanno gli altri può essere il modo migliore per creare qualcosa di veramente unico e originale.
TAFTER è mediapartner di Che Fare
“La cultura è una scelta che resta da fare” afferma Giorgio Napolitano durante il discorso di chiusura della 1° edizione degli Stati Generali della Cultura ed è così che il direttore del gruppo Il Sole 24 Ore, Roberto Napoletano – artefice del “Manifesto della Cultura” – esordisce alla 2° edizione degli Stati Generali. Obiettivo dell’evento è creare un proficuo momento di dibattito sulle attività, strategie e azioni in materia culturale e sottolineare l’urgenza dell’adozione di misure legislativo-economiche capaci di porre la cultura al centro dell’agenda politica del nostro Paese. Il tutto nell’ottica dell’applicazione concreta del precetto dell’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”
Molti sono gli interventi illustri per presentare lo status quo del sistema culturale e le possibili soluzioni partendo proprio dai cinque pilastri costitutivi del “Manifesto della Cultura”: costituente per la cultura; strategie di lungo periodo; cooperazione tra Ministeri; l’arte a scuola e la cultura scientifica; merito, complementarietà pubblico-privata, sgravi fiscali.
Le proposte non si fanno attendere a lungo e ad aprire le fila è Emmanuele Emanuele – Presidente della Fondazione Roma. Il suo intervento, dai tratti volutamente provocatori, riscuote ampio favore e prospetta soluzioni che richiedono l’intervento fattivo del Governo: modifica della Carta Costituzionale, ritenuta obsoleta rispetto alle reali esigenze del Paese soprattutto per ciò che concerne il ruolo dei privati a supporto della cultura; gestione privata di tutti quei luoghi culturali attualmente inaccessibili per creare occupazione, economia e sviluppo; intervento della normativa fiscale a favore del mecenatismo e delle sponsorizzazioni culturali capace di garantire la totale detraibilità degli importi a sostegno delle attività culturali; centralità della cultura nella manovra economica.
Il carattere economico della cultura è il fulcro del ragionamento di Marco Magnani – Senior Research Fellow Kennedy School of Economics-Harvard University, Presidente Intercultura / A.F.S. – che cerca di rispondere alla domanda “Esiste una relazione fra cultura ed economia?”. Ovviamente sì. La cultura crea un impatto sulla crescita economica grazie all’indotto che ne deriva (si pensi ad esempio al binomio turismo-cultura e cultura-tecnologia, alla nascita di nuove professioni nel settore culturale, etc.), ma deve essere considerata nella sua accezione materiale, contenutistica e patrimoniale, se si vuole attivare il “moltiplicatore”. Secondo Magnani la cultura ingloba in sé diversi ambiti e deve essere considerata nel suo insieme per funzionare correttamente giacché è fondata sulle qualità del capitale umano, costituito dalla conoscenza implicita ed esplicita alla base della formazione del vantaggio economico. Da sola, però, la cultura non può sostenersi visto che i ricavi non riescono a coprire i costi e, pertanto, sono necessari degli investimenti, siano essi pubblici o privati, e una sua corretta gestione. Solo così si possono avere dei ritorni elevati e può scattare il “moltiplicatore”.
A rafforzare la tesi della cattiva gestione delle risorse di Magnani, è l’intervento di Giuseppe De Rita – Presidente Censis – che evidenzia il problema nella volontà della classe dirigente di mantenere i propri privilegi provocando l’impoverimento della cultura e la sua banalizzazione. Ma allora come si potrebbe risolvere la questione? Attraverso la creazione di un Masterplan per l’industria culturale a medio-lungo termine? La soluzione è di far adattare la politica culturale al territorio attraverso una crescita orizzontale delle risorse. “Solo il territorio ridà alla cultura il rapporto con la dimensione orizzontale della comunità che le sta intorno”, afferma De Rita, e sostiene che è necessario essere consapevoli dello stato reale delle cose inglobando nel masterplan il “buco nero del Mezzogiorno” e l’attuale assenza della dimensione privata.
Anche l’intervento di Patrizio Bertelli – AM Gruppo Prada – evidenzia una deficienza nel sistema culturale italiano incapace allo stato attuale di creare risorse e sostiene che “la cultura non si potrà sviluppare se il nostro Paese non prende atto che si deve investire in questi settori.”
L’intervento della Senatrice a vita Elena Cattaneo – Docente e Direttore del centro di Ricerca sulle cellule staminali Unistem Università di Milano – sposta l’attenzione sulla “ricerca scientifica e tecnica” e sulle problematiche che gli scienziati devono quotidianamente affrontare sia per i continui tagli al settore sia per l’inadeguatezza della normativa in materia. Il suo discorso sottolinea come la realtà scientifica attuale sia solcata da paradossi e come, nonostante le avversità, l’Italia sia all’avanguardia nella sperimentazione scientifica a livello mondiale. La scienza viene paragonata a un grande e desolato deserto dove gli studiosi si trovano da soli di fronte all’ignoto. Ma in questo deserto si può e si deve entrare purché si abbia un’idea e il coraggio d’intraprendere per primi strade mai solcate, visto che quando i risultati arrivano si toccano le vette più alte. Le sue parole sono permeate dall’amore profondo per la sua professione, dall’orgoglio di essere una studiosa italiana e da un’inguaribile ottimismo quando afferma “la scienza può portare lontano e bisogna esserne consapevoli ogni volta che non si investe nello studio.”
Un ottimismo che condivide insieme con Giorgio Squinzi – Presidente Confindustria – proprio in occasione della XI Giornata della Ricerca e dell’Innovazione. L’accento posto all’esigenza di investimenti per la ricerca assume un carattere ancora più significativo per il Presidente, il quale dichiara “dobbiamo ritrovare le nostre potenzialità di crescita e dobbiamo credere nella ricerca e nell’eventualità di giocare un ruolo fondamentale nel mondo. Dobbiamo crederci e fare delle scelte.”
Una ventata di ottimismo e di cambiamento arriva direttamente dalle parole del premier Enrico Letta: “Con il Decreto Valore Cultura si è creata un’inversione di tendenza: rimettere la cultura al centro dell’attenzione perché, capovolgendo le parole di un mio collega, con la cultura si mangia.” Ascoltando il Presidente del Consiglio Enrico Letta si ha la sensazione che il Governo abbia compreso realmente il valore insito e le potenzialità della cultura nella crescita e competitività del nostro Paese, soprattutto quando espone i quattro punti chiave dell’agenda politica. In primis, sull’onda del successo riscosso dalla partecipazione di ben venti città italiane alla nomina di Capitale Europea della Cultura, il Governo intende istituire annualmente la Capitale Italiana della Cultura con l’obiettivo di valorizzare le realtà territoriali del nostro Paese, di creare un fermento creativo e progettuale stimolando sia l’intervento pubblico sia gli investimenti privati e di dare un nuovo impulso al turismo di qualità. Obiettivo di Letta è di avere la prima Capitale già nel 2014, inaugurando l’iniziativa il 27 maggio, data simbolo per ricordare l’attentato agli Uffizi del 1993 da un lato e, dall’altro, aprire una nuova era della politica culturale.
Secondo punto chiave è il credito d’imposta sulla ricerca che il premier dice di “voler estendere non solo al cinema e alla ricerca ma a tutta la cultura” e prosegue affermando che i tagli derivanti dalla spending review non “finiranno nel calderone”, giacché saranno ripartiti su tre obiettivi principali: riduzione delle tasse sul lavoro, finanziamenti specifici in ambito produttivo – come la cultura, la ricerca e l’educazione – e riduzione del deficit e del debito.
Sul tema degli investimenti pubblici in materia culturale il primo ministro pone grande accento dichiarando che è necessario “migliorare i finanziamenti culturali” perché la cultura, l’educazione e la ricerca sono stati oggetto “di tagli lineari”.
Ultimo punto chiave dell’intervento di Letta è l’Expo del 2015 dove “la cultura avrà un ruolo fondamentale” visto e considerato che “l’Italia per cinque mesi avrà la possibilità di mostrare tutte le sue eccellenze”.
Da qui parte la proposta per il futuro di Benito Benedini, Presidente del Gruppo 24 Ore: “l’Expo è Italia e ci si augura che la si visiti seguendo le piste della cultura. Allora perché non si individuano venti opere capaci di rappresentare l’Italia e magari inviarle nei Paesi che parteciperanno all’Expo?” Un’idea lungimirante in grado di rifondare e riformulare l’identità nazionale su principi culturali condivisi capaci, però, di inglobare le molteplici vie tracciate sulla strada della conoscenza che fanno parte del nostro DNA culturale. Un DNA che è ben rappresentato nella sua dicotomia dall’art. 9 della Costituzione dove per cultura non si intende solo l’aspetto materiale ma anche quello immateriale, ossia un sottofondo di conoscenza tecnico-scientifica, di ricerca, di creatività e di innovazione impalpabili che vanno di pari passo con le rivoluzioni artistiche e del sapere. Un “patrimonio” a volte ingombrante da dover gestire che urge risposte e una riorganizzazione fattiva affinché la cultura non resti “una scelta da fare”, ma “la scelta da fare” per apportare una ventata di cambiamento a un sistema antiquato e zoppicante.
Come afferma Emmanuele Emanuele – Presidente della Fondazione Roma – “la cultura per me è l’energia pulita di questo Paese e dal PIL dovremmo passare al PIC, Prodotto Interno Culturale. Noi possiamo farcela. L’Italia ha i mezzi per farlo.”
Ce lo auguriamo.
Alcuni giorni fa, il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ( MiBACT) Massimo Bray ha presentato ufficialmente la relazione elaborata per il suo rilancio da una commissione di esperti, presieduta da Marco D’Alberti, docente e studioso di Diritto Amministrativo comparato, nonché autore di uno studio dedicato a “Poteri pubblici, mercati, globalizzazione”(2008).
La crisi che ha investito “il modello italiano” dei beni culturali è ammessa e descritta in un capitolo dal titolo eloquente “Gli annosi ritardi funzionali e strutturali del Ministero”, inserito nell’impegnativo e corposo lavoro. Dopo ben quattro riforme, “i problemi che da decenni affliggono l’amministrazione dei beni culturali non hanno ancora trovato adeguata risposta, nonostante i molti i studi e rapporti, pubblicati anche da diversi organi di controllo (quali la Corte dei conti e la Ragioneria Generale dello Stato), che hanno evidenziato le numerose disfunzioni di cui soffre il Ministero. E queste sono le sovrapposizioni di competenze, le troppe linee di comando, la cattiva distribuzione del personale, in una cornice di cronica scarsità di risorse che preclude anche le possibilità d’innovazione”.
Sembra che Massimo Bray voglia invertire la rotta, affidando ancora una volta il rilancio dei beni culturali e del turismo al binomio “cultura e organizzazione giuridica”, anche se non è più l’insieme delle leggi Bottai a sostenerlo. Quest’impostazione in passato, ha avuto il suo elemento vincente nella ricerca e nel restauro, malgrado la cronica scarsità di risorse che ha afflitto il Ministero, sin dalla sua istituzione. La globalizzazione dei rapporti mondiali unitamente alla crisi finanziaria, che costringe a ridurre sempre più le risorse che lo Stato mette a disposizione, potevano essere un’occasione per riconsiderare questa visione, se, con maggiore coraggio, si fosse voluto compiere quel salto di qualità che alcuni settori del mondo della cultura auspicavano.
L’avere posto l’accento sugli aspetti organizzativi ha avuto come conseguenza il lasciar emergere una certa ansia di posizionamento nel dibattito in corso su federalismo, centralismo e conseguenze negative in termini di burocrazia, che ha investito il nostro paese, e che ha indotto gli esperti di Bray ad un’enfasi nel sottolineare la funzione del “centro”, sede dei tradizionali compiti di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, individuati quali onore/onere della struttura romana del MiBACT, composta da otto di Direzioni Generali, mentre la periferia del sistema è relegata a un ruolo residuale di gestione economico-amministrativa (le Direzioni Regionali), e soprattutto scientifico (le Soprintendenze), senza controllo su istituti e musei (almeno i maggiori) per i quali è prevista un’autonomia gestionale (orari di apertura e prezzo dei biglietti).
Si comprende che la riforma si gioca ancora una volta sul restyling delle Direzioni Generali compiuto tenendo conto della spending review che ha imposto la loro riduzione, nell’insieme, da 29 a 24, costringendo ad una operazione contabile di sottrazione di posti dirigenziali da una parte e di collocamento altrove, in modo che “il saldo finale” rimanga invariato. Così nonostante si sottolinei la necessità di ridurre le Direzioni Generali (spesso con sovrapposizioni di competenze), è possibile ipotizzare la creazione di una Direzione del Patrimonio e del Paesaggio che assorbirebbe le funzioni svolte dall’attuale direzione per la Valorizzazione, voluta dal governo Berlusconi nel 2009; si suggerisce la creazione di due o forse tre “direzioni centrali” con funzioni “orizzontali”: una Direzione per l’innovazione ed i sistemi informativi, una per il personale, una per il bilancio (con particolare cura- si noti- “a processi contrattuali centralizzati”). Le novità potrebbero essere la Direzione per il Patrimonio Culturale (una DG soltanto, “seppur non unanimemente condivisa” sul modello dell’Ufficio centrale degli anni’90, al posto delle due attuali per recuperare un posto dirigenziale), quella per gli Istituti Culturali (biblioteche, archivi, musei), una sola per lo Spettacolo (accorpando quindi cinema e spettacolo dal vivo), una ovviamente per il Turismo ed infine una di staff del Ministro (che curerebbe anche la pianificazione, proposta che ci fa comprendere il ridimensionamento della figura del Segretario Generale). Ugualmente rivoluzionario, seppur tardivo il connubio –riconosciuto come necessario- con settore del Turismo, anche se in attesa dell’annunciato Decreto Turismo, è presentato al momento, come una sommatoria di criticità.
Quanto sopra è un insieme d’innovazioni che hanno una rilevanza soprattutto all’interno del MiBACT, perché riguardano aspetti organizzativi relativi al proprio personale dirigenziale e non, anche se fondamentali per capire quale sia il reale interlocutore preposto a ogni singolo problema. Ma se si vuole approfondire il rapporto fra il MiBACT e il mondo che gli ruota intorno e che attende di conoscere nuovi progetti e programmi, scorrendo le pagine del documento, si nota l’ assenza di una definizione di cultura, che non sia una mera sommatoria di beni. Lacuna non da poco! Se ci fosse stata, si sarebbe potuto prendere atto che la cultura nell’Occidente globalizzato è un “bene di consumo” e che l’uso delle tecnologie digitali fanno sì che l’Europa (ma non più l’Italia) sia una delle mete preferite del turismo globale e che i settori del Made in Italy che si stanno salvando dalla crisi epocale che ha investito il nostro paese sono quelli, che accettando questa visione, si sono profondamente svecchiati e rinnovati, facendo leva sulla creatività. Il consumo culturale nei paesi più avanzati, sta operando una trasmissione di valori attraverso “attività innovative”, facendo percepire che anche la tutela “sacrosanta” passa attraverso valorizzazione e comunicazione e che la cultura può essere gradevole e garantire degli introiti, senza rimanere impantanati nel pregiudizio che tutte le attività imprenditoriali siano losche o con poca valenza sociale e che solo lo Stato possa garantire la mission di tutela.
Fra le proposte più interessanti, c’è sicuramente quella che suggerisce di assegnare a cooperative di giovani (battezzate un po’ infelicemente “cooperative della conoscenza”!) la gestione di biblioteche , archivi e musei, che, purché non si riduca “more italico” in un carrozzone per assunzioni clientelari nascoste, costituisce un riconoscimento di un mondo che va oltre la gestione esclusivamente pubblica, e che opera per la fruizione e la conoscenza del patrimonio storico artistico.
Da leggere con attenzione anche la parte dedicata alle procedure di assegnazione dei lavori, giacché volta a tutelare una serie d’imprese artigianali che rischiano l’esclusione dal mercato, nel caso di gare con importo “sopra soglia”. Senza dubbio l’esempio della vicina Francia con il “Code des marchés publics” sulla falsariga delle direttive comunitarie, offre un’idea di lodevole chiarezza e forse un modello da perseguire. Quanto all’organizzazione di mostre, la problematica va individuata non tanto nella controversia annosa che contrappone il settore pubblico a quello privato, in merito alla loro ideazione, ma in una corretta programmazione pluriennale, che eviti il proliferare di iniziative inutili, volte a soddisfare ambizioni di amministratori locali, di funzionari o di privati e che inserisca invece l’attività di mostre (che siano comprensibili e apprezzate dal pubblico), nell’offerta turistica di Comuni e Regioni.
La conclusione è che urge una visione che inserisca i temi più scottanti quali il finanziamento, gli organici, la semplificazione delle procedure in un quadro ben più ampio di necessaria riforma della Pubblica Amministrazione – dato che quella italiana è una delle più antiquate d’Europa- da compiere organicamente, anche per rimediare alle opacità, che sono sistematicamente messe in risalto dai media, espressione dell’opinione pubblica. Molti dei problemi lamentati possono essere risolti operando una modernizzazione profonda che utilizzi appieno tutti gli strumenti a disposizione per velocizzare e rendere trasparenti e imparziali le procedure, per approdare a un sistema in cui, i “servizi resi ai cittadini” siano realmente il punto di riferimento, allo scopo di offrire al pubblico un’offerta qualitativamente differenziata, prescindendo dalla difesa di posizioni di lavoro privilegiate.
La commissione riconosce anche che i servizi per il pubblico “ hanno bisogno di una nuova sostenibilità, rispetto ad una domanda profondamente mutata” e necessitano di essere inseriti all’interno di un “progetto di rilancio del sistema dei beni culturali, dei musei , dei complessi archeologici”, con cambiamenti radicali organizzativi delle Soprintendenze, che nel loro insieme –per difficoltà interne- spesso manifestano lentezze nella loro attività”. Forse il rimedio non può essere visto solo in una loro auspicabile maggiore autonomia. Se non viene compiuto un radicale cambiamento di mentalità, che investa tutti i settori del Paese, semplificando una burocrazia che è una sommatoria di funzioni regionali, provinciali, comunali e prerogative dello Stato, non sarà possibile convertirsi all’idea che la cultura è una risorsa importante che non prevede monopoli.
Anna Maria Reggiani è Direttore Generale Emerito presso Ministero Beni e Attività Culturali
All’Auditorium della Gran Guardia di Verona sold out per Philippe Daverio, invitato dalla Camera di Commercio e dal Comitato Promozione Imprenditorialità Femminile mercoledì 20 novembre per raccontare “L’arte di Inventarsi. Riflessioni per nuove strade imprenditoriali”.
Parte da Einstein Daverio, ricordando la nota affermazione che sottolinea come non si possano risolvere i problemi attuali partendo dalla stessa prospettiva in cui sono stati creati e come l’utilizzo della parola crisi sia innanzitutto espressione di un mancato desiderio di superarla.
Affrontando i diversi argomenti proposti, mette più volte in luce la versatilità appartenente al mondo femminile, in un Paese che lo sta ancora scoprendo piuttosto a fatica; creatività, visione d’insieme, capacità di pensare all’altro sono l’anima del commercio e il volano per trovare nuove strategie, anche imprenditoriali. Sottolinea poi la sensibilità storica, quasi genetica, insita in un popolo, quello italiano, evidente nel sapere riconoscere più di ogni altro la bellezza e la qualità a partire dai propri stessi sensi fisici; la sua tradizionale arguzia e spontanea lungimiranza nell’intuire i cambiamenti del mercato e nel saperli cogliere, senza necessariamente doversi ingegnare nello strutturare prassi per analisi e ricerche di settore.
Tutte qualità apparentemente in sintonia con le tipiche nicchie produttive della penisola, nonché con il suo patrimonio storico, artistico, architettonico e culturale in genere, di per sé un “grande negozio” naturale. Affinché “entrino i clienti”, servirebbe però che fosse “ben pulito e presentabile”, mentre resta purtroppo spesso legato a normative superate e non riconsiderate alla luce delle esigenze contemporanee, oppure frutto di scelte che evitano la valorizzazione, se non il buon senso. Diventa preoccupante inoltre considerare come statisticamente solo il 10% degli italiani crei prodotto, un tasso molto basso rispetto ad altri Paesi europei e che rende insostenibile l’economia nazionale.
Sarebbe necessaria una nuova consapevolezza della ricchezza e della bellezza, le quali non necessariamente devono rappresentare due estremi divisi da un divario insormontabile, ma che anzi dovrebbero fungere sincronicamente da concetti ispiratori alla base di azioni responsabili. Ci vuole una disponibilità a fare comunicazione come non si è mai fatta prima, ad andare al di là anche degli strumenti di mercato utilizzati da realtà meno intuitive e molto più strategiche della nostra, perché non bastano più nemmeno quelli e perché le crisi servono ad andare oltre. Compreso l’andare oltre se stessi, partendo dall’identità, dal “Paese che siamo”.
Ma quando l’accento della riflessione si sposta per un momento sul “Paese culturale che siamo”, con un’offerta senza pari, e su come esso abbia tutti i presupposti per divenire il motore protagonista di un’economia produttiva e sostenibile, la risposta per tradurre le parole in fatti è molto difficile da dare.
Durante la presentazione delle statistiche sull’attività di spettacolo relative ai primi sei mesi del 2013, il direttore generale della SIAE Gaetano Blandini ha colto l’occasione per parlare di diversi temi scottanti del settore, quali le conseguenze derivanti dalla legge di stabilità, il regolamento dell’Agcom contro la pirateria on line e, immancabile, la spinosa questione del Teatro Valle Occupato, ora trasformato in Fondazione. La SIAE come l’AGIS da sempre ritengono che nel palco capitolino permanga una “situazione di illegalità e di alterazione della concorrenza”, sebbene in molti, tra cui il nostro editorialista Gioacchino De Chirico, abbiano accolto la neonata Fondazione Teatro Valle Bene Comune come un importante traguardo.
Sul tema abbiamo voluto interpellare una voce super partes, rivolgendo alcune domande ad un esperto in materia di economia della cultura, qual è il Professore Michele Trimarchi. Questa la sua analisi sul “fenomeno Valle”.
E’ nata la Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Cosa è cambiato rispetto a prima?
Dalla fine del modello ETI alla nascita della Fondazione sono cambiate molte cose: lo spiazzamento, l’occupazione, una partecipazione intensa di artisti e di pubblico, un’inedita attenzione intellettuale. La prospettiva, tuttavia, è che le cose tornino più o meno com’erano prima, con un teatro che produce poco e distribuisce molto nell’ambito di un circuito commerciale sostenuto da fondi pubblici, e con processi decisionali che in poco tempo sostituiranno la condivisione assembleare e lo spontaneismo con dei protocolli convenzionali.
Ci saranno novità per il pubblico? Quali?
Per il pubblico le cose cambiano soltanto se cambia la varietà e la qualità della programmazione teatrale, e anche se agli spettacoli si associano sistematicamente ulteriori e più ampie opzioni artistiche. Si tratta di cose che vanno progettate con acutezza e che dipendono dalla capacità di coniugare le strategie gestionali e gli orientamenti artistici.
Ci indichi un aspetto positivo ed uno negativo presenti nello statuto della neonata Fondazione.
Lo Statuto è portatore di un indirizzo politico ben chiaro, e contiene molteplici vincoli e divieti. La sua effettiva caratura si potrà comprendere solo nel corso del tempo, quando cioè le attività di ogni giorno dovranno fare i conti con la rotazione obbligatoria delle cariche sociali, con l’unanimità indispensabile nelle prime due riunioni per ogni decisione, con l’equalizzazione delle posizioni, con il ruolo quasi ancillare delle attività teatrali rispetto alla vocazione politica. E’ uno Statuto ricco di principi molti belli e di intenzioni positive e trasparenti. Lo erano anche le Tavole della Legge.
SIAE e AGIS contestano l’illegalità del Valle. Hanno ragione? Perché?
L’occupazione di uno spazio da parte di persone diverse dai suoi proprietari non può essere definita legale. In momenti complessi come quello che stiamo attraversando lo scontro tra formalismi rigidi e spontaneismi che si giustificano da sé non può sorprendere. Quando le regole del gioco finiscono per mummificare un sistema il desiderio e il bisogno di superarne le strettoie emergono naturaliter. Di norma le rivoluzioni non generano un mondo migliore, ma solo un mondo diverso; ad alcuni appare irrinunciabile, ad altri nefasto, anche questo accade ogni volta.
Ritiene che questo “modello” sia sostenibile a lungo termine? Come?
Un modello non può essere sostenibile o fallimentare, la realtà sì. Lasciamo che la Fondazione cominci a funzionare, e si vedrà quali intuizioni risulteranno praticabili, e quali illusorie. Regole forti possono non piacere, ma se ben concepite possono arginare i problemi generati dalle dinamiche umane; il modello adottato dalla Fondazione combina processi di partecipazione che richiedono grande senso di responsabilità e griglie piuttosto rigide che probabilmente dovranno essere gestite con qualche flessibilità. Solo nel corso degli anni si potrà comprendere la sostenibilità del progetto.
E’ un esperimento replicabile? Se tutti gli spazi occupati seguissero il medesimo iter, cosa accadrebbe?
L’occupazione degli spazi in tutto il mondo è il risultato di molteplici ed eterogenee motivazioni, di solito condivisibili e in alcuni casi addirittura drammatiche. Ma quasi mai è assistita o originata (come sarebbe ragionevole) da una strategia orientata a costruire un reticolo di scelte e azioni che superino il passato evitandone fragilità e sbagli. Che molta comprensibile rabbia serpeggi e si diffonda è nella logica delle cose, dopo due secoli abbondanti di un paradigma aggressivo e frettoloso, la pars destruens è ben chiara.
Nonostante l’arrivo dell’autunno, dall’Europa soffia un vento caldo carico di notizie positive per chi opera nel settore creativo culturale ed audiovisivo.
La Commissione Europea ha deciso di stanziare 1.801 milioni di euro tra il 2014 e il 2020, per il programma Europa Creativa, attraverso il quale prevede di raggiungere circa 8.000 organizzazioni culturali e 300.000 artisti, professionisti della cultura e le loro opere. Il Parlamento europeo ha votato favorevolmente il programma.
Scopo primario: aiutare chi si occupa di ‘cultura’ a varcare i confini nazionali, rafforzando il ruolo dei piccoli imprenditori e delle organizzazioni locali, favorire l’innovazione, la costruzione di un pubblico paneuropeo e nuovi modelli di business.
Secondo la Commissione, dal punto di vista economico questi finanziamenti sono il modo più efficace di ottenere risultati e un effetto duraturo per aiutare i professionisti del settore culturale ed audiovisivo ad inserirsi sui mercati internazionali e a lavorare con successo per promuove lo sviluppo di opere che presentano un potenziale di distribuzione transfrontaliera; più di 5.500 libri e altre opere letterarie verranno tradotte e pubblicizzate e più di 1.000 film europei, verranno distribuiti su piattaforme tradizionali e digitali.
Nonostante infatti la diversità culturale e linguistica europea sia riconosciuta dai Trattati come un principio fondamentale e più volte si sia proclamata la necessità di rafforzare la competitività dei settori culturali e creativi, i dati dell’ultimo rapporto Eurostat relativi al 2012, riportavano un panorama non proprio felice, dove tra l’altro l’Italia chiudeva la fila con una percentuale di investimenti statali nel campo culturale inferiore alla media degli altri paesi membri.
Ora sembra che ci siano tutti gli elementi per uscire dalla crisi e dare una spinta propositiva, -oltre a un sostegno economico- all’enorme ricchezza che molti, soprattutto tra i giovani continuano a ritenere il cuore vivo e pulsante in cui investire tempo e risorse, nonostante la disattenzione se non peggio, gli ostacoli da parte delle istituzioni.
Voci di corridoio sussurrano che le prime call usciranno a dicembre con scadenza a marzo. Il Programma vede un aumento di budget del 9% rispetto al precedente Programma Media e Cultura 2007-13 e resterà suddivido nei due filoni principali: Media e Cultura, oltre a una sezione tran-settoriale che istituirà una desk di supporto e archivio dati e dal 2016 un fondo di garanzia quale strumento di garanzia finanziaria destinato alle PMI e alle organizzazioni.
Quattro i settori di finanziamento: progetti di cooperazione, traduzione letterarie, network e piattaforme.
Potranno partecipare gli operatori attivi nei settori creativi culturali, aventi personalità giuridica (non sono ammesse infatti domande individuali) e sede legale in uno dei 28 Paesi Membro Ue, ma anche Norvegia, Svizzera, Turchia, Macedonia, Serbia, Islanda, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Albania; e –grande novità!- anche i Paesi partecipanti alla cosiddetta European Neighbourhood Policy -ENP: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldova e Ucraina, Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Siria e Tunisia.
Un’opportunità importante per fare rete, acquisire competenze e, grazie alle più moderne tecnologie digitali diffondere la coproduzione europea e internazionale, scambi di competenze professionali e know-how, attraverso tournee, eventi, manifestazioni internazionali.
Letteratura, musica, architettura, archivi e biblioteche, artigianato artistico, film, televisione, videogiochi e multimediale; design, festival, arti visive, arti dello spettacolo, editoria, radio, pare siano finalmente arrivate le risorse per salvare questo nostro patrimonio inestimabile, resta ora da vedere come verranno distribuite e gestite!
Consulta il sito del programma Europa Creativa
Lucio e Anna sono una coppia di Genova come tante altre, hanno un lavoro, una bambina di nome Gaia e una casa in città. Eppure un giorno si rendono conto che la loro vita, le loro giornate, hanno bisogno di qualcosa in più rispetto alle opportunità che ogni giorno offre la realtà urbana.
Decidono allora di intraprendere, tutti e tre, un progetto ambizioso e pionieristico: viaggiare alla scoperta di nuovi modi di vivere, di fare economia e di intendere il rapporto uomo-natura. Capire come si vive in una fattoria biologica, cosa comporta il cohousing, come effettivamente si svolgono le giornate in un villaggio ecosostenibile, provare in prima persona forme alternative di educazione e di apprendimento.
Anche il modo di spostarsi di Unlearning – così si chiama il loro progetto – avverrà in maniera originale e sostenibile, sfruttando le più avanguardistiche forme di baratto: WorkAway, Banca del tempo, Couch Surfing, scambi di ospitalità in cambio di lavori in fattorie biologiche, in strutture culturali indipendenti, baratto di conversazione per imparare le lingue, e così via. Da questa particolare avventura verrà fuori un documentario, un prodotto culturale che sarà il risultato di un’ulteriore forma di scambio e condivisione “dal basso”, basandosi sui finanziamenti del crowdsourcing.
Ma sentiamo dalla voce dei suoi stessi protagonisti i dettagli di questa esperienza, unica nel suo genere.
Come spiegate nel trailer di presentazione di “Unlearning”, l’idea del vostro progetto è nata da un pollo a quattro zampe, che è diventato il simbolo della vostra iniziativa. Potete raccontarci l’aneddoto che ha dato inizio a tutto e rivelarci i motivi che vi hanno spinto a intraprendere un’avventura del genere?
Viaggiare e curiosare ha sempre fatto parte del nostro DNA di coppia. L’arrivo di una figlia ha cambiato molti aspetti pratici della nostra quotidianità. Ma quando Gaia ha disegnato un pollo a quattro zampe si è riaccesa la scintilla e ci siamo detti “Perché non coinvolgere anche la bimba?” Meraviglioso… la nostra crescita individuale si è trasformata esponenzialmente a livello familiare. Il pollo a quattro zampe è diventato il simbolo della nostra epoca, dove i bambini di città conoscono gli animali al supermercato, guardano gli speciali in tv e, se va bene, vanno allo zoo.
Tutto il vostro viaggio si baserà sull’idea del baratto. Si tratterà di un’esperienza all’insegna dell’improvvisazione e della scoperta o potete già dare delle anticipazioni sull’itinerario, i tempi, le persone che incontrerete?
Viaggeremo con una bimba piccola, non possiamo pensare di fare come Indiana Jones!
Sarà un viaggio pianificato perché non è l’aspetto avventuroso che ci interessa.
Anticipazioni: vi possiamo dire che questi ultimi giorni sono fantastici perché abbiamo ricevuto numerosi inviti da parte di persone che hanno trovato interessante il progetto, e li ringraziamo. È molto probabile che ci vedrete alle prese con un progetto educativo indipendente, una famiglia di “artisti del riciclo” e… un circo! Abbiamo sei mesi di viaggio e qualche mese per decidere le ulteriori tappe.
Quanto e come pensate che “Unlearning” possa essere importante per vostra figlia? E in generale, pensate che il vostro potrebbe o dovrebbe essere un esempio per altre famiglie, per altri bambini?
Noi non pensiamo di essere un esempio, ciascuna persona ha il diritto di vivere come preferisce, ma le famiglie che vogliono sperimentare differenti modi di vivere e di viaggiare troveranno in Unlearning un manuale pratico per affrontare con serenità questo tipo di esperienza.
Noi abitiamo a Genova e, come molte altre famiglie, siamo contenti della nostra vita e Gaia ha i suoi punti di riferimento: amici, giochi, casa. Certo, il confronto con altri stili di vita, non sarà indolore perché metterà a nudo aspetti di forza e di debolezza delle nostre convinzioni, della nostra routine. Come una sorta di depurazione, alla fine resteranno solo le cose più preziose.
I finanziamenti per compiere il vostro singolare viaggio si basano interamente sul crowdfunding. Perché un individuo, un’altra famiglia come la vostra, o una collettività dovrebbero finanziarvi?
Bella domanda! E ti ringrazio perché è molto importante spiegare questo passaggio, tanto delicato quanto importante.
Unlearning è un progetto di documentario indipendente. Ti piace il trailer? Puoi acquistare il film in prevendita qui: www.unlearning.it. È come comprare un biglietto del cinema ma vedere il film dopo sei mesi. Capiamo che può sembrare strano, ma il ricavato della prevendita ci permetterà di realizzare Unlearning al meglio! Non chiediamo soldi per organizzarci una vacanza, ma per creare un prodotto culturale a stretto contatto con i suoi fruitori. Il costo del download è di dieci euro ma se proprio vi siamo simpatici, potete richiederci i fantastici gadget creati appositamente per Unlearning: t-shirt per uomo, donna e bambino, fondini per il desktop, stampe e segnalibri magici.
In Francia, e in altri paesi europei il finanziamento da basso (crowdfounding) è un metodo molto utilizzato per progetti di tipo sociale, scientifico, musicale, letterario.
Ci è sembrata una buona idea adottare questa nuova formula di finanziamento anche da noi, in Italia. La nostra scelta è pioneristica ma, se compresa dalla collettività, potrebbe rivelarsi molto utile anche per altri progetti.
Intraprendere un percorso del genere non è un avvenimento di tutti i giorni. Cosa pensano le vostre famiglie e i vostri amici di “Unlearning”? C’è un territorio o una realtà che vi sostiene particolarmente?
Familiari e amici sono stati in nostri primi fans! Ma non solo, sono state le prime persone con le quali confrontarci e mettere a fuoco il progetto. Insomma, sono il nostro “territorio amico”.
Probabilmente la vostra vita sarà cambiata dopo aver portato a termine un’avventura come questa. Cosa vi aspettate per il futuro, dopo “Unlearning”? Il vostro proposito di sperimentare nuove forme di vita e di economia avrà un seguito?
In realtà i cambiamenti sono iniziati già da ora! “Imparare, disimparare per imparare nuovamente”. E quando rientreremo a casa dopo sei mesi, chissà! Magari saremo felici di ritornare alla nostra quotidianità, oppure… Questo sarà il finale del nostro documentario!
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Discontinuità: è la parola chiave per comprendere l’andamento e l’esito finale delle elezioni per il comune di Roma, nel giugno del 2013. Il risultato ha parlato chiaro. Discontinuità, nei confronti degli anni disastrosi della giunta Alemanno, non votato neanche dagli elettori di centrodestra. Discontinuità, anche verso le ultime esperienze delle giunte di centrosinistra che, pur avendo non avendo fatto male in molti ambiti, sono indissolubilmente legate a una fase storica ormai definitivamente trascorsa.
La candidatura di Ignazio Marino ha rappresentato proprio questo: discontinuità. Un outsider lontano dalle diatribe interne al PD, interno a una cultura di sinistra e disponibile a occuparsi di questioni cruciali della vita cittadina anche schierandosi contro poteri fortemente consolidati.
Sulle politiche culturali, in particolare, il tema della discontinuità ha assunto una rilevanza significativa. Nei fatti, non solo la giunta Alemanno è stata messa duramente sotto accusa, ma lo sono state anche le politiche nazionali dei governi di centrodestra e delle larghe intese che proprio sulla cultura si sono abbattute con una veemenza degna di altre cause.
Roma è stata la città che ha pagato il prezzo più alto di queste scelte. Ma è stata una città che ha reagito, ha tentato di resistere e si è organizzata combattendo questa deriva che tutti sanno poter comportare dei costi altissimi per la partecipazione critica dei cittadini e per la vita democratica.
Oggi vediamo che la stessa forte spinta dal basso che ha portato all’elezione di questa maggioranza al Comune di Roma, si stia tramutando comprensibilmente in una forte pressione in termini di aspettative di cambiamento. A questa pressione se ne aggiungono altre: le difficoltà economiche e finanziarie della crisi attuale; gli attacchi e le polemiche di chi pensava di “contare di più” in una logica vecchia che la giunta attuale non vuole condividere e, naturalmente, le bordate mediatiche di chi è stato abituato a fare sempre il bello e il cattivo tempo nella città. Insomma: c’è di che preoccuparsi e non dormire sonni tranquilli.
La nomina di Flavia Barca alla guida dell’assessorato alla cultura, per molti aspetti ha rappresentato uno degli esiti della spinta alla discontinuità. Sarebbe sbagliato definirla “un tecnico”, nonostante la sua serietà e le sue competenze. Piuttosto si tratta di una “indipendente” saldamente ancorata all’interno di una cultura politica di sinistra con una rete qualificata di contatti nel mondo degli studi e della ricerca, in Italia e all’estero.
Dopo un periodo di assestamento, l’assessore Barca si è impegnata in un’agenda fittissima di incontri con gli operatori del settore. Ora arriva il momento dei segnali concreti anticipati da dichiarazioni di intenti chiari e forti.
Barca vuole cambiare metodi di governo nella cultura a Roma: bandi e concorsi per le nomine e trasparenza nella gestione. Tra non molto sarà la volta della sovrintendenza e la vedremo alla prova.
Vuole valorizzare il patrimonio archeologico e museale. Per questo sembra voglia allargare il campo agli investitori stranieri e privati. Cosa buona solo se la governance pubblica mantiene chiara la definizione di quei beni che sono e devono rimanere comuni e non essere privatizzati. Men che mai svenduti per usi privati, spesso impropri. Servono ai cittadini romani, italiani e di tutto il mondo. Appartengono a loro.
Ha dichiarato di voler implementare le politiche di decentramento coinvolgendo i Municipi e utilizzando il sistema delle biblioteche pubbliche come presidi culturali sui territori. E per questo ha voluto ridisporre dei fondi che Alemanno aveva fatto tagliare.
Si dichiara interessata a valorizzare i talenti sul territorio romano.
Infine, e non in ultima istanza, come ha recente dichiarato a un quotidiano, vuole occuparsi della domanda di cultura devastata in qualità e quantità negli ultimi vent’anni.
Grandi ambizioni. Non certo realizzabili nel ciclo di pochi mesi. Ma non è questo che le si chiede. Le si chiede piuttosto di assumere da subito il ruolo di indirizzo che le compete.
Di non perdersi nel balletto e nelle polemiche in cui sicuramente la costringeranno i media romani che vorranno parlare solo di nomine e di fondi. Insomma le si chiede di decidere.
Nulla potrà essere perfetto. Anche i bandi, in alcuni casi, potrebbero contenere in sé il morbo del disimpegno da parte dell’amministratore pubblico. E i fondi saranno comunque insufficienti. Ma ci sono gli spazi inutilizzati da mettere a disposizione. C’è da dare nuovo ossigeno alla cultura del contemporaneo. C’è da ripensare l’estate romana. C’è da ragionare sulla miriade di piccoli editori e sul circuito delle librerie indipendenti. C’è tanto altro ancora.
A Roma ci sono le risorse umane e intellettuali per costruire un sistema di collaborazioni che valorizzi la città nella direzione del recupero dello spazio pubblico, del bene condiviso secondo una chiara gerarchia di valori. Che sia consapevole che la cultura rappresenti un formidabile volano dell’economia e della vita sociale.
Certamente occorrono idee e progetti e occorre l’Europa. Ma occorre soprattutto costruire un’alleanza con chi in questi anni ha lottato per affermare la centralità delle politiche culturali nella vita della città; con chi opera e ha operato per dare alla gestione dei beni culturali quelle caratteristiche di razionalità, efficienza e trasparenza nella gestione, e quella reputazione necessari per vivere e crescere anche sul piano economico. Insieme sarà possibile farcela.
Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione
Nel Febbraio del 2012 abbiamo scritto su Tafter:
“Le fiere di arte contemporanea sono uno straordinario volano di economia, sia per il territorio sia per il Paese di appartenenza, a patto che seguano delle semplici regole: siano governate da persone del settore (Curatori e Art Consultant con taglio curatoriale), siano progettate per ospitare grandi opere, siano collegate ai circuiti internazionali, siano presidiate da commissioni di esame dei vari stand (e quindi delle varie gallerie) che sappiano cosa sia la qualità delle opere e degli artisti.Tutte queste condizioni sono venute meno nell’edizione 2012 di ArteFiera Bologna Art First (questo il nome intero della manifestazione di fine Gennaio di ogni anno).”
Adesso possiamo dire che queste condizioni si sono pienamente realizzate nell’edizione 2013 di Artissima, la Fiera internazionale di Arte Contemporanea di Torino (prima settimana di Novembre).
Cominciamo dall’inizio: cos’è una Fiera di Arte Contemporanea?
Di fiere ce ne sono centinaia; per l’esattezza 250 fiere di arte moderna e contemporanea in tutto il mondo.
Solo alcune rispondono ai requisiti di cui al virgolettato sopra e, come per tutta l’arte, solo quelle di qualità sono quelle fondamentali per il settore, per la città che le ospita e per l’economia del Paese di riferimento.
Una fiera di qualità è gestita da un Curatore esperto, preparato e con i risultati nel background: non il curriculum, i risultati. Un professionista che abbia selezionato vari artisti e teorizzato nuovi linguaggi e nuovi filoni culturali e che, in seguito, abbia visto riconosciute le sue intuizioni e accreditati i suoi studi. Uno scienziato in piena regola, come sono gli artisti stessi, d’altronde.
Questo Curatore deve saper scegliersi il Comitato Esecutivo della fiera stessa, cioè gallerie e altri critici/curatori che garantiscano l’integrità delle gallerie partecipanti (che fanno richiesta ma devono presentare un progetto credibile, altrimenti non vengono ammesse, anche se pagano…) dal punto di vista etico, di bilancio, qualitativo e, come nel caso di Torino, della ricerca. Perché Artissima ha un’identità precisa riconosciuta a livello internazionale: è la fiera dove si presentano gli artisti di ricerca, i risultati dell’ultimo anno di esperimenti e innovazioni, il panorama aggiornato internazionale di quella che una volta avremmo chiamato Avanguardia.Dici poco. Il meglio della cultura visiva mondiale condensato in 4 giorni di eventi, una kermesse divertentissima di mostre di altissimo profilo e progetti culturali di contaminazione tra le arti che durano invece due o tre mesi dopo la chiusura di Artissima. Tutta la città è pervasa dall’arte contemporanea (come Parigi durante la FIAC a fine Ottobre e Basilea durante Art Basel a metà Giugno), comprese le famose Luci d’Artista, straordinarie e giganteggianti luminarie natalizie che la Città di Torino, anni fa, ha commissionato a molti dei migliori artisti che avessero avuto un rapporto con Torino stessa.
Insomma, come tornare al barocco: arte ovunque ti giri. A partire dalla fiera, un fenomeno considerato commerciale che, invece, è assolutamente e altamente culturale ed economico per almeno 12 delle 250 fiere d’arte del mondo.
Ci siamo capiti?
Il meccanismo è semplice, si fa per dire: la Nazione comunica al mondo di avere un’anima colta, e una lucida e aggiornata attenzione intellettuale rispetto all’arte, disciplina che innerva la vita dell’uomo dalla notte dei tempi e gli insegna le possibilità di evoluzione (senza l’espressività non ci si specchia, senza specchi non si indagano ulteriori possibilità di evoluzione…). Una città per ogni Nazione (o due al massimo) organizza una fiera di arte contemporanea per offrire al mondo un compendio della produzione artistica dell’anno precedente (non letteralmente ma quasi) e, contestualmente, la possibilità di acquistare (e supportare) i giovani artisti o la ricerca in genere che, notoriamente, ha bisogno di risorse molto più dei fenomeni istituzionalizzati (conservatori come siamo…).
Tutto il mondo dell’arte, dai grandi musei alle grandi gallerie fino ai collezionisti grandi e piccoli, vengono a verificare gli stati d’avanzamento dell’arte evoluta, si fermano in città per 4 giorni, visitano le mostre, comprano le opere, mangiano nei ristoranti e dormono negli hotel ma, soprattutto, portano intelligenza; si forma un circolo virtuoso che noi chiamiamo Economia Neuronale: la gente cresce, i bambini si divertono in modo intelligente, gli imprenditori sviluppano aziende in un humus molto più favorevole. L’impresa nasce dalle idee, le idee vanno nutrite con una immaginazione strutturata, tutti i giorni….
Lo scriviamo dal 1999, ma stavolta Torino ha dimostrato che si può fare. Noi parliamo tutti i giorni con gli operatori e i collezionisti internazionali, e sono tutti entusiasti di questo pezzo d’Italia. Questa è l’Italia che gli piace, questo è quello che ci chiedono: insieme ai rubinetti, al vino e al bunga bunga, noi, da sempre, siamo il Paese dell’arte.
Per cui, adesso che abbiamo una fiera di altissimo profilo (Torino viene classificata come la quinta al mondo ed è un risultato eccellente perché ha cambiato gestione e indirizzo solo da pochissimi anni) dobbiamo risolvere un altro, annoso e dannoso problema: con un IVA ridicola al 22% sulle opere d’arte, tutto il lavoro viene vanificato.
I nostri collezionisti e tutti gli altri comprano nei Paesi evoluti, dove l’IVA sull’arte è al 7% o al 10% e le ricadute economiche, tra le quali l’enorme gettito fiscale, il lavoro dei corniciai, dei trasportatori, dei vetrai, dei galleristi e degli artisti, dei musei e degli addetti, vengono perse a favore dei Paesi che sanno fare i conti.
È una di quelle cose di cui la Nazione non può andare fiera.
Francesco Cascino è Contemporary Art Consultant e Presidente dell’Associazione Culturale ARTEPRIMA
Mentre qui lanciano un film di Zalone in 1200 sale, in Scandinavia, UK, Repubbliche Baltiche lanciano azioni di largo impatto in cui centinaia di artisti entrano in migliaia di scuole (Creative partnership, Cultural Rucksack), in altri Paesi tutti i ragazzi imparano a suonare uno strumento (sull’esempio de El Sistema di Abreu che sta cambiando il volto del Venezuela, ma anche in Olanda o Germania).
Marco Magnifico il vice presente del FAI in un seminario ci raccontava: “Volevamo misurare la distanza tra il FAI e il National Trust inglese. Migliorarci, capire. Ero in visita in un magnifico parco pubblico gestito dal NT e mi sono fermato a guardare delle peonie particolari. Lì accanto c’era un giardiniere che faceva il suo lavoro con la zappetta. Ha notato la mia sosta su quel fiore e si è avvicinato. Abbiamo dialogato per cinque minuti e mi ha spiegato quello che sapeva della pianta, ha risposto alle mie domande si è stupito per le varietà che nascono da noi. L’ho salutato e, uscendo, ho detto alla direttrice del posto ‘Un giardiniere è stato gentile a dedicarmi il suo tempo per spiegarmi tutto di un fiore che non conoscevo’. Lei ha risposto: ‘Non è stato gentile, è pagato per farlo. I giardinieri, come i custodi dei musei, sono pagati per dedicare l’80% del loro tempo alle mansioni specialistiche e il 20% per far sentire il visitatore accolto, fidelizzarlo, appassionarlo’. Lì ho capito che in Italia non ce l’avremmo mai fatta”.
In effetti l’abituale immagine fantozziana del custode di un museo scolpito sulla sua seggiolina fa già apparire ipercinetico il casellante autostradale. Di certo la colpa non è sua, ma non è neanche innocente. Come non lo sono i manager e la politica. Oggi poi, con la crisi e le spending review, la domanda “Ha senso investire nella crescita, nella valorizzazione e nella partecipazione culturale?” assume un’urgenza vitale.
Per alcuni è facile dire “No”, e lo fanno osservando i costi e i miseri incassi di Teatri, Musei, Biblioteche, Centri Culturali.
Io la penso al contrario ma sono convinto che occorra lavorare duro per far percepire il valore che hanno l’arte e il patrimonio culturale per la vita e la democrazia altrimenti i fiori di Van Gogh valgono le erbacce di uno spartitraffico e i Caravaggio le pennellate di un imbianchino.
Non bastano qui le spiegazioni romantiche, le pretese ovvietà, né le evidenze intellettuali sempre confutabili da chi ha altri interessi e sensibilità. Servono Indicatori di impatto Culturale che come quelli di Impatto Ambientale o Economico possano quantificare cosa significhi aprire o chiudere un museo, ma anche costruire una ferrovia su un parco o preservare le botteghe storiche di una zona.
Forse non si può misurare la bellezza ma, ad esempio, la solitudine sì, e con essa il suo ‘costo’ per i singoli e la collettività.
Indicatori ragionevoli di Impatto Culturale possono zittire chi ha interessi anticulturali e vuole vendere le spiagge e quello che esse rappresentano per far cassa.
Si può fare: si possono misurare i suicidi, gli alcolisti, le violenze. Posso misurare la partecipazione alla vita della comunità, la penetrazione e l’uso della banda larga, le propensioni xenofobe e omofobe, la diffusione delle droghe e degli strumenti musicali tra gli adolescenti.
E gli antidoti all’isolamento e alla solitudine sono la cultura e il lavoro, entrambe coniugate col rispetto e la passione.
Si può cominciare allora a ragionare su qual è l’impatto concreto dell’aprire un teatro in un quartiere periferico, quanto valga far partecipare gli abitanti della zona alle attività di un Centro Culturale, quale sia l’impatto culturale di un Bingo o di un centro commerciale; e anche il valore di laboratori artistici in una scuola o in un centro anziani. E quanti sollevi l’opera a Caracalla, un concerto dei Negramaro, o l’estasi davanti a un Kiefer, un Rothko, un Bernini.
Si potrebbe meglio programmare il futuro, zittire quelli che “con la cultura non si mangia” e dimostrare come quella generata dalla Cultura sia la vera energia pulita.
Andrea Pugliese è esperto di programmazione europea e autore del blog Pensieri sProfondi
Qualche decennio di esperienza professionale (consulenziale e giornalistica) ci consentono di “leggere” alcune dinamiche con sereno distacco, e forse con un discreto “valore aggiunto” critico, anche rispetto al “dietro le quinte”: come è noto, il 5 novembre scorso, si è tenuta presso il Centro Sperimentale di Cinematografia la “Conferenza Nazionale del Cinema”, fortemente voluta dal ministro Massimo Bray e dal direttore generale Nicola Borrelli (ne abbiamo già scritto con scetticismo su queste colonne); come annunciato, il 9 novembre, i risultati di quella giornata di lavoro sarebbero stati presentati al Ministro, durante un evento ad hoc del Festival del Cinema di Roma.
Da giornalisti, abbiamo atteso che il 9 novembre l’ufficio stampa del Ministero diramasse un comunicato. Il che curiosamente non è avvenuto, anche se l’ufficio stampa del Mibact è ormai discretamente famoso nell’ambiente giornalistico perché inonda le redazioni di comunicati sulle più variegate questioni riguardanti la ricca agenda del Ministro. Abbiamo osservato, con relativo stupore, domenica mattina, che la rassegna stampa dell’iniziativa è stata ridicola (articoletti soltanto su “Avvenire” e “Il Tempo” e “il Messaggero”), ma d’altronde non brilla oggettivamente per intelligenza (mediologica e politica) organizzare un incontro istituzionale durante un festival, dato che i riflettori giornalistici sono ovviamente concentrati sui film, sulle polemiche cinefile, e sulla scollatura dell’attricetta di turno. Peraltro, chi redige queste noterelle è schierato con coloro (non pochi) che ritengono errata “ab origine” l’idea di un festival romano nato con l’ambizione (presto fallita) di competere con quella che dovrebbe essere l’unica iniziativa festivaliera nazionale di respiro realmente internazionale (il Festival di Venezia), ma… questo è un altro discorso.
Quel che stupisce, e che qui vogliamo segnalare, è che non nella giornata di sabato, ma l’indomani, domenica mattina (forse resisi conto alcuni dei promotori della modestissima rassegna stampa?!), viene diramato un lunghissimo comunicato stampa sulla giornata conclusiva della Conferenza Nazionale del Cinema. Dal Mibact? No, dall’Anica (vedi la riproduzione del testo in calce: interessante esempio di velina da “captatio benevolantie”, con tono che trasuda piaggeria nei confronti delle istituzioni). Ovvero dalla maggiore associazione dei produttori cinematografici italiani, che pure tutti non li rappresenta, e che comunque incarna una soltanto delle anime del cinema (quella mercantile). Si tratta di stessa Anica che tanta parte ha avuto nella strutturazione della “Conferenza Nazionale del Cinema”, se è vero che due dei tre “tavoli di lavoro” del 5 novembre hanno visto come “rapporteur” rispettivamente una qualificata dirigente dell’associazione ed un qualificato consulente dell’Anica stessa. E ricordiamo che, qualche mese fa, furono Mibact ed Anica assieme a presentare un dossier pomposamente denominato “Tutti i numeri del cinema italiano”, che proponeva in verità un set di dati parziale, se non partigiano.
Da cittadini, prima che da ricercatori e giornalisti, ci domandiamo cosa succederebbe se il Ministero della Salute appaltasse ricerche e convegni – e finanche una… “Conferenza Nazionale della Salute” – all’associazione dei proprietari di ospedali privati: qualcuno – saggiamente – obietterebbe almeno sull’opportunità, e forse su una qualche contraddizione interna del rapporto tra “pubblico” e “privato”, e finanche su qualche rischio di conflitto di interessi (anche se viviamo in un Paese nel quale, in materia, sembra tutti o quasi digeriscano anche i sassi).
In Anica, ci sono sicuramente intelligenze interne di alta qualificazione (tra le migliori del Paese, riteniamo), ma forse le strategie cognitive e politiche del Ministero dovrebbero avvalersi anche di intelligenze più plurali, data l’estrema delicatezza della politica culturale in un Paese come l’Italia, e data anche la qualità del suo estremo policentrismo.
E non dimentichiamo che presso il Mibact esiste (sulla carta, ormai) un Osservatorio dello Spettacolo (istituito dalla cosiddetta “legge madre” del 1985, che creò il famigerato Fondo Unico per lo Spettacolo alias Fus), struttura che è stata via via depotenziata (e definanziata) nel corso degli anni, “subappaltando” a soggetti come la confindustriale Anica e la ecclesiale Fondazione Ente dello Spettacolo (per molte centinaia di migliaia di euro l’anno) segmenti di quello che dovrebbe essere un “sistema informativo” centrale del Ministero, e soprattutto l’analisi critica del settore e delle sue potenziali strategie di sviluppo.
Attendiamo di leggere i lavori ed i risultati della Conferenza Nazionale del Cinema, non appena il Ministero li renderà pubblici (il che, ad oggi, non è). Ci auguriamo di non dover andare a cercare gli atti della Conferenza sul sito web dell’Anica…
Per ora, dalla rassegna stampa (e da quel che ci ha raccontato qualcuno dei partecipanti alla kermesse), emerge un gran bel concetto, non riusciamo a comprendere (un nostro limite, certamente) quanto innovativo e rivoluzionario: il Ministro Bray ha sostenuto che l’intervento pubblico dello Stato a favore della cinematografia deve passare da uno stadio soltanto “dativo” ad uno stadio “interattivo”. Potenza degli slogan!
Post scriptum.
Ecco il comunicato stampa diramato dal Mibact a fine mattinata di sabato 9 novembre:
Il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Massimo Bray, sarà lunedì 11 novembre in Sicilia, a Racalmuto, per la presentazione del progetto “La strada degli scrittori”. Un itinerario turistico – culturale legato a tre grandi autori siciliani: Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Dopo la presentazione il Ministro percorrerà con un breve tour i luoghi amati dagli scrittori: a partire da Racalmuto per arrivare a Porto Empedocle attraverso la Valle dei Templi di Agrigento, visitando le case natali, le statue, i teatri, paesaggi amati dai maestri della narrativa.
Ecco il testo del comunicato stampa diramato dall’Anica nella prima mattinata di domenica 10 novembre 2013:
Conferenza nazionale del cinema.
Bray: il comparto che si unisce crea positività e insieme si possono superare gli ostacoli
Tozzi: Bray sia il referente istituzionale della nuova GovernanceSi è tenuta il 9 novembre presso il Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica la seconda fase della Conferenza nazionale del Cinema convocata dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Massimo Bray. Nel corso dell’incontro pubblico sono state esposte le relazioni di sintesi dei tre tavoli di discussione che avevano caratterizzato la prima fase della Conferenza nazionale. Organizzati presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, i tre tavoli avevano analizzato temi di rilevanza per il settore quali il mercato nazionale, i modelli di distribuzione e le politiche pubbliche.
Condotta dal Direttore Generale per il Cinema Nicola Borrelli, in un clima di positiva collaborazione tra gli esponenti della politica e quelli della filiera cinematografica presenti, la conferenza ha fornito un quadro lucido della situazione attuale analizzando le criticità che attanagliano il settore e prospettando delle soluzioni ai problemi, da realizzare sotto l’egida di una nuova Governance di settore, ben definita, che tuteli tutte le parti in gioco.
Il Ministro Bray ha espresso consapevolezza per la complessità del settore e per le sue problematicità ma ha dichiarato la volontà di superare gli ostacoli attraverso questi tavoli di lavoro e di confronto (“da non abbandonare mai”), simbolo di un nuovo sistema più ricettivo alle richieste del settore culturale.
L’unione di intenti tra istituzioni e industria ha fatto sì che il Presidente Anica Riccardo Tozzi proponesse pubblicamente il Ministro Bray come riferimento istituzionale di questa Governance e come portavoce di questa collaborazione a tutela dei diritti dei consumatori e di quelli dell’industria.
L’analisi.
Il sistema industriale audiovisivo e gli assetti del mercato in Italia ruotano attorno alle televisioni. La quasi totalità delle risorse però è a vantaggio di un numero ristretto di tv generaliste e di un duopolio editoriale. Il risultato è che tutto il potere assegnato a sole due imprese ha creato uno squilibrio tra produttori di contenuto e distributori, influendo negativamente sul prodotto. La chiusura del mercato distributivo non poteva che omogeneizzare il prodotto, che si è ormai etichettato e customizzato secondo uno schema rigido che prevede produzioni sicure per un target di pubblico di massa. Nessuna serialità con respiro internazionale, una produzione chiusa, un mercato chiuso con pochissime possibilità per la produzione indipendente.
Uno dei primi obiettivi di questa Governance sarebbe di diminuire il numero di tv generaliste, di aumentare e di rinnovare le linee editoriali e, soprattutto, di rendere obbligatori gli investimenti e la programmazione di prodotti provenienti da produzioni indipendenti.
Questa Governance deve essere centrale, statale, ed avere una visione totale della produzione dell’audiovisivo nazionale, ovvero lavorare a contatto con le regioni e con le film Commission, coordinandole e assegnando loro ruoli definiti e precisi ma non delegando gli oneri.
Nel contesto del mercato, il primo tema analizzato è stato quello relativo all’esercizio, con un grido d’allarme per la chiusura di un numero sempre maggiore di monosale cittadine, penalizzate da una pressione fiscale sempre in aumento, dalla impossibilità alla multiprogrammazione e dai costi per la digitalizzazione. In generale, tutto l’esercizio ha lamentato il problema fiscale e, soprattutto, il fenomeno sempre più crescente della pirateria.
A questo proposito è intervenuto Francesco Posteraro dell’Agcom, che ha confermato l’arrivo a breve termine di una regolamentazione precisa e più rigida sulla pirateria digitale, crimine da combattere prima che distrugga la produzione, ovvero un regolamento per la “protezione dei contenuti contro la predazione degli stessi”. L’attività di repressione non sarà quella di un controllo poliziesco della rete ma, su richiesta della parte lesa, si andrà a colpire i siti e i provider coinvolti nella diffusione illecita di materiale protetto da diritto d’autore.
Altro tema fondamentale è stato l’aggiornamento degli strumenti di implementazione delle risorse. Tutti gli strumenti, dal fus al credito d’imposta passando per i contributi agli incassi, al sostegno alle produzioni ritenute di interesse culturale o di autori di opere prime, vanno analizzati e ricalibrati. Inoltre si potrebbero ripristinare alcuni vecchi contributi ormai in disuso, purché aggiornati, e prendere in prestito dall’estero i modelli di contributo più più vincenti come il crowfunding, le lotterie e i gruppi di investitori per pacchetti di film.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
A quanto pare la diceria che dai momenti di crisi si viene fuori più forti, nuovi e positivamente resettati, non è finzione ma realtà. Il collasso economico che ha interessato l’Europa negli ultimi anni sta rivelando sorprese impensabili riguardo alle direzioni che l’economia e la società contemporanee stanno prendendo.
Abbiamo passato una fase di capitalismo sfrenato, di predominanza dell’egoismo e dell’individualismo, di chiusura verso il prossimo. Ancora adesso subiamo gli strascichi di questo stadio, che potrebbero sembrare acuiti dalla crescente predominanza della realtà virtuale sulle vite di ciascuno di noi. In realtà è proprio dal mondo della tecnologia e del virtuale che stanno nascendo i primi germogli di quella che potrebbe essere una vera e propria rivoluzione sociale. Un nuovo cambio di rotta nel modo di vivere i rapporti individuali e comunitari.
Uno startupper bolognese, di origini fiorentine, Federico Bastiani, un bel giorno si è reso conto di ignorare l’identità dei suoi vicini di casa. Se un tempo il quartiere era la comunità per eccellenza, luogo di pettegolezzi e piccoli sgarbi, ma anche di condivisione e comunione, oggi, chiusi nei nostri piccoli o grandi appartamenti, viviamo giornate isolate, costellate da cenni del capo e freddi convenevoli. Bastiani ha pensato di voler modificare questo status di cose, quantomeno nel suo quartiere e, quasi per caso, ha dato il via al primo esempio di social street.
A settembre ha creato un gruppo chiuso su Facebook – strumento tra i più semplici e democratici, anche perché gratuito – per chiamare a raccolta gli abitanti della via Fondazza di Bologna. Ha stampato dei volantini per dare notizia della sua iniziativa e li ha distribuiti nei condomini del quartiere. In più di 300 hanno risposto, creando la prima comunità cittadina che nasce con l’intento precipuo di “scollare” dagli schermi di un pc le stesse persone con le quali condividiamo un pianerottolo e che non abbiamo mai conosciuto, per avviare forme di collaborazione, di sostegno, di aiuto reciproco, di scambio di idee, socialità e quando serve, anche di merci.
Non si tratta solo di un esperimento sociale, infatti, ma anche dell’incarnazione di un sistema economico che sta prendendo sempre più piede in diverse forme. Teorizzata qualche anno fa dalla studiosa Loretta Napoleoni, la pop economy sta diventando la risposta più concreta alle magagne della crisi, che fa un baffo alle spesso finte riforme dei politici. È l’economia del popolo, quella basata sullo scambio, sul baratto, sul dare e sul ricevere, gratis o in cambio di qualcos’altro. È l’evoluzione di eBay, che evita lo spreco, incentiva il riciclo e assicura il risparmio. Lo spiegano bene sul sito che è nato dall’esperienza di Bastiani, www.socialstreet.it: “Dovete cambiare il frigorifero? Perché metterlo su ebay, creare un annuncio, pagare una commissione, pagare un trasporto quando magari il vostro vicino di casa ne sta cercando proprio uno come il vostro?”. Lo stesso vale se non si vogliono buttare le uova prima di partire per le vacanze, se serve l’aiuto di una baby sitter, se si cerca un appassionato di cinema con cui condividere il proprio hobby, se si vuole trovare una comitiva di amichetti al proprio bambino, e così via. Dalla rete, da internet, dai social, si passa di nuovo alla realtà, alla strada, al quartiere.
Di esempi di pop economy ce ne sono molti altri: dal bike e car sharing, al cohousing, dal couchsurfing al baratto turistico in cambio di cultura, dalle comunità ormai diffusissime in tutta Italia “Te lo regalo se vieni a prenderlo”, fino agli swap parties nel quale scambiarsi vestiti e altri oggetti.
Di necessità si fa virtù e l’unione fa la forza, l’uomo ha una grande capacità di adattamento e si è stancato di vivere da solo. Non semplici luoghi comuni, ma un ritorno vero e istintivo al branco.
“C’è grossa crisi”, direbbe qualcuno. I privati investono con oculatezza e parsimonia. Il settore pubblico è sempre più propenso a cercare fondi, piuttosto che a elargirli. L’arte e la cultura rimangono, però, dei settori di vitale importanza nel nostro Paese che richiedono cure, supporto, incentivi, sostegno.
Alla luce di questo nuovo scenario, si profila la necessità, sia per pubblici che per privati, di rivolgersi ai cittadini stessi per mantenere e tutelare fiori all’occhiello della vita culturale di una città. I fruitori stessi vengono chiamati a sostenere determinate strutture e realtà con tipologie diverse di “crowdfunding”, cioè di “finanziamento da parte della folla”, che si personifica in elargizione di fondi, acquisto di azioni, o finanziamenti in qualità di soci.
Nell’ambito del settore pubblico, è degli ultimi giorni la notizia del lancio di una raccolta di crowdfunding per salvare il portico di San Luca di Bologna, “Un passo per San Luca”. Si tratta del portico più lungo al mondo, più di 3 chilometri, costruito nel 1677, che adesso però necessita di un restauro. Si sta crepando in molti punti e per riportarlo al suo splendore è necessaria una raccolta fondi di almeno 300.000 euro. È lo scopo che si sono posti Comune di Bologna, Arcidiocesi di Bologna, Basilica di San Luca, Quartiere Saragozza, con il supporto della piattaforma web di crowdfunding territoriale, GINGER. Enti pubblici e privati, associazioni, società e semplici cittadini possono contribuire con un’offerta minima di 5 euro, oppure con un’offerta di 20 o 100 euro, che dà accesso ad alcuni vantaggi. Se la raccolta andasse a buon fine, il portico tornerebbe realmente al centro della vita della città, non solo perché fruibile e restaurato, ma anche perché espressione della collaborazione di tutta la cittadinanza al mantenimento di un’opera architettonica così prestigiosa.
Esempi diversi di coinvolgimento civico provengono, invece, dai privati. È il caso del progetto “Diventa amico de laVerdi”, noto anche come “Un mattone per la cultura”. Nel 2008 la Fondazione dell’Orchestra Verdi di Milano ha acquistato il 100 per cento delle azioni della Immobiliare Rione San Gottardo, di proprietà dell’Auditorium, costituendo il primo caso in Italia e in Europa in cui un teatro è di proprietà dell’Orchestra che lo utilizza. Con lo scopo di ottenere maggiori finanziamenti, ha avuto l’autorizzazione da parte della Consob, dopo un lungo processo, di vendere il 49 per cento delle azioni ai cittadini. Ogni azione ha il costo di 6 euro e sono acquistabili in pacchetti di almeno 150 azioni. Si tratta di una chiamata alla cittadinanza per “partecipare dal punto di vista immobiliare e culturale al patrimonio della città”, come ha sostenuto il direttore generale della Fondazione, Luigi Corbani (fonte La Repubblica). Quello che la Fondazione propone a chi decide di diventare azionista dell’Orchestra Verdi è un vero e proprio progetto culturale che assicura la partecipazione diretta alla vita dell’Orchestra, concerti, eventi speciali e altri vantaggi.
Infine, un altro caso è rappresentato dal Museo Civico Gaetano Filangieri di Napoli che rischia la chiusura per mancanza di fondi e di personale. Pochi mesi fa è stata istituita una onlus, “Salviamo il museo Filangieri”, presieduta da Maria Piera Leonetti, con lo scopo di finanziare l’attività e la sopravvivenza del museo attraverso visite guidate, concerti, presentazione di libri, laboratori, concorsi e altri eventi speciali. Il prossimo, che si terrà il 16 novembre, è un’asta aperta a tutti, sia a coloro che sono interessati ad acquistare, sia a coloro che vogliono semplicemente partecipare all’evento, magari decidendo di diventare soci. Le opere messe all’asta sono state donate da 51 artisti contemporanei tra i più quotati del momento: Kounellis, Mauri e Jodice, solo per fare alcuni nomi.
Il coinvolgimento attivo dei cittadini nella vita sociale e culturale della propria comunità è sicuramente un momento importante, positivo e, a volte, anche educativo. Il fatto che si richieda anche il loro aiuto economico e finanziario è probabilmente anche il segno che il nostro Paese ha bisogno di politiche culturali maggiormente strutturate, regolamentate ed efficaci.
Un’annotazione giornalistica preliminare, che sottoponiamo all’attenzione della comunità dei lettori di “Tafter”. Questa mattina (martedì 5 novembre), si tenevano a Roma in contemporanea 4 eventi, tutti di un qualche interesse per gli appassionati di cultura e gli operatori del settore: il convegno intitolato “Pubblico-privato. Patto per la cultura”, promosso da Civita nella fantastica sede di Piazza Venezia; la “Conferenza Nazionale sul Cinema”, presso il Centro Sperimentale di Cinematografia (e su questo evento, abbiamo manifestato il nostro dissenso metodologico sulle colonne di “Tafter”); l’incontro “Dialogando intorno ai beni, alle attività culturali e il turismo”, promosso dalla Direzione Generale per gli Archivi (retta ad interim da Rossana Rummo), presso il Collegio Romano; e, infine, presso la stessa storica sede del dicastero, la presentazione dei risultati della commissione di studio istituita dal Ministro Bray per la riforma del Ministero.
Seguire tutti gli eventi avrebbe implicato la disponibilità di uno stuolo di inviati, il mitico dono dell’ubiquità o comunque una capacità di teletrasporto di cui il modesto cronista che redige queste noterelle non dispone. Abbiamo quindi deciso di concentrarci sull’incontro che, almeno sulla carta, si annunciava essere l’iniziativa “strategica” più rilevante: la presentazione dei risultati della commissione di studio per la riforma del Ministero. Anche se crediamo che l’agenda odierna debba stimolare una riflessione su ricchezza e dispersioni, tipiche del nostro Paese e sintomatiche di alcune dinamiche: beltà del pluralismo e del policentrismo, oppure spreco di risorse e di intelligenze?!
Anzitutto, un’annotazione su stili di comunicazione del Ministero: il collega Luca Del Frà, eccellente firma de “l’Unità”, ha pubblicato uno “scoop”, e nell’edizione odierna del quotidiano ha anticipato il documento, che è stato illustrato oggi al Collegio Romano, ma che non è stato distribuito ai partecipanti all’incontro né ai giornalisti. La portavoce del Ministro, Caterina Perniconi, ha sostenuto che lei stessa non disponeva del documento, e già questo la dice lunga (sulle capacità di Del Frà, raro caso italico di appassionato giornalista specializzato – come Paolo Conti del “Corriere della Sera” – in politica culturale; sulla vocazione alla trasparenza del Ministero, anche se vogliamo sperare che quanto prima il segreto documento venga pubblicato sul sito web del Mibac)…
Si tratterebbe di una novantina di pagine (ma con molte centinaia di pagine nei suoi 4 “allegati”), frutto di 8 riunioni e di ben 29 audizioni sviluppatesi nel corso dei due mesi. L’elenco dell’eletta schiera degli auditi non è ancora noto, nemmeno questo.
La Commissione, istituita poco prima di Ferragosto (per l’esattezza, il 12 agosto), formata da oltre trenta persone, è stata presieduta da Marco D’Alberti (ordinario di diritto amministrativo presso l’Università di Roma “Sapienza”), che ha illustrato con chiarezza e piacevolmente il complesso lavoro della Commissione. Commissione che conclude la propria missione oggi, sciogliendosi ed affidando le sue proposte al Ministro.
La Commissione – si leggeva nel comunicato relativo alla sua istituzione – ha avuto “il compito di definire le metodologie più appropriate per armonizzare la tutela, la promozione della cultura e lo sviluppo del turismo, identificando le linee di modernizzazione del Ministero e di tutti gli enti vigilati, con riguardo alle competenze, all’articolazione delle strutture centrali e periferiche e alla innovazione delle procedure”.
Alla destra del professor D’Alberti, il Ministro Massimo Bray, alla sua sinistra Tomaso Montanari, storico dell’arte (professore associato dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”) prestato alla politica culturale, e noto anche per le sue polemiche contro Renzi per la chiusura, per una serata, di Ponte Vecchio, affittato alla Ferrari. Alla loro destra, altri tre componenti in rappresentanza della Commissione: Roberto Baratta (Presidente della Fondazione “La Biennale” di Venezia), Lorenzo Casini (professore di diritto amministrativo alla “Sapienza”) e Francesco Scoppola (Direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Umbria).
D’Alberti ha anzitutto rivendicato come la scadenza temporale imposta dal Ministro (fine ottobre) sia stata scrupolosamente mantenuta. Ha voluto enfatizzare che la Commissione ha registrato una diffusa buona qualità del personale interno del dicastero (anzi ha parlato di “altissime professionalità”), sia a livello centrale sia a livello periferico, ed ha tenuto a rimarcare che sono stati ascoltati anche i rappresentanti del coordinamento dei precari. Uno degli obiettivi della Commissione è stata l’elaborazione di proposte per rilanciare la “valorizzazione” del patrimonio culturale, intesa “non come mercificazione”, ma come stimolazione di un “patrimonio più conoscibile e fruibile”.
La Commissione ha osservato sovrapposizione di competenze e quindi l’esigenza di una razionalizzazione della struttura del dicastero: in sostanza, si assegnerebbe alle direzioni regionali (da ridurre da 17 a 14, e quindi cambiando la denominazione da “regionali” a “territoriali”) un ruolo prevalente di gestione economico-amministrativa, rilanciando invece le funzioni scientifiche delle soprintendenze, ed assegnando autonomia gestionale ad istituti e musei (“almeno ai più grandi” è stato subito precisato; i musei verrebbero peraltro sganciati dalla direzione del patrimonio del Ministero).
Per quanto riguarda la riduzione delle direzioni generali, si ipotizza anzitutto la creazione di una nuova direzione del Patrimonio e del Paesaggio che assorbirebbe le funzioni svolte dall’attuale direzione per la Valorizzazione, voluta dal governo Berlusconi nel 2009.
Si ipotizza quindi una riorganizzazione strutturale basata su due o forse tre “direzioni centrali” ovvero generali: una direzione per l’innovazione ed i sistemi informativi (con particolare attenzione alla digitalizzazione del patrimonio), una per il personale (con particolare attenzione alla formazione), una per il bilancio (con particolare cura a processi contrattuali centralizzati). Ci sarebbero poi una direzione per il patrimonio culturale (una dg soltanto, rispetto alle due attuali), una per gli istituti culturali (biblioteche, archivi, musei), una per lo spettacolo (accorpando quindi cinema e spettacolo dal vivo), una per il turismo (“forse due”, è stato precisato), ed infine una direzione generale di staff del Ministro (che curerebbe anche la pianificazione). In particolare, per la direzione generale bilancio e contratti, si guarderebbe al modello della Banca d’Italia, che ha esperienza nella gestione centralizzata degli appalti.
Secondo le previsioni della “spending review”, le direzioni generali del Mibac debbono comunque scendere da 29 a 24: quindi si avrebbero 10 direzioni generali e 14 direzioni territoriali.
In dubbio il futuro del Segretariato Generale: la Dg del Segretariato resterebbe o potrebbe, in alternativa, essere sostituita da un comitato composto da tutti i direttori generali (in questo caso le direzioni generali sarebbero 9 e quelle regionali 15). Si ricorda che la legge 135/2012, cosiddetta “spending review”, all’art. 2, prevede nei ministeri nuovi organici di posti dirigenziali ridotti del 20 per cento.
La delicata questione del rapporto tra “pubblico” e “privato” è stata liquidata con alcune pillole di saggezza: al pubblico, la direzione scientifica e tecnica, ed al privato l’organizzazione e la gestione, ma comunque sempre subordinata alla supervisione del pubblico. Così sintetizzato, sembra quasi uno slogan ad effetto, un po’ semplicistico in verità, ma dalla presentazione odierna è emersa una rinnovata vocazione alla primazia (culturale e politica) della mano pubblica, con buona pace dei neo-liberisti. Il concetto è stato ribadito da Montanari (in sintonia con le tesi che espone su “il Fatto Quotidiano” e che ha ben rappresentato nel suo pamphlet “Le pietre e il popolo”, pubblicato da Minimum Fax): il Ministero ed in generale le politiche per la cultura debbono essere interpretate come “destinate alle persone e non alle cose”, come “diritti delle persone e non diritti delle cose”. Esiste un diritto dei cittadini-persone alla miglior fruizione delle cose culturali: lo Stato deve pensare prima alle persone, e poi alle cose (anche se, anche qui, il rischio di ricetta semplicistica c’è: le se le cose vanno in vacca, cioè il patrimonio deperisce per incuria, resta poi poco da dedicare alle persone…).
Lo spettro della “spending review” è stato evocato più volte, ma si è anche teorizzato di belle riforme “a costo zero”, ovvero a bilancio invariato, così come di interventi che non richiedono modificazioni dell’assetto normativo: per esempio, prevedendo delle corsie preferenziali (nello slang del diritto amministrativo, si chiamano “laboratori protetti”) nell’assegnazione di appalti, a favore di cooperative di giovani, storici dell’arte ed archeologi ed altri ricercatori (Montanari ha posto enfasi sulle cosiddette “cooperative della conoscenza”). La complessificazione e lentezza degli appalti dovrebbe essere risolta attraverso una centralizzazione in una soltanto “stazione appaltante” e centrale d’acquisti, a livello nazionale. Montanari, che è apparso come una neo-star di queste dinamiche (con la benedizione del Ministro evidentemente), una sorta di polemista anti-Sgarbi, ha addirittura scomodato Leon Battista Alberti, sostenendo che la relazione conclusiva della Commissione è, come per “la rappresentazione pittorica”, “una finestra sulla realtà”, ma il risultato finale è assimilabile, per profondità descrittiva, ad un’opera di Caravaggio (crepi la modestia!). Belle citazioni a parte, e retorica d’autocompiacimento a parte (sul web, molti hanno criticato che un cervello indipendente ed eterodosso come il suo si sia lasciato sedurre dall’invito ministeriale ed abbia accettato la cooptazione nella Commissione), Montanari ha anche sostenuto che il sistema italiano delle mostre deve essere affidato all’intelligenza ed alla scienza, e non alle scelte marketing-oriented dei privati: i sovrintendenti debbono essere “ricercatori e non amministratori”, così come i musei debbono essere “laboratori vivi per la ricerca”.
Tra le altre proposte, è stata evidenziata anche la possibile istituzione di una Scuola del Patrimonio, sul modello dell’Ecole du Patrimoine francese. Un’idea, questa, che sembra entusiasmare il ministro, ma che richiederebbe, a differenza delle altre proposte, una legge specifica.
Il Ministro Bray ha manifestato “sentitissimi ringraziamenti” alla Commissione, sostenendo che farà tesoro delle sue proposte. Ha anche lui voluto enfatizzare la qualità del personale del dicastero (questa enfasi può apparire come “captatio benevolentiae”: che si nasconda dietro un qualche perverso disegno, e si tratti di blandizie per imminenti tagli all’organico?! à la Andreotti, a pensar male si commette peccato, ma spesso si finisce per aver ragione…), ed ha sostenuto che lo “straordinario lavoro” delle sovrintendenze “ha salvato il Paese e le sue bellezze”. Sia consentito osservare che molte bellezze non sono state esattamente salvate, nel corso dei decenni. Ha ricordato che il Ministero “non ha nemmeno le risorse per conservare, altro che valorizzare!”. Ha sorriso amaramente – con la grazia che lo caratterizza, nel suo “understatement” molto “british” – nel ricordare che “la cifra che destiniamo alla formazione professionale è di 1 euro l’anno per dipendente”. Penoso e tragico ed intollerabile, ne conveniamo, egregio Ministro, ma non ha aggiunto… “e quindi, per coerenza, mi dimetto”, come avverrebbe in un Paese normale (quale il nostro continua a non essere).
L’intervento di Paolo Baratta è stato lungo e così generico da aver prodotto in noi un quesito che spesso emerge negli italici convegni (ma cosa diavolo avrà voluto dire?!): comunque interessante la sua riflessione sul ritardo con cui l’Italia (non) “ammoderna” il proprio apparato, se è vero che l’ultima riforma della pubblica amministrazione italiana risale a vent’anni fa. Minori anche gli interventi degli altri due rappresentanti della Commissione (Scoppola e Casini), così come quello della Segretaria Generale Antonia Pasqua Recchia, che brilla sempre per la sua pacata vocazione alla più estrema moderazione.
A fine conferenza, l’alacre Del Frà ha posto un quesito assolutamente normale (vedi supra) se vivessimo in Francia o nel Regno Unito: sarà possibile accedere alla documentazione di lavoro della Commissione e leggere la trascrizione delle audizioni?! Un qual certo imbarazzo della Segretaria Generale, e risposta elegante di D’Alberti: “io ho richiesto che tutte le audizioni venissero registrate, ed ho chiesto a tutti gli auditi se v’erano impedimenti in tal senso, e quindi non dovrebbero esservi problemi, ma la decisione spetta al Ministro…”.
Per ora, il Mibac ha diramato uno scarno comunicato stampa, la gentile portavoce ha annunciato la disponibilità di una sintesi ancora non pubblicata, e le ottantotto “misteriose” pagine del rapporto di ricerca restano chiuse ben a chiave nei cassetti ministeriali. Una ragione – evidentemente – ci sarà: il Ministro ed i suoi consulenti temono forse che si scatenino i sindacati, leggendo il rapporto di ricerca?! Appena possibile, torneremo a scriverne su queste colonne, non appena il risultato della Commissione diverrà di pubblico dominio (stima e simpatia a parte, non ci va di chiedere “una cortesia” a Del Frà).
Impressione conclusiva sintetica: molte belle intenzioni, alcune un po’ generiche, altre quasi rivoluzionarie. Vediamo come il Ministro le tradurrà in atti concreti. La riforma del Ministero, di cui la conferenza stampa di oggi appare come un antipasto, dovrebbe essere portata a termine entro fine dicembre 2013, come previsto dalla succitata legge 135 (di “spending review” appunto).
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Facciamo finta che il resto del mondo non esista, altrimenti ci mettiamo a singhiozzare subito. Glissiamo con eleganza su una serie di questioni che rivelano piccoli cervelli, grandi vigliaccherie e il consueto non detto ma sottinteso. Nella nostra sempre più triste provincia dell’impero tutto è un gioco di sotterfugi e allusioni, quando non di silenzi imbarazzati. Qualcuno prima o poi si arrabbia davvero.
Formalmente si tratta di un semplice passaggio di consegne di natura burocratica: il MACRO viene posto sotto le competenze del Dipartimento Cultura del Comune di Roma e sottratto alla giurisdizione della Soprintendenza che ne portava finora la responsabilità. Sostanzialmente siamo di fronte all’ennesimo gioco di prestigio all’italiana: una struttura molteplice, funzionale e bella, oggetto di interesse e di passione da parte di un’audience non soltanto romana, più volte al centro di ipotesi strategiche e gestionali cosmopolite e dinamiche, diventa ufficio periferico della pubblica amministrazione, rinunciando a qualsiasi orientamento culturale (le parole hanno un significato, e non è il caso di indulgere in attribuzioni improprie) e accettando di languire stancamente come spazio espositivo neutrale e asettico. Chi trova i fondi può organizzarci una mostra, o qualsiasi altra cosa che non comporti una spesa da parte dell’amministrazione municipale.
Non cadiamo nella trappola delle colpe: non tocca mai al cronista imbastire processi sommari. Usando un minimo di memoria e di ragionevolezza ci appaiono evidenti le patologie ormai incancrenite che attraversano l’Italia, basti pensare ai centri culturali aperti per ogni dove con spesa milionaria, resuscitando edifici industriali o palazzi pubblici senza un briciolo di indirizzo progettuale; benvenuti nelle nuove cattedrali nel deserto.
Limitando l’autopsia a Roma, troviamo una mappa costellata di spazi notevoli per valore e per estensione nei quali la regola è tirare avanti alla meno peggio, ospitando tutto quello che capita senza alcun costrutto, estendendo progressivamente il periodo silente tra una mostra e l’altra, confidando sul dinamismo di librerie e ristoranti. Come manca il reticolo di legami con il tessuto urbano, così manca del tutto l’imprescindibile connessione con il resto del mondo.
Ad aggravare un quadro davvero desolante sale una nebbia spiacevole fatta di questioni bizantine (fondazione o azienda? Pubblico o privato?), di brividi per il giro di nomine (architetto o storico dell’arte? Conservatore o progressista?) e di sussurri e grida connessi alle parrocchie, ai club o ai circoli cui si appartiene. Sul ponte del Titanic erano più seri.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro
Foto di LittleCloudyDreams
Annunciata fin da prima dell’estate (inizialmente con l’ambiziosa denominazione di “Stati Generali”), il 14 ottobre 2014 è stata ufficializzata dal Mibact l’iniziativa promossa da Massimo Bray, la “Conferenza Nazionale del Cinema”, che si terrà martedì 5 novembre a Roma presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, con una appendice conclusiva sabato 9 novembre nell’ambito del Festival Internazionale del Cinema.
Chi scrive quest’intervento presiede un istituto di ricerca specializzato da vent’anni sulle politiche culturali e le economie dei media e, da un quarto di secolo, studia queste tematiche: nel corso di questo lungo lasso di tempo, ha osservato come il livello di trasparenza ed accuratezza del “sistema informativo” della cultura italiana sia purtroppo migliorato ben poco.
Lo stato dell’arte delle conoscenze (statistiche, socio-economiche, istituzional-normative) della politica e dell’economia culturale in Italia resta sconfortante, se confrontato con la Francia, il Regno Unito, la Germania. I dati disponibili sono frammentari e disomogenei, sia sul fronte del consumo sia sul fronte dell’offerta, le letture scenaristiche rarissime, l’analisi critica dell’intervento della mano pubblica una “mission” (quasi) “impossible”.
Stendiamo un velo pietoso sulla qualità della relazione annuale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (zeppa di dati, ma carente di lettura strategica), e registriamo che l’onda lunga di trasparenza avviata anni fa da Walter Veltroni quando fu Ministro per i Beni e le Attività Culturali è ancora in corso (la relazione annuale sul Fus è migliorata anche se resta un tomo sostanzialmente inutilizzabile, la Dg Cinema del dicastero, diretta da Nicola Borrelli, si sforza di rendere più leggibili i propri dati ma è assente ogni analisi critica), eppure siamo costretti a denunciare l’assenza di un dataset minimamente adeguato a comprendere criticamente lo stato di salute del sistema audiovisivo. Qualche mese fa, Anica e Dg Cinema presentarono un dossier statistico asettico intitolato “Tutti i numeri del cinema italiano”. Scrivemmo che l’ambiziosa titolazione doveva essere corretta con un più oggettivo “Alcuni numeri (parziali assai) del cinema italiano”, e già una sintonia “statistica” tra Mibac ed Anica stimola dubbi anche in materia di conflitti d’interesse. I “buchi” della relazione al parlamento sul Fus o della specifica relazione della Dg Cinema sono semplicemente enormi. E che dire del ministeriale Osservatorio sullo Spettacolo, che è stato anno dopo anno depotenziato, fino a ridurlo ad una scatola vuota?!
C’è un “disegno”, dietro tutto questo. Forse non esattamente strategico (perché implicherebbe una intelligenza di “policy making” di lungo periodo, che non c’è), ma frutto di dinamiche politiche inerziali, di sedimentazioni conservative. Che, alla fin fine, producono però un risultato: deficit di trasparenza, impossibilità di analisi di impatto. Dati carenti ed analisi asettiche, elaborate da tecnici “partisan” asserviti alla conservazione dell’esistente, cantori del principe. Così il dizionario Treccani definisce “asettico”: “Che è privo di forza creativa, di personalità, di mordente, o che, nelle sue manifestazioni, si rivela freddo, arido, senza calore, privo o incapace di passioni, di preferenze e sim.”: definizioni che paradossalmente ben descrivono la nostra (non) politica culturale italiana.
In un quarto di secolo, siamo riusciti a capire perché questo è lo stato dell’arte: perché, meno si sa, meglio può operare chi è all’interno del sistema (si chiami Fus o appalti Rai). Minore è quindi il rischio di critiche documentate, più ardua la capacità di comprendere le dimensioni quali-quantitative delle aree protette e delle nicchie privilegiate. Parafrasando un qual certo filosofo… “la notte in cui tutte le vacche sono nere”. E chi ha interesse alla nebbia pervasiva? Chi è protetto dalle logiche del sistema. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. E fuori resta.
E che dire della “convegnistica” in materia?! Da decenni, nello specifico del cinema, ri-troviamo le stesse “sigle” (e spesso le stesse persone fisiche a rappresentare le associazioni): Anica Agis Anec Anem Anac Apt… con qualche novello innesto, significativo (100autori) o meno (Apgci). Talvolta ci sono anche i “giornalisti”, ovvero Sncci e Sngci (i due sindacati, “critici” e “giornalisti”, ricordando che l’Italia è l’unico Paese al mondo con due sindacati di giornalisti specializzati in cinema), talvolta i sindacati… Balletti rituali tra lobby grandi e piccole, che stancamente si ripetono. Infinita noia.
Da decenni, registriamo raramente rappresentanti di associazioni che denuncino i deficit del “sistema informativo” del cinema e dell’audiovisivo: noi avremo il vizio dei ricercatori, ma domandiamo loro (così come a ministri ed assessori di turno): come diavolo pensate di “fare politica” (con… scienza e coscienza) del cinema e dell’audiovisivo, se non disponete di dati ed analisi minimamente adeguate?! Ma come può essere invocata la “spending review”, se mancano i fondamentali per capire cosa realmente produce (ed è soltanto un esempio tra i tanti) il sempiterno carrozzone di Istituto Luce Cinecittà?!
Ci stanchiamo a rievocare sempre la disattesa lezione einaudiana del “conoscere per deliberare”: è divenuto un mantra, ma finanche, purtroppo, ormai, un cliché.
L’iniziativa della “Conferenza Nazionale” sembra riprodurre la storica compagnia di giro, con una parvenza di novità di “apertura” democratica, ovvero “dal basso”: dal 14 ottobre al 22 ottobre (una finestra di tempo veramente limitata, di grazia, e comunque certamente una iniziativa mal pubblicizzata), è stata avviata sul sito del Ministero una sorta di pubblica “consultazione”. Si poteva “rispondere” ad una sorta di questionario chiuso: 18 domande 18 su macro e micro questioni del sistema cinematografico, e risposte lunghe al massimo 1.000 battute. Ma si poteva rispondere ad 1 domanda 1 soltanto! Surreale. Elogio della frammentazione?! Metodo “by Mibac” ispirato a logiche di razionalità managerial-aziendalistica “made in Usa”, che cozzano con la libertà che si deve garantire al pensiero creativo. Ed anche al pensiero critico sulla creatività!
Ci siamo rifiutati di accettare una logica così rigida, schematica, chiusa. Non abbiamo risposto – e molti come noi – e non parteciperemo alla “Conferenza”, che prevede 3 “tavoli” (“Cinema: industria culturale”, “Struttura, operatori del mercato e nuovi modelli di distribuzione e fruizione”, “Le politiche pubbliche”; già questa ripartizione evidenzia scotomizzazioni a gogò), che si terranno in peraltro in contemporanea (ed anche questo metodo è sintomatico della volontà di parcellizzare il pensiero critico).
L’architettura metodologica messa in atto è profondamente errata, perché la fisiologia e la patologia del cinema italiano richiedono un approccio organico e sistemico, dati seri e analisi critiche profonde, provocazioni coraggiose, e non l’ennesima passerella di riproposizione di tesi parziali e partigiane, frammentarie e dispersive.
Sarà comunque interessante leggere i risultati concreti della Conferenza Nazionale (in termini di lettura critica del sistema e di proposte di innovazione). Se ne produrrà.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Bisogno primario dell’uomo, fonte di piacere e occasione di socializzazione, il cibo è uno dei principali mediatori nella nostra relazione con il mondo, con altre culture e con noi stessi.
Tema centrale nella scena dell’arte contemporanea – si pensi alle ultime Biennali di Venezia – star dei palinsesti televisivi, concept della prossima Expo 2015 “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” il cibo è stato il protagonista di Tavola Periodica, un brunch itinerante dove tutti possono contribuire a finanziare progetti creativi in ogni campo dell’arte.
Tavola Periodica si ispira a Sunday Soup, progetti di microfinanziamento per l’arte e la creatività che hanno luogo a partire da cene organizzate a Chicago. Il foodraising è sbarcato in Italia grazie a CTRLZAK Studio, gruppo artistico internazionale formato Thanos Zakopoulos e Katia Meneghini e dal 2010 ha già coinvolto diverse città italiane. Domenica 20 ottobre più di un centinaio di visitatori hanno scelto di pranzare con il gustoso brunch de Le Madeleine, una selezione di prodotti food design a km zero, e chiacchierando nella suggestiva cornice della Cattedrale della Fabbrica del Vapore, uno spazio industriale dove ferro, acciaio e grandi vetrate fanno da contenitore all’arte contemporanea milanese, e sorseggiando birra artigianale hanno assistito alla presentazione dei progetti creativi da finanziare.
Designer e artisti hanno illustrato le proposte e specificato come sarebbero stati usati i finanziamenti, raccolti grazie al ricavato del brunch, e grazie al voto di ogni partecipante. I sei progetti, selezionati tra le centinaia di proposte arrivate a CTRLZAK Studio, spaziano dalla fotografia alla performance, al design alla letteratura: XY project, di Manfredi e Rossin, è una doppia sessione fotografica che vuole indagare il rapporto dicotomico tra individuo e cibo raccontando storie personali e intime. Irene Rubiano ha presentato un progetto di documentazione fotografica e mappatura degli orti solidali del Piemonte. Il cibo come nutrimento poetico è il concept alla base di L’alimentazione sentimentale, un ciclo di incontri di scrittura a partecipazione gratuita promosso da Roberta Secchi.
Plateroom, di Stefania Solari, il terzo progetto classificato, è un servizio web di ricette on demand dove utenti, golosi, piccole realtà imprenditoriali, ristoratori e viaggiatori scambiano informazioni, fotografie e ricette legate al luogo in cui si trovano. Plateroom, attualmente in fase beta, si propone come punto di incontro tra viaggiatori che hanno voglia di un piatto particolare o che magari, complici le intolleranze alimentari o la scelta di alimentarsi in modo vegetariano, biologico, macrobiotico hanno bisogno di trovare un ristorante che proponga proprio il piatto che stanno cercando.
Il centinaio di partecipanti a Tavola Periodica ha deciso di premiare pari merito due progetti con tema design e amore. Will be, ideato da Marco Salvi e Stefano Caimi, intende creare una collaborazione tra creativi e artigiani per la riscoperta e l’apprendimento delle tecniche di realizzazione degli oggetti che abitano le nostre tavole.
VegetableLove, di Michela Grisi, racconta, in modo ironico, storie di amori impossibili tra frutta e verdura che ricalcano le esperienze di vita vissuta. Nasce come una serie di tavole indipendenti, realizzate a partire dall’impressione su carta di ortaggi veri e poi rielaborati graficamente, già esposte a Berlino, e si sviluppa in un ciclo di workshop aperti al pubblico: ognuno può raccontare attraverso frutta e ortaggi esperienze d’amore tragicomiche e, se proprio non riesce a sdrammatizzare, può sempre mangiarci su.
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