Mykola-Yaroshenko-The-PrisonerNon è la caccia alle streghe, anche se molti la evocano per difendersene. Quel viandante che passasse dall’Italia in questi mesi non potrebbe restare indifferente alla gragnuola di sospetti, accuse, avvisi di garanzia e rinvii a giudizio che colpiscono con ecumenico distacco politici e amministratori di ogni schieramento e di ogni settore. Non vogliamo né possiamo (nel senso che non abbiamo gli strumenti per valutare la cosa) emettere ulteriori sentenze o comunque giudicare. Però qualche domanda emerge comunque.

Tra i tanti, e tanti sono davvero, compaiono a tutte le latitudini della Penisola assessori, dirigenti e funzionari del comparto cultura, turismo, formazione e comunicazione, con accuse che vanno dall’abuso d’ufficio al peculato passando per truffa, corruzione e concussione. Ora, evitando di cedere al gossip o alla massificazione ci si può chiedere come mai tali reati possano attecchire in area culturale, con buona pace di tutte le frasi da Bacio Perugina che affollano gli orizzonti dell’arte italiana.

Naturalmente non si tratta di una deriva antropologica. Chi si occupa di cultura non è migliore né peggiore di chi si occupa d’altro. Ma non dimentichiamo che regole cattive e procedure opache possono dare una mano a chi vuole trasformare le risorse pubbliche in gruzzolo privato: poche e trasparenti regole potrebbero quanto meno minimizzare l’estro dei delinquenti. Il fatto è che il nerbo dell’azione pubblica in campo culturale rimane esclusivamente il sussidio finanziario.

Sono fondi pubblici erogati periodicamente a copertura di tutto il versante della spesa di ogni bilancio. Non c’è collegamento con specifici flussi di spesa, né con precise desti-nazioni dei sussidi stessi, né con componenti dell’intero progetto culturale. La maggior parte delle risorse culturali non ha un reference price: sappiamo quanto costa un sacco di cemento, un chilometro di cavo d’acciaio, un’automobile, un ettolitro di benzina. Ma il lavoro di un attore, un musicista, un regista o uno scenografo, così come di un curatore o esperto d’arte non hanno una tariffa oggettiva e stabile. La cosa vale pure per strutture, oggetti e materiali.

In sintesi, le regole del gioco sono nebulose e generiche, i meccanismi di valutazione e decisione sono variegati e instabili, il monitoraggio è di fatto assente e la sanzione non prevista o comunque non credibile. Con animo laico potremmo dire che l’emersione di reati amministrativi è conseguenza naturale del reticolo di norme e prassi che quasi invitano a una certa disinvoltura. Se poi siamo – come pure avviene in moltissimi casi – in presenza di persone oneste e di professionisti limpidi dobbiamo renderci conto che l’onestà non può bastare ad arginare il piano inclinato dello sfilacciamento finanziario: anche se nessuno ruba i conti della cultura vanno peggiorando senza alcun parametro di riferimento, e guai a discuterne le scelte, come se la libertà espressiva (sacrosanta) fosse mescolata in modo inestricabile all’arbitrio gestionale (devastante).

Finché le regole non cambiano le cose non possono funzionare. Eppure basterebbe poco: fornire infrastrutture, tecnologia e formazione anziché denaro; misurare l’andamento del prodotto culturale dalla durata della sua vita economica all’ampiezza del suo bacino territoriale; monitorare la congruità delle attività con i programmi; verificare la crescita del pubblico e la sua provenienza; incentivare le connessioni esterne; premiare le innovazioni creative. Se l’azione pubblica consiste in un sussidio tutti si possono autocertificare come professionisti della cultura; se il piano si sposta al sostegno in-kind solo i programmi credibili ed efficaci potranno essere realizzati. E la tentazione di delinquere finirà per annegare nella mancanza di appigli e pretesti.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro

barcamarinoDiscontinuità: è la parola chiave per comprendere l’andamento e l’esito finale delle elezioni per il comune di Roma, nel giugno del 2013. Il risultato ha parlato chiaro. Discontinuità, nei confronti degli anni disastrosi della giunta Alemanno, non votato neanche dagli elettori di centrodestra. Discontinuità, anche verso le ultime esperienze delle giunte di centrosinistra che, pur avendo non avendo fatto male in molti ambiti, sono indissolubilmente legate a una fase storica ormai definitivamente trascorsa.

La candidatura di Ignazio Marino ha rappresentato proprio questo: discontinuità. Un outsider lontano dalle diatribe interne al PD, interno a una cultura di sinistra e disponibile a occuparsi di questioni cruciali della vita cittadina anche schierandosi contro poteri fortemente consolidati.

Sulle politiche culturali, in particolare, il tema della discontinuità ha assunto una rilevanza significativa. Nei fatti, non solo la giunta Alemanno è stata messa duramente sotto accusa, ma lo sono state anche le politiche nazionali dei governi di centrodestra e delle larghe intese che proprio sulla cultura si sono abbattute con una veemenza degna di altre cause.

Roma è stata la città che ha pagato il prezzo più alto di queste scelte. Ma è stata una città che ha reagito, ha tentato di resistere e si è organizzata combattendo questa deriva che tutti sanno poter comportare dei costi altissimi per la partecipazione critica dei cittadini e per la vita democratica.

Oggi vediamo che la stessa forte spinta dal basso che ha portato all’elezione di questa maggioranza al Comune di Roma, si stia tramutando comprensibilmente in una forte pressione in termini di aspettative di cambiamento. A questa pressione se ne aggiungono altre: le difficoltà economiche e finanziarie della crisi attuale; gli attacchi e le polemiche di chi pensava di “contare di più” in una logica vecchia che la giunta attuale non vuole condividere e, naturalmente, le bordate mediatiche di chi è stato abituato a fare sempre il bello e il cattivo tempo nella città. Insomma: c’è di che preoccuparsi e non dormire sonni tranquilli.

La nomina di Flavia Barca alla guida dell’assessorato alla cultura, per molti aspetti ha rappresentato uno degli esiti della spinta alla discontinuità. Sarebbe sbagliato definirla “un tecnico”, nonostante la sua serietà e le sue competenze. Piuttosto si tratta di una “indipendente” saldamente ancorata all’interno di una cultura politica di sinistra con una rete qualificata di contatti nel mondo degli studi e della ricerca, in Italia e all’estero.

Dopo un periodo di assestamento, l’assessore Barca si è impegnata in un’agenda fittissima di incontri con gli operatori del settore. Ora arriva il momento dei segnali concreti anticipati da dichiarazioni di intenti chiari e forti.

Barca vuole cambiare metodi di governo nella cultura a Roma: bandi e concorsi per le nomine e trasparenza nella gestione. Tra non molto sarà la volta della sovrintendenza e la vedremo alla prova.

Vuole valorizzare il patrimonio archeologico e museale. Per questo sembra voglia allargare il campo agli investitori stranieri e privati. Cosa buona solo se la governance pubblica mantiene chiara la definizione di quei beni che sono e devono rimanere comuni e non essere privatizzati. Men che mai svenduti per usi privati, spesso impropri. Servono ai cittadini romani, italiani e di tutto il mondo. Appartengono a loro.

Ha dichiarato di voler implementare le politiche di decentramento coinvolgendo i Municipi e utilizzando il sistema delle biblioteche pubbliche come presidi culturali sui territori. E per questo ha voluto ridisporre dei fondi che Alemanno aveva fatto tagliare.

Si dichiara interessata a valorizzare i talenti sul territorio romano.

Infine, e non in ultima istanza, come ha recente dichiarato a un quotidiano, vuole occuparsi della domanda di cultura devastata in qualità e quantità negli ultimi vent’anni.

Grandi ambizioni. Non certo realizzabili nel ciclo di pochi mesi. Ma non è questo che le si chiede. Le si chiede piuttosto di assumere da subito il ruolo di indirizzo che le compete.

Di non perdersi nel balletto e nelle polemiche in cui sicuramente la costringeranno i media romani che vorranno parlare solo di nomine e di fondi. Insomma le si chiede di decidere.

Nulla potrà essere perfetto. Anche i bandi, in alcuni casi, potrebbero contenere in sé il morbo del disimpegno da parte dell’amministratore pubblico. E i fondi saranno comunque insufficienti. Ma ci sono gli spazi inutilizzati da mettere a disposizione. C’è da dare nuovo ossigeno alla cultura del contemporaneo. C’è da ripensare l’estate romana. C’è da ragionare sulla miriade di piccoli editori e sul circuito delle librerie indipendenti. C’è tanto altro ancora.

A Roma ci sono le risorse umane e intellettuali per costruire un sistema di collaborazioni che valorizzi la città nella direzione del recupero dello spazio pubblico, del bene condiviso secondo una chiara gerarchia di valori. Che sia consapevole che la cultura rappresenti un formidabile volano dell’economia e della vita sociale.

Certamente occorrono idee e progetti e occorre l’Europa. Ma occorre soprattutto costruire un’alleanza con chi in questi anni ha lottato per affermare la centralità delle politiche culturali nella vita della città; con chi opera e ha operato per dare alla gestione dei beni culturali quelle caratteristiche di razionalità, efficienza e trasparenza nella gestione, e quella reputazione necessari per vivere e crescere anche sul piano economico. Insieme sarà possibile farcela.

 

Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione

 

 

 

basilicatagirareIntervista al Direttore di Lucana Film Commission, Paride Leporace

 

Insieme alla Regione Basilicata avete promosso il bando per il finanziamento di produzioni sul vostro territorio, in scadenza l’11 novembre. Quali i principali punti di forza di tale opportunità?
Fino a duecentomila euro di finanziamento per ogni film da spendere sul nostro territorio. E una quota destinata a sperimentare la nascita di piccole imprese locali vocate all’audiovisivo. Si tratta della prima pietra per edificare un sistema di piccole e medie imprese che possano formare un distretto della creatività a supporto dell’industria cinematografica

 

Cosa consiglia alle PMI che si candideranno per ricevere i finanziamenti messi a disposizione? C’è magari qualche location particolare che vuole suggerire?
Consiglio innanzitutto di non pensare alla Basilicata come un bancomat da utilizzare nella forma usa e getta. Spero si ragioni tutti in modo virtuoso e mi auguro che qualche squalo che circola in questi ambienti venga demotivato dalla rigidità dei controlli che un bando europeo propone. Per chiarimenti abbiamo attivato un servizio FAQ consultabile dal nostro sito lucanafilmcommission.it. In merito ai set da proporre io preferisco chiamarli luoghi. La Basilicata è molto vasta, contrariamente a quello che restituisce il luogo comune. Si tratta di luoghi che a volte hanno visto l’alba dell’uomo. Sono poco abitati quindi molto cinematografici. Matera è un patrimonio dell’umanità e città del cinema. Ma abbiamo anche due mari, molti laghi, cime innevate e deserti brulli, paesini che sembrano presepi e nidi di vespe arrampicati sulle colline, cattedrali medioevali, palazzi barocchi, foreste, centri storici intatti, piccole savane, campi di grano, attrazioni con filo d’acciaio che imbracati vi conducono come un angelo da un paese all’altro a grande altezza. Un campionario di scenari naturali pronto a soddisfare ogni sceneggiatura da illuminare con una luce che ha già entusiasmato molti direttori della fotografia.

 

Che tipo di interazioni si attivano tra le produzioni che giungono da voi e le realtà locali, come imprese, associazioni, istituti culturali e amministrazioni?
C’è grande accoglienza e molta partecipazione. Le amministrazioni locali, a differenza dei luoghi metropolitani, non creano ostacoli burocratici, ma favoriscono permessi e mettono a disposizioni mezzi e risorse. Le relazioni corte lucane sono molto utili per risolvere i problemi di una produzione, dove ridurre i costi e i tempi è il primo risultato da raggiungere. Il mondo delle imprese deve attrezzarsi meglio, quello della cultura essere più propositivo.

 

Tra le produzioni che avete sostenuto in passato, quale a suo avviso ha meglio rappresentato e veicolato le bellezze della Basilicata?
“Basilicata coast to coast”, grazie ad un regista lucano come Rocco Papaleo e al racconto “on the road”, ha permesso di rendere riconoscibile la Basilicata e di renderla anche molto affascinante al visitatore che non cerca luoghi banali o scontati. Abbiamo favorito la distribuzione del film anche in Francia e  grazie a questo prodotto cinematografico abbiamo notato come  la nostra regione sia attraente anche all’estero. Tra l’altro molti studi indicano questa favorevole circostanza. Il film è nato grazie all’intuito del produttore che ha ricevuto attenzione e finanziamento dalla Regione Basilicata e dal ministero, godendo anche di un’ottima campagna pubblicitaria pagata da parte di alcune compagnie petrolifere operanti nella nostra regione. E’ stata un’ottima operazione di promozione territoriale, abbinata ad un prodotto di successo economico e artistico.

 

Che tipo di attività svolgete invece sul territorio per promuovere il cinema e la sua conoscenza? Che feedback riscontrate?
Siamo in stretto contatto con una rete di Centri della creatività, nati in Basilicata grazie alla Regione, che ha riqualificato delle vecchie cattedrali nel deserto inutilizzate affidandole a gruppi e cooperative che hanno partecipato ad un bando pubblico. In questi Centri abbiamo tenuto molti incontri con i territori e oltre ai lavoratori della creatività e del cinema abbiamo anche interagito con imprenditori, amministratori, banche e categorie produttive. La nostra narrazione dimostrativa convince sempre più persone. Siamo inoltre molto impegnati a difendere le sale cinematografiche esistenti e con un Apq tra governo e Regione speriamo di poter effettuare una sperimentazione sul nuovo cinema digitale nelle nuove sale del presente. Infine, e non da ultimo, dobbiamo formare dei cittadini spettatori che abbiano una buona cultura delle immagini, che le sappiano leggere e capire. Per questo è indispensabile partire dalle scuole e dall’Università.

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La Basilicata ha un lungo trascorso cinematografico: come spiega questa particolare vocazione?
Le inchieste sociali e i documentari aprirono la strada. Girare in Lucania era come andare in un posto esotico. Poi la spedizione di De Martino apri’ la vocazione antropologica che continua ancora oggi ad un cinema che indaga e prende a pretesto riti e costumi ancestrali. Poi la decisione di Pasolini di ritrovare la Palestina di Cristo a Matera e Barile per alcune scene monumentali del Vangelo segnerà per sempre la storia del Cinema. Da allora Matera in particolar modo, ma non solo, diventa set privilegiato per film legati alla vicenda di Gesù. Quasi un genere compresa qualche parodia, metacinema e qualche flop americano. Poi si gira “The Passion” di Mel Gibson che, grazie ai suoi incassi stratosferici e alle polemiche globali suscitate, ha fatto diventare Matera una delle mete di cineturismo più conosciute al mondo. A Pasqua il turista trova le croci sulla Murgia ormai diventato Golgota nell’immaginario collettivo. Poi c’è tutto il resto. L’esordio della Wertmuller, la trilogia di Francesco Rosi che riesce a impossessarsi dell’epopea contadina di Carlo Levi negli anni Settanta, la finta Sicilia di Tornatore. La Basilicata è un set naturale che ispira il cinema d’autore per contaminazione culturale di alcuni testi e per forza dei luoghi. Grandi documentari pure. Oggi il nuovo snodo. Mettere a sistema questo grande patrimonio.

Guarda l‘infografica che in 2 minuti ti spiega come partecipare al bando, che trovi in versione integrale qui

macroromaFacciamo finta che il resto del mondo non esista, altrimenti ci mettiamo a singhiozzare subito. Glissiamo con eleganza su una serie di questioni che rivelano piccoli cervelli, grandi vigliaccherie e il consueto non detto ma sottinteso. Nella nostra sempre più triste provincia dell’impero tutto è un gioco di sotterfugi e allusioni, quando non di silenzi imbarazzati. Qualcuno prima o poi si arrabbia davvero.

Formalmente si tratta di un semplice passaggio di consegne di natura burocratica: il MACRO viene posto sotto le competenze del Dipartimento Cultura del Comune di Roma e sottratto alla giurisdizione della Soprintendenza che ne portava finora la responsabilità. Sostanzialmente siamo di fronte all’ennesimo gioco di prestigio all’italiana: una struttura molteplice, funzionale e bella, oggetto di interesse e di passione da parte di un’audience non soltanto romana, più volte al centro di ipotesi strategiche e gestionali cosmopolite e dinamiche, diventa ufficio periferico della pubblica amministrazione, rinunciando a qualsiasi orientamento culturale (le parole hanno un significato, e non è il caso di indulgere in attribuzioni improprie) e accettando di languire stancamente come spazio espositivo neutrale e asettico. Chi trova i fondi può organizzarci una mostra, o qualsiasi altra cosa che non comporti una spesa da parte dell’amministrazione municipale.

Non cadiamo nella trappola delle colpe: non tocca mai al cronista imbastire processi sommari. Usando un minimo di memoria e di ragionevolezza ci appaiono evidenti le patologie ormai incancrenite che attraversano l’Italia, basti pensare ai centri culturali aperti per ogni dove con spesa milionaria, resuscitando edifici industriali o palazzi pubblici senza un briciolo di indirizzo progettuale; benvenuti nelle nuove cattedrali nel deserto.

Limitando l’autopsia a Roma, troviamo una mappa costellata di spazi notevoli per valore e per estensione nei quali la regola è tirare avanti alla meno peggio, ospitando tutto quello che capita senza alcun costrutto, estendendo progressivamente il periodo silente tra una mostra e l’altra, confidando sul dinamismo di librerie e ristoranti. Come manca il reticolo di legami con il tessuto urbano, così manca del tutto l’imprescindibile connessione con il resto del mondo.

Ad aggravare un quadro davvero desolante sale una nebbia spiacevole fatta di questioni bizantine (fondazione o azienda? Pubblico o privato?), di brividi per il giro di nomine (architetto o storico dell’arte? Conservatore o progressista?) e di sussurri e grida connessi alle parrocchie, ai club o ai circoli cui si appartiene. Sul ponte del Titanic erano più seri.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro

 

 

Foto di LittleCloudyDreams

 

 

 

 

valle1Il copione che ha rappresentato le vicende del Teatro Valle a Roma in questi ultimi due anni aveva tutte le caratteristiche per risultare banale, noioso e ripetitivo. E invece ha riservato una bella sorpresa.

Poteva essere solo il tristemente consueto racconto di un’amministrazione pubblica che non sa come comportarsi nel gestire uno dei teatri storici più belli, più antichi e importanti d’Italia. Poteva essere la storia di una protesta che, come in tanti altri luoghi della capitale e nel resto del paese, veniva abbandonata al proprio destino a far da testimonianza in una città distratta. Poteva essere “solo” l’ennesimo danno delle scelte politiche di un certo centro-destra che, nel nostro paese, vede la cultura esclusivamente come un costo (da tagliare) e mai come un investimento da programmare.

E invece non è andata così. Almeno non del tutto. Effettivamente la giunta Alemanno ha fatto di tutto per non affrontare seriamente la questione. Ma non gliene si può fare un torto. Per loro si trattava di ordine pubblico e non di politiche culturali. Nel frattempo però dall’Europa e dal mondo si sono moltiplicati gli attestati di solidarietà con gli occupanti. Grandi attori e grandi compagnie italiane e straniere hanno tenuto spettacoli e stage nel teatro che ha ospitato anche convegni, feste, proiezioni e seminari. Migliaia di euro ogni mese sono stati sottoscritti dai cittadini per sostenere questo sforzo. Centinaia di migliaia le persone che hanno partecipato agli eventi e assistito agli spettacoli. Migliaia gli attori coinvolti in una programmazione, spesso improvvisata, ma che ha segnato significativi e frequenti momenti di valore sia dal punto di vista delle novità che della qualità artistica. Ed è stato questo che ha risvegliato i cittadini dall’indifferenza. Non solo protesta ma soprattutto proposta. Non solo cultura “alta”, che a molti incute ancora qualche (sacrosanto) timore reverenziale, ma anche cultura popolare.

Naturalmente il teatro Valle è stato anche in parte il refugium peccattorum di chi, non riuscendo a prendere atto dei propri limiti, se la prendeva con i limiti degli altri. Ma questo è il (piccolo) prezzo da pagare quando si decide di aprirsi all’esterno non dovendo e non volendo selezionare. Insomma, l’occupazione del Teatro Valle è stato il periodo sabbatico dello spettacolo dal vivo: si sono rimescolate le carte e dalla protesta si è tentato di indicare una via d’uscita, in forma libera e autonoma. Tutto questo a due passi dal Pantheon e da piazza Navona, in un centro storico sempre più “gentrificato”, devoluto al turismo di massa nonostante sia di facile accesso anche per i cittadini romani.

Non era affatto scontato che succedesse: il teatro Valle rappresenta un’esperienza unica e preziosa che non può andare dispersa. Per questo va salutata positivamente la nascita della Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Una “nuova istituzione culturale”, come l’hanno definita i promotori, che è riuscita a garantirsi l’adesione di circa 5,000 soci e l’acquisizione di opere d’arte donate dagli artisti per raggiungere la quota di capitale sociale. Finalmente quell’esperienza esce dal cono d’ombra in cui non si poteva distinguere nettamente tra legalità delle norme e atti di forza, per quanto giusti e forse addirittura doverosi. Finalmente possono rasserenarsi gli sguardi corrucciati di chi vedeva il Valle riscuotere successo mentre loro stessi versavano in mille difficoltà per organizzare spettacoli dal vivo dovendosi sobbarcare utenze, costi di gestione, pagamento dei tributi, ecc.

E’ terminata una fase, il primo atto si è compiuto. I protagonisti ora sono inseriti in un nuovo contesto, quella della Giunta Marino, che si è dichiarata disposta al confronto e alla collaborazione, specialmente negli impegni presi formalmente dall’assessore Barca. Sarà efficace la formula della fondazione che molti ritengono essere troppo onerosa? Riusciranno i protagonisti a rendere il Teatro uno spazio veramente aperto, partecipato, attento alla formazione e alle produzioni contemporanee? Oppure si adageranno in una condizione consolatoria e autoreferenziale per l’utile effimero di pochi lontano dal Bene Comune che ha costituito l’obiettivo di una protesta e, per due anni, la pratica della proposta?

Ora non è dato sapere. Certamente le possibilità innovative e le prospettive virtuose non mancano, anche se i dubbi che ancora accompagnano questa esperienza non sono stati del tutto diradati.

Lasciamo fiduciosi che il sipario si alzi di nuovo per il secondo atto.

 

 

Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione

fildelcoMilano, centro nevralgico della produzione culturale italiana, città di riferimento per l’editoria, così come per l’arte contemporanea e per la moda. Per molti la più internazionale delle province italiane,  il capoluogo meneghina è alla vigilia di un biennio fitto di impegni e di difficoltà, che si concluderà con un Expo che ha già attirato critiche e disappunti. Abbiamo parlato di questo, e di molto altro, con Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura del Comune di Milano.

 

Qual è il rapporto tra cultura e spazio urbano?
La relazione tra cultura e spazio urbano è centrale, soprattutto in una città come Milano, che ha una caratteristica molto particolare, e forse non ancora del tutto compresa e valorizzata ma che, di fatto, la contraddistingue da molte città italiane ed europee: è, infatti, una città che vanta una presenza molto diffusa di centri di creazione culturale. La pianta della nostra città, costruita intorno ad un centro immediatamente riconoscibile che, con un movimento quasi spiraliforme, va verso i confini, consente la diramazione di nuclei diffusi in cui la cultura si espande, nuclei che non sono collocati in zone circoscritte o in singoli quartieri. Ciascuno di questi luoghi intesse ha, infatti, un rapporto molto forte con lo spazio urbano circostante, diventando anche luogo di integrazione e aggregazione per i flussi sociali della città. Credo che la prima considerazione da fare sia proprio questa: essendo la cultura, uno strumento valido per la creazione di ponti di dialogo, di rapporti sociali e di aggregazione, quanto più questa riesce ad essere diffusa in maniera capillare, tanto più dispone il territorio a vivere lo spazio urbano in maniera diversa. Da questo punto di vista, ritengo che non ci sia miglior presidio di legalità per un territorio che una serie di luoghi che diffondano e promuovano la cultura.

 

Milano città della moda ma Milano è anche città dell’arte contemporanea: ritiene che quest’aspetto sia ben comunicato all’estero?
Sì, ritengo sia ben comunicato all’estero, almeno per quanto riguarda gli operatori del settore. A Milano c’è una rete molto fitta di gallerie private e varie manifestazioni, come la Fiera Internazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (MiArt), recentemente rilanciata grazie alla nuova direzione che ha sicuramente fornito un respiro più internazionale rispetto alle edizioni che l’hanno immediatamente preceduta. Però il grado di diffusione raggiunto nei confronti degli operatori, non è altrettanto diffuso presso il pubblico. Ciò nonostante, le ultime analisi inerenti il turismo rivelano che sempre di più questa città sta diventando una meta importante per il turismo culturale.

 

Cosa, secondo il suo parere personale, manca a Milano dal punto di vista culturale?
È molto difficile rispondere, perché a mio avviso, Milano è una città che non ha forti mancanze dal punto di vista culturale. Più precisamente credo che Milano abbia sempre saputo sopperire con grande capacità, ingegnosità e laboriosità ai vuoti di offerta culturale. Come uomo di cultura, e meglio ancora come cittadino, non ho mai avvertito una grave o forte mancanza. Quello su cui sicuramente Milano è in ritardo rispetto ad altre città, è la scarsa presenza di luoghi deputati alla produzione culturale rivolti ai giovani: credo che facciano molta fatica a trovare luoghi fisici e spazi istituzionali nei quali lasciar emergere il proprio potenziale creativo.

 

Questo è un problema comune a tutto il Sistema Paese, del resto
È vero, è un problema che riguarda tutto il Sistema Paese e che affonda le sue radici in due fattori principali: da un lato il Paese soffre della mancanza di un ricambio generazionale ai vertici, per cui ci troviamo con Istituzioni Culturali dirette da attori che non riescono ad intessere un dialogo fertile con le nuove generazioni, e a questo punto stiamo cercando di porre rimedio; l’altro fattore è che, ritornando all’esempio di Milano, la riconversione di spazi che il Comune potrebbe mettere a disposizione di questa emergenza culturale giovanile fatica a trovare le risorse necessarie per trasformare questi luoghi in locali agiati ed agibili.

 

In merito a questa tematica, si parla molto di collaborazione tra pubblico e privato. Il dibattito ha interessato tutte le possibili collaborazioni che si possono intessere tra queste categorie di attori, dalla partecipazione diretta alla co-gestione. Lei ritiene che questo connubio (le famose 3P) possa riguardare tutti i campi della cultura o crede ci siano dei settori che per loro natura non interessano il privato?
La collaborazione deve essere assolutamente estesa a tutti i campi, altrimenti si verrebbero a creare delle sacche di esclusione che porterebbero inevitabilmente a fenomeni di inefficienza e di recessione. Ritengo che la strada che bisogna intraprendere passi attraverso lo sviluppo di un’alleanza tra utilità pubblica e utilità privata. Il privato va coinvolto in conformità a un principio condiviso, ossia che il patrimonio cognitivo di una comunità ne innalza le potenzialità di sviluppo sociale ed economico. In questo senso il privato deve intervenire nei progetti di sviluppo culturale non tanto, o non esclusivamente, nelle forme del mecenatismo, o nelle forme del mero ritorno di visibilità, ma spinto dalla consapevolezza di investire anche sul proprio futuro. Questa consapevolezza è alla base di qualunque tipo di collaborazione, perché non si può chiedere ad attori privati di sopperire alla contrazione di finanziamenti di cui soffre il settore pubblico, senza che ci sia la certezza che ad una comunità con un alto patrimonio culturale corrisponda un terreno fertile per nuovi progetti di innovazione e di spirito di imprenditorialità, nonché slancio all’internazionalizzazione, fattori questi che si rivelano sempre più importanti per la crescita di un’utilità privata. Da questo punto di vista la grande sfida che stiamo affrontando oggi è quella relativa ai modelli di gestione: è ormai in crisi, direi in tutto il mondo, l’idea di una gestione diretta da parte del Pubblico dei luoghi produttori di cultura. Il Pubblico deve stimolare il Privato ad essere un alleato nella creazione di modelli di gestione che siano in grado di rendere questi luoghi sostenibili: è la sostenibilità, ormai, il principio fondamentale della capacità della cultura di generare un valore positivo per la comunità. Si tratta di un’idea ottima, ma è molto difficile riuscire a concretizzarla.

 

Un tentativo di questa collaborazione è però l’Expo: dal punto di vista culturale, ho notato che c’è molta difficoltà a creare un’empatia tra ciò che sarà l’Expo e la Città di Milano. Qual è la più grande difficoltà che si incontra nel comunicare un evento di questo tipo?
Credo ci sia una difficoltà quasi ontologica, perché è estremamente difficile immaginare e raccontare qualcosa che non c’è e che è ogni volta diverso. L’Expo è una grande manifestazione, ma ha ogni volta una declinazione così particolare legata al tema e al luogo in cui questa viene ospitata che è impossibile raccontarla secondo logiche comunicative seriali. Faccio un esempio banale: se Milano dovesse ospitare un grande evento sportivo (come i Mondiali di Calcio o le Olimpiadi) non ci sarebbero grandi difficoltà di comunicazione: la curiosità si concentrerebbe sui luoghi o sull’organizzazione scenografica, ma questi eventi sono immediatamente riconoscibili e riconosciuti. Un’esposizione universale è un grande evento culturale (e non solo) che assume ad ogni manifestazione forme diverse. La più grande difficoltà nella creazione di un immaginario legato a quest’evento è la totale assenza di termini di paragone forti. Ciò che però va assolutamente fatto è la costruzione di una narrazione dell’Expo come grande opportunità per Milano e per il Sistema Paese: ripensare al tema dell’alimentazione sotto i vincoli di sostenibilità, cooperazione e condivisione di strumenti e di conoscenza è fondamentale, e Milano 2015 può essere davvero l’occasione dalla quale veder nascere una nuova visione dell’alimentazione per l’intero pianeta. Questa è sicuramente un’opportunità di sviluppo che non va assolutamente sottovalutata.

 

 

 

 

 

urbino19okIntervista al Dott. Ivan Antognozzi, Project manager Urbino 2019

 

Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategia e il progetto del 2019?
Il centro storico di Urbino è patrimonio UNESCO innanzitutto, e nonostante sia una piccola città di circa 15.000 abitanti, registra una comunità di studenti molto numerosa, che si aggira sui 30.000 ragazzi, la cui presenza raddoppia la popolazione qui residente.
Urbino ha il numero di istituti di formazione più alto al mondo rispetto al numero di abitanti, come l’Università, la Scuola del Libro, l’Accademia di belle arti, la Scuola di giornalismo.
La provincia di Urbino è secondo il rapporto Symbola quella con il più alto numero di imprese creative e culturali d’Italia.
La Regione, le Marche, in cui risiede Urbino, è stata inoltre insignita quest’anno del titolo di Regione Imprenditoriale d’Europa, l’unica in Italia che negli anni abbia ricevuto questo riconoscimento.
Ci sono dunque dei primati ad Urbino che giustificano la sua candidatura e che orientano la strategia del programma culturale di Urbino 2019. Si vuole da qui iniziare per proporre un nuovo Rinascimento, un nuovo modello di sviluppo.
Non è che qui può partire un nuovo Rinascimento contemporaneo semplicemente perché in questi luoghi se n’è avuto uno 500 anni fa, bensì quella fase rivoluzionaria ha prodotto un’eredità che oggi qualifica Urbino nei termini che le ho detto. C’è un filo rosso che connette l’Urbino quattrocentesca ai primati di oggi.
Perché è così straordinaria? In fondo è un piccolo paese. In realtà è perché ha avuto un passato eccezionale che si è sedimentato. Bisogna però dare una scossa a questi fiori all’occhiello, bisogna utilizzarli, sondarli e gestirli in maniera nuova, e la candidatura serve anche a questo: a produrre uno shock in termini di internazionalità per la città.

 

Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
Per la città l’obbiettivo è quello di riconquistare una centralità culturale in Europa. Le Marche tutte si devono riconoscere in Urbino, affinché diventi un simbolo di appartenenza in cui identificarsi, un faro policentrico di un intero territorio, piccolo anch’esso, con i suoi 1 milione e mezzo circa di abitanti. La città è il punto più alto, una sintesi del patrimonio culturale disseminato nella Regione.
Urbino 2019 ha degli obiettivi importanti anche sul piano della macroregione adriatica. Le Marche sono la sede del segretariato permanente delle iniziative adriatico-ioniche. Spacca, il governatore delle Marche, è stato il relatore del parere sulla macroregione adriatica presso il Comitato delle Regioni. Qui hanno sede tre dei quattro network importanti dell’area mediterranea adriatico- ionica: Forum delle Camere di Commercio, Uniadrion e il Forum delle Università.
Le Marche sono dunque legatissime a tutta l’altra sponda dell’Adriatico: basti pensare che il palazzo ducale di Urbino l’ha fatto un dalmata, Luciano Laurana; c’è una civiltà marinara comune che ha caratterizzato l’identità delle Marche, delle altre regioni adriatiche e di quelle sull’altra sponda. In questo contesto storico e contemporaneo, Urbino deve rappresentare la cultura di tutta la Regione nell’area macroadriatica: si presenta perciò come un ponte culturale. Un obiettivo per l’Europa è fornire un modello di sviluppo policentrico, micromega: il piccolo che diventa un contesto ideale per fare grandi cose.

 

Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
Le mancanze di fatto sono carenze infrastrutturali, le dimensioni ridotte, la trasportistica, ma devono diventare, e non è un esercizio di retorica, punti di forza. Il fatto che Urbino sia piccola, unica candidata a Capitale europea della Cultura di queste dimensioni che ci sia mai stata, o il deficit infrastrutturale, proprio queste mancanze devono connotare il nuovo modello di sviluppo. I suoi punti deboli, sono solo apparenti, perché su quelli si costruiscono i progetti volti alla crescita. Consideriamo che il 40% della popolazione europea vive in città con meno di 50 mila abitanti: Urbino dunque è un importante contesto rappresentativo della realtà europea. Anche le grandi metropoli, del resto, non sono altro che agglomerati di tante piccole città: il modello urbinate, di sviluppo micromega che si vuole proporre, si può ben replicare e conciliare con la dimensione metropolitana.

 

I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
Le Marche e tutto il suo sistema economico partecipano alla candidatura: il progetto si basa sul concetto di “corte aperta”, in maniera fattiva, dove la corte è una dimensione progettuale e operativa, in cui sono concretamente e fisicamente presenti le attività del territorio. Le imprese marchigiane aderiscono alla candidatura, non solo sul fronte finanziario, ma anche partecipando ai progetti previsti.

 

Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Tutto il programma di reti per il 2019 dovrebbe sortire un ripensamento dei servizi e delle funzioni della città in maniera permanente. Per il 2019 ci sarà una grande dimensione spettacolare, ma quello che la produce, ciò che conduce ai miglioramenti, invece, rimane. Tutti i processi, le strategie e i progetti legati alla candidatura, si baseranno su strutture permanenti.

 

Le altre candidature a Capitale europea della Cultura 2019

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MATERAIntervista al Professore Paolo Verri, direttore del Comitato per la candidatura di Matera a Capitale europea della Cultura 2019.

Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategia e il progetto del 2019?
Sono piemontese e sono arrivato da pochi anni a Matera per questo lavoro, dopo averla visitata da turista e da operatore culturale, e devo dire che Matera è una città assolutamente sorprendente, straordinaria, fuori dal normale per quello che rappresenta e per quello che può rappresentare, per il suo passato e il suo presente ma anche per il futuro che lascia intravedere. È una città in cui si abita da ottomila anni senza soluzione di continuità, ed è una città che rischiava di scomparire. Fino a quando, negli anni ‘50, Togliatti e De Gasperi, visitandola, si resero conto che le condizioni di vita erano impossibili da sostenere in quel modo. Stava rischiando di divenire una città come Petra o Cuzco e rimanere disabitata. Invece, nella metà degli anni ’60, è stata riabitata e l’arrivo di Pasolini negli anni ’50 ha cominciato a far intendere quale potesse essere l’immaginario che scaturiva da quella città, il suo binomio di natura e cultura, l’aspetto del costruito e dell’intaccato, del non toccato, e cominciò a nascere l’idea delle grandi mostre di arte contemporanea da organizzare nei Sassi nella seconda metà degli anni ’80. Poi, grazie all’impulso di Pietro Laureano, è arrivato il riconoscimento di Matera come parte del Patrimonio Mondiale Unesco, prima città del sud ad ottenere questo onore. A partire da allora, cioè dal 1993, la città ha cominciato ad avere una storia completamente diversa: invece che precipitare in un collasso, ha cominciato a re-immaginare il futuro e una riqualificazione, grazie soprattutto ai materani che hanno immaginato un futuro possibile. Oggi ci troviamo in un nuovo momento di svolta, dopo che il turismo è cresciuto del 200% negli ultimi dieci anni ci si chiede: cosa fare di questa città? Matera può diventare un parco tematico sulla demo-antropologia o può rimanere una città in cui si intende produrre cultura, dare stimolo alla creatività e attrarre giovani da tutto il mondo, senza lasciare che l’unica sorte possibile sia quella di aspettare turisti. Ed è proprio questa la sfida della candidatura: mettere in gioco tutti questi temi e capire come possano essere di servizio anche per altre città simili in Europa e nel mondo.

 

Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
Per quanto riguarda Matera, il dossier inerente alla candidatura non è top secret: le idee che si possono avere in merito ad una città, lo dico come urban planner, sono per forza di cose diverse rispetto a quelle che si possono avere per un’altra, perché ogni città ha una sua identità e una sua individualità. Le cose vengono fatte su misura. Il nostro, quindi, è un processo aperto, abbiamo una community online con la quale abbiamo discusso dei contenuti. Dal 19 settembre comunicheremo tutto attraverso la Rai, su Materadio.

La prima componente del nostro dossier per la candidatura è il metodo: abbiamo riscontrato che si sta sviluppando, a partire dalla candidatura, una sorta di “istinto partecipativo”, come lo definisce Charles Darwin, cioè nel nostro caso la capacità e la voglia del cittadino di mettersi in gioco per candidarsi. Su questo facciamo leva. Questa voglia di partecipare dà il titolo al dossier di candidatura, “Insieme”, che richiama un importante libro pubblicato da Richard Sannett l’anno scorso, “Togheter”, un invito ad una economia e ad una politica collaborative. Se, infatti, il ‘900 è stato il secolo della competizione, il XXI secolo non può che essere il secolo della collaborazione, pena la sparizione di forme di urbanità ed urbanesimo.

La seconda componente riguarda i contenuti: a cosa si applica il metodo? A cinque temi in particolare, contenitori di contenuti.
1)    Il futuro remoto: quelle cose che sono così avanti da richiamare un passato lontano nel tempo. Ad esempio: a Matera esiste il Centro di Geodesia Spaziale italiana. In questo luogo si studia come cambia la terra nel corso dei secoli, quali sono gli impatti causati da certi fenomeni naturali, dagli tsunami in Giappone, ai terremoti in tutto il mondo, ad altri fenomeni legati a stelle, asteroidi e così via. Così come fa il Centro di Geodesia Spaziale, noi immaginiamo che le politiche e il cambiamento debbano essere valutate non solo in un tempo breve, ma anche e soprattutto in un tempo lungo e quindi il tema del futuro remoto riguarda la capacità di scrutare lontano tenendo ben presente quali sono le necessità del presente.
2)    Radici e percorsi: roots and routes. A partire dalle nostre radici lontane nel tempo, si tratta di considerare cos’è successo nei nostri territori, incontrando forme di società e momenti storici diversi gli uni dagli altri: l’impatto dell’arrivo dei greci, il nostro territorio facente parte della Magna Grecia, Pitagora e Zenone che abitavano in quella che era la Grande Lucania, l’apporto dei bizantini, degli arabi, dei Borboni e più recentemente le nuove indicazioni che consentono di coltivare i campi. Si tratta, quindi, di avere una grande attenzione verso la diversità e una grande considerazione verso il mutamento sociale e come questo si adatta al mutamento culturale.
3)    Connessioni e ricezioni. Bisogna fare in modo che in certe società interamente digitali, invece di vivere il tema della frammentazione, si dia spunto alla riflessione e all’approfondimento dei propri pensieri culturali. Allo stesso modo, gli strumenti che abbiamo non devono tarpare le nostre ali, ma devono aiutarci a vivere meglio, da qui ai prossimi quindici anni, sempre in maniera collaborativa.
4)    Continuità e rottura. Matera nel passato ha rischiato il collasso, ma noi non vogliamo diventare una città basata solo sul turismo, non perché non amiamo i turisti, anzi, ma perché li consideriamo “cittadini temporanei”, persone che devono aiutarci a dare continuità al cambiamento.
5)    Utopie e distopie. Matera nel corso dei secoli ha vissuto diverse utopie: dall’utopia socialista di Campomaggiore, all’utopia di Adriano Olivetti che ha creato il più importante villaggio agricolo contemporaneo negli anni ‘50, fino alla marcia per Scanzano Ionico in cui 100.000 persone si sono opposte all’idea che la Basilicata diventasse deposito di scorie radioattive. Quindi un luogo di utopie positive, ma un luogo in cui si vivono anche certe volte delle distopie. Vogliamo discutere di tutto questo lungo 12 mesi di attività.

La terza componente riguarda l’investimento sui temi di cultura. Si pensa che Matera sia lontana, in realtà a Matera si arriva molto velocemente attraverso Bari: siamo a 300 km da Bari, connessi con 4 corsie e prossimamente saremo collegati in 50 minuti con un treno che parte da Bari Centrale. Ma siamo percepiti come lontani e quindi è necessario lavorare su questa percezione. Siamo riconosciuti, poi, come una città dal grande passato architettonico, ma vogliamo anche rinnovare e lavorare su quattro aree della città: una riguarda proprio i Sassi, all’interno dei quali faremo rinascere un’area disabitata attraverso un museo multimediale, il Museo Demo-etno-antropolgico, o DEA, che sarà un esempio di come debba essere un museo contemporaneo  in Europa oggi, un museo fatto di esperienze, interazione e non di semplice visione di teche.
Un secondo grande asse di sviluppo sarà il Castello Tramontano, un castello del 1500 dentro un grande parco, che ospiterà l’Università e la nuova università, un luogo di attrazione di studenti dall’Italia e dall’estero.
Poi una grande area dedicata alle cave,  dalle quali si estrae la calcarenite, materiale molto duttile, con la quale vengono costruite le case di Matera. Dentro le cave creeremo un centro per spettacolo, intrattenimento, congressi, utilizzando delle strutture temporanee, quindi con un impatto molto basso sul consumo di suolo.
La quarta area è quella del borgo La Martella di Adriano Olivetti, voluto dal grande imprenditore piemontese e disegnato da due grandi architetti e urbanisti, Ettore Stella e Ludovico Quaroni.
È previsto un investimento complessivo di circa 700 mila euro sulle infrastrutture e le trasformazioni urbane, e un investimento di circa 50 mila euro sulle attività dell’anno in cui Matera sperabilmente sarà capitale.

 

Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
La mancanza principale è proprio quella per cui ci candidiamo: proponendo Matera vogliamo entrare nella mappa d’Europa. Oggi la crescita del turismo straniero è straordinario. Se il turismo italiano cresce dell’11 %, il turismo straniero cresce del 30% l’anno. Questo perché abbiamo degli ottimi alberghi e attiriamo un pubblico di fascia alta di lunga permanenza, che punta sulla qualità. Tuttavia la nostra produzione culturale e la nostra innovazione tecnologica non sono al livello dell’Europa. Il nostro punto di debolezza è proprio la nostra sensibilità nei confronti delle reti europee e internazionali e il fatto di candidarci significa cercare di essere consapevoli di ciò e rimediare.

 

I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
Ritengo, per mia esperienza, che non sia possibile pensare ad un progetto per lo sviluppo turistico e culturale, autonomo, si può fare soltanto considerando le altre città, gli altri grandi attrattori. Dobbiamo essere altamente collaborativi e cooperativi. Per questo lavoreremo per una sempre maggiore attrazione turistica, assieme alle altre città candidate. A tal proposito abbiamo dato vita ad un organismo, Italia 2019, un cappello sotto al quale ci riconosciamo e collaboriamo tutti.

 

Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Posso rispondere con una battuta: prima vinciamo, poi vediamo. Noi, intanto, attueremo tutto quello che è previsto nel dossier di candidatura: sia lo sviluppo delle quattro aree urbane, sia la comunicazione correlata ad esse, sia il programma culturale. Se dovessimo vincere, questi progetti verranno attuati con maggiore velocità, intensità e redditività, perché qualunque titolo se ben giocato dà queste opportunità. Matera ha conosciuto un primo salto di qualità tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80, un secondo tra l’82 e il ’93, ora le spetta un altro balzo in avanti. Le rimarrà l’orgoglio di continuare a cambiare, sapendo che soltanto nel cambiamento c’è la vita.

 

Le altre candidature a Capitale europea della Cultura 2019

sieIntervista al Professore Pier Luigi Sacco, direttore della candidatura di Siena a Capitale europea della Cultura 2019.

Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategia e il progetto del 2019?

Siena ha un’identità territoriale molto forte, legata ad un patrimonio tangibile e intangibile conosciuto in tutto il mondo. In realtà, non è tanto la presentazione di questa identità che ci interessa ai fini della candidatura, quanto le modalità con le quali questa identità permette di affrontare e risolvere le problematiche che il territorio si trova oggi a fronteggiare.

Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?

Non è ancora possibile, in questa fase, parlare in maniera esaustiva dei temi del dossier di candidatura, perché al momento devono restare riservati. Il tema principale sul quale lavoriamo, però, è il rapporto tra patrimonio, soprattutto intangibile, e innovazione sociale. Vogliamo dimostrare che il patrimonio intangibile può divenire un grandissimo asset competitivo per ridefinire in senso positivo l’economia del territorio.

Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?

Il fatto che in questo momento il territorio sia in uno stato di profonda crisi economica e la situazione di forte instabilità politica, a causa della quale il comune è stato commissionato per una anno, sono sicuramente le principali difficoltà che dobbiamo affrontare. A nostro vantaggio, però, devo dire che il territorio, da questo punto di vista, ha reagito molto bene, si è stretto intorno alla candidatura, aiutandoci a superare queste difficoltà.

I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?

Assolutamente sì. Il programma coinvolge tutte le categorie di operatori della città, da quelli culturali, a quelli economici, a quelli sociali, al volontariato, agli ospedali, alle prigioni. C’è posto per tutti.

Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?

Rimarrà una parte economica assolutamente trasformata rispetto a quella di oggi, rimarranno un paio di istituzioni nuove che, credo, aiuteranno la città ad avere un grande peso nel quadro internazionale. Ma soprattutto rimarranno un’energia e una mentalità nuove per utilizzare la cultura come volano per lo sviluppo economico.

 

Le altre candidature a Capitale europea della Cultura 2019

percdceIntervista al Prof. Lucio Argano, della Fondazione “Perugiassisi 2019”.

 

Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategia e il progetto del 2019?
La candidatura di Perugia deriva dalla costituzione di una apposita Fondazione per gestire l’iter, formata dalle istituzioni della città, ma anche dalla Regione Umbria e dal Comune di Assisi – tanto che è nato l’equivoco della candidatura Perugia-Assisi.
Questa proposta è in effetti volta a far sì che quel che verrà fatto in tale ambito, si riverberi su tutto il territorio regionale, con una sponda valoriale su Assisi, con i luoghi di San Francesco.
L’identità del progetto intende valorizzare l’esistente, la storia di Perugia, la sua internazionalità, in quanto sede di quattro strutture accademiche e alcuni centri di eccellenza formativa.
Perugia e l’Umbria, soffrendo della crisi economica e della mancanza di un obiettivo forte che rivitalizzi il territorio, ha trovato nella candidatura motivo di rilancio. La Regione ha infatti goduto di un certo benessere, ma dal 2001 sta registrando la caduta di produzione, con la chiusura di centri dell’industria pesante, come le acciaierie di Terni, e la perdita di alcune produzioni alimentari. L’Umbria rimane però una meta molto attrattiva, come dimostrano i dati sulle migrazioni: il territorio continua ad essere ospitale, assicurando un buon livello di welfare a tutti.
Il progetto di candidature vuole cercare di valorizzare gli aspetti migliori di Perugia e dell’Umbria, correggendone quelli più negativi.

 

Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
Perugia si candida coinvolgendo il territorio come riverbero della città e con grande attenzione rispetto agli elementi valoriali della Regione, per rilanciare le sue peculiarità e uscire da una crisi che sta patendo e che rischia di condurre al declino.
L’Umbria sta cercando una nuova spinta e crediamo che la cultura sia la leva giusta e necessaria cui far riferimento.
Tra gli asset che intendiamo mettere in campo c’è l’internazionalità di Perugia, con l’Università per Stranieri in primis, il patrimonio materiale umbro, come quello paesaggistico, artistico e architettonico, ma anche quello immateriale, costituito da appuntamenti ed eventi culturali come il Festival di Spoleto, l’Umbria Jazz, senza dimenticare attività e imprese che si muovono sulle industrie creative, come l’azienda Cucinelli, conosciuta in tutto il mondo.
Queste sono le basi da cui partire per sviluppare una serie di progetti che si muovano su direttrici di cambiamento e crescita. E’ in campo, ad esempio il recupero dell’ex carcere di Perugia, ad ora dismesso.

 

Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
Facendo una disamina obiettiva, abbiamo molti punti di forza, mentre quelli di debolezza, quando lavori su progetti a larga scala, si concentrano sulla difficoltà di costruire un consenso diffuso, anche ad alti livelli. Speriamo ad esempio nella possibilità di interloquire con le istituzioni statali, affinché ci consentano di impiegare spazi di proprietà pubblica per svolgere attività e realizzare progetti. Oltre al consenso e alla ricerca degli appoggi statali, rimane comunque il grande impegno a trovare finanziamenti e sponsor che rendano il tutto sostenibile.

 

I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
Le candidature per il titolo di Capitale europea della Cultura 2019 rappresentano, al di là di tutto, uno stimolo importante per tutte le città in lizza, un’occasione grande per tornare a progettare, dopo che la crisi e la situazione politica italiana ha giustificato una situazione di stasi generale. E’ stato costituito inoltre un tavolo tra alcune delle città candidate, chiamato Italia 2019, attorno al quale ci si è impegnati a scambiare informazioni, fare un sito web, un logo condiviso, con l’idea che la Capitale europea della Cultura 2019 rappresenti una crescita diffusa.
In tal senso la candidatura di Perugia, diversamente dalle altre in lizza, oltre a coinvolgere le istituzioni locali, ha costituito una fondazione di partecipazione. Il soggetto che gestisce tutto il progetto è dunque una fondazione che al suo interno raccoglie al momento quasi 100 soggetti, in rappresentanza quasi dell’intera società civile: oltre alla Regione, alle amministrazioni di Perugia e Assisi, ci sono anche i Comuni, compresi quelli più piccoli, gli artigiani, le imprese, la Camera di Commercio, le associazioni culturali, ecc. Quel che è stato fatto fino ad ora è il frutto di un lavoro comune, emerso dall’ascolto di tante componenti, con oltre 120 incontri sul territorio, che hanno avuto modo di esprimersi all’interno della fondazione, designata inoltre di verificare il lavoro via via svolto.

 

Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Alla città rimarrà un metodo di lavoro e potrebbe sopravvivere la fondazione che magari sarà convertita in uno strumento per il territorio e le istituzioni, qualora lo decidano le diverse componenti. Naturalmente, se Perugia vincesse il titolo, godrebbe anche di utili infrastrutture e di importanti spazi recuperati.

 

Le altre candidature a Capitale europea della Cultura 2019

 

 

 

 

 

cortona

Una giornata ed una nottata incredibile, nel piccolo centro storico di Cortona, qualche giorno fa (il 4 Agosto per la precisione), quando Lorenzo Jovanotti ed il suo J team, composto da Saturnino, Riccardo Onori, Leo di Angilla, Franco Santarnecchi e Marco Tamburini hanno “riempito” di persone e di musica Piazza Signorelli e tutta Cortona.

Duemilatredici i biglietti polverizzati in poche ore per poter assistere ad uno show unico, una data a sorpresa ed inattesa, arrivata subito dopo quel #lorenzoneglistadi, il Backup tour, che ha riempito stadi e città di mezza Italia.
La data di Cortona è stata inserita per la serata conclusiva del Cortona Mix Festival, alla seconda edizione, ma già “ricco” di storie da raccontare ed impreziosito anche dalla collaborazione con La Feltrinelli.  Un festival “sulla frontiera”, tra letteratura e musica, una vera rarità in questo momento storico – culturale in cui sembra che la letteratura interessi solo a pochi.

Invece il successo è stato incredibile; il Mix Festival per tutta la sua durata ha riempito le piazze e la cittadina, e nella serata conclusiva, l'”invasione” pacifica, non solo per Lorenzo, ma anche per Roberto Saviano, intervenuto nel pomeriggio ai Giardini Parterre ed anche al concerto di Jovanotti in Piazza Signorelli in serata.
La bella Italia, quella che saremmo orgogliosi di esportare all’estero (e non quella politica, ahinoi!), era lì a Cortona, ed ha trascorso una “notte fantastica”.
Pur conservando il cuore e la genuinità locale, tra i protagonisti assoluti c’erano: il borgo ed il centro storico, ma anche le frazioni nella valdichiana, in fondo alla collina, che si contraddistinguono per accoglienza, ospitalità, bellezza, cultura, sorrisi, buon cibo e buon vino.

Ed è giusto sottolineare anche una organizzazione perfetta, per i pochi fortunati che hanno potuto assistere al live in Piazza e per chi era invece nei pressi dei maxischermi, posizionati in ben 3 punti della città, due nel centro ed uno a Camucia, una delle frazioni di Cortona.
Oltre il Cortona Mix Festival, la vocazione di accoglienza del territorio si percepisce nell’ideazione e nella realizzazione di altre iniziative, che offrono ai “viandanti” momenti culturali e bellezza del borgo: Cortona on the move, festival della fotografia di viaggio che si tiene dal 18 Luglio al 29 Settembre, in vari punti della città e Cortonantiquariato, con un occhio speciale per la prima volta anche al design, che si terrà dal 24 Agosto all’8 Settembre, nel Palazzo Vagnotti ed i cui manifesti comparivano già il giorno successivo al grande evento targato Jovanotti.

Queste iniziative, inserite in un progetto di valorizzazione, con lungimiranza e voglia di fare, rendono Cortona – la perla della Toscana – in più di un’occasione “l’ombelico del mondo”.

 

Foto da instagram di @svoltarock

cinemaIl 7 agosto 2013 è stata diramata dall’Agis del Lazio la notizia dello stanziamento, da parte della Regione di altri 650mila euro per la digitalizzazione dei cinema. Un intervento che prevede un contributo a schermo pari al 60 % dell’investimento, fino a un massimale di 30mila euro.
Si tratta quindi di un secondo bando regionale a sostegno della digitalizzazione dei cinema non inseriti nel precedente intervento annunciato il 20 giugno (che prevede risorse per 3 milioni di euro), ossia sale parrocchiali e arene.

Secondo l’Anec (l’associazione degli esercenti cinematografici, l’anima più importante all’interno della potente lobby Agis), si tratta di un intervento “particolarmente importante, perché permette di aumentare il numero dei soggetti beneficiari, che, senza la digitalizzazione, avrebbero rischiato di chiudere, con gravi riflessi anche occupazionali”. Da segnalare che, per la prima volta, potranno usufruire dei contributi stanziati dalla Regione Lazio per l’acquisto di impianti (ovvero sistemi e apparecchiature per la proiezione cinematografica digitale) anche le associazioni senza scopo di lucro, le fondazioni (?!), nonché i soggetti non assimilabili al sistema delle piccole-medie imprese (pmi) che gestiscono le “sale della comunità”, le arene e i cinema ambulanti.

Nello specifico, si tratterebbe di 25 arene, 13 sale della comunità, 10 cinema gestiti da associazioni culturali e 5 cine-mobili. Chi scrive quest’articolo è un appassionato cinefilo, ma francamente non ha mai avuto chance di fruire dei… “cine-mobili”, che peraltro – evidentemente – esistono (si pensava fossero un ricordo del passato, ovvero del cinema delle origini, ed invece si scopre con nostalgica lietezza che così non è!). Il giovane Presidente dell’Anec Lazio, Giorgio Ferrero (titolare dell’omonimo Circuito Ferrero, 31 schermi), esulta, ed enfatizza che il bando rappresenta un “unicum” a livello nazionale, perché la Regione Lazio interviene così “organicamente” a sostegno della digitalizzazione su “tutto il sistema dell’offerta”.
Fin qui, l’entusiasmo dei beneficiari, e ben venga. È peraltro ben comprensibile, in questo periodo di vacche magre.

Non entriamo in merito di letture contrastanti delle dinamiche in atto, ma non possiamo non ricordare che il 23 giugno, le lavoratrici e i lavoratori delle 8 sale di Circuito Cinema di Roma (King, Eden, Fiamma, Maestoso, Quattro Fontane, Giulio Cesare, Eurcine, Nuovo Olimpia) hanno scioperato per tutta la giornata contro l’annunciato licenziamento di 23 lavoratori su un totale di 61 occupati nel Circuito. I lavoratori lamentavano che la Regione avesse concesso importanti finanziamenti pubblici, senza confrontarsi anche con le parti sociali, ovvero con i dipendenti, e senza richiedere agli imprenditori alcuna “contropartita occupazionale”. Nello specifico “theatrical”, la modernizzazione del digitale determina effetti paradossali, come la riduzione della forza-lavoro (“è il capitalismo, baby…”?!).

Soffermiamoci piuttosto, ancora una volta, su un discorso “alto”, ovvero sul “senso” strategico di questi interventi (e tralasciamo quell’… “organicamente” ottimista di Ferrero), in chiave critica di politica culturale: domandiamo, ancora una volta, se si tratta di iniziative che sono maturate a seguito di un’analisi attenta dei fabbisogni complessivi del sistema culturale.

Il cinema (inteso come “cinema cinema”, cioè la fruizione “theatrical”) è in crisi, profonda, radicale. A livello nazionale ed ancor più a livello regionale.
Nel 2012, a livello nazionale, sono state 91,3 milioni le presenze in sala, rispetto ai 101,3 milioni del 2011: in un anno soltanto, si sono persi ben 10 milioni di ingressi (si tratta di stime Cinetel, dato che la Siae non ha ancora rivelato i dati definitivi). Basti ricordare che l’Italia ha meno della metà degli spettatori cinematografici della Francia, che ha superato anche nel 2012 la soglia dei 200 milioni di biglietti venduti.
Ci limitiamo a segnalare che, secondo dati elaborati dall’Agis Lazio presentati in occasione di una conferenza stampa del 6 giugno a Roma, tra il 2010-2011 ed il 2011-2012 (“stagione”, concetto peraltro non meglio identificato), il cinema nel Lazio avrebbe registrato questi preoccupanti indicatori negativi: – 15 % di ingressi al botteghino, ovvero – 12 % in volume d’affari. In sostanza, avrebbe perso 1 spettatore su 6 da un anno all’altro. Inquietante.

Il 20 giugno, il Presidente della Regione Nicola Zingaretti e due suoi assessori Lidia Ravera (Cultura) e Guido Fabiani (Sviluppo Economico), avevano già annunciato – con convinto entusiasmo – uno stanziamento da 3,4 milioni di euro per la digitalizzazione. Questa la provenienza annunciata dei fondi pubblici: 3 milioni da fondi Por Fesr Lazio 2007-2013 (ah, benedetta Unione Europea!), e 400mila attraverso il (ora tanto vituperato) Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo (esercizio 2011, quindi evidentemente residui dei famosi “15 milioni l’anno” tanto voluti da Polverini e Santini). Si annunciava che i 400mila erano destinati alle sale di comunità, arene, e cinema minori. Evidentemente – in itinere – sono state reperite risorse per 650mila, a fronte dei 400mila annunciati un mese e mezzo fa. Bene.

I 3 milioni annunciati erano destinati a contributi a fondo perduto, pari al 70 % e con un limite massimo di 200mila euro (non comulabile con il “tax credit” digitale). Fondi erogabili tramite “sportello telematico”, e “fino ad esaurimento risorse”, con la possibilità di anticipo fino al 50 % del contributo. La determinazione n. B02722 è in data 1° luglio, ed è stata pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione il 4 luglio. Il bando è aperto dal 5 luglio fino al 31 dicembre 2013. Sviluppo Lazio (“house provider” regionale) gestisce, nella veste di “organismo intermedio”, la procedura amministrativa.

In quell’occasione, fu segnalato che nel Lazio sono attivi 123 cinematografi, per un totale di 437 schermi.

Di questi, solo 245 sono digitalizzati, ovvero il 56 % del totale. Più esattamente, a Roma, sono 82 i cinematografi, con 333 schermi attivi (208 digitalizzati, ovvero il 62 % del totale), a Frosinone 8 cinema con 24 schermi (8 digitalizzati, 33 % del totale), a Latina 14 con 46 schermi (12 digitalizzati, 26 %) mentre a Viterbo 18 con 29 schermi (12 digitalizzati, 41 %).

Molti temono che dal 1° gennaio 2014 le sale sprovviste di impianto digitale vengano escluse dalla distribuzione, ma – come abbiamo già segnalato su queste colonne – si tratta di uno spauracchio agitato soprattutto dalle “major” americane, e questa dinamica dovrebbe provocare una riflessione seria, anche nel “policy maker”. Almeno per due anni ancora (2014 e 2015), i film nella sacrosanta tradizionale pellicola continueranno ad essere distribuiti, anche perché la digitalizzazione della distribuzione cinematografica è processo complesso e planetario, e procede a macchia di leopardo nelle varie aree del globo. Non risponde a verità, quindi, che, senza questa digitalizzazione, le sale “saranno costrette” a chiudere. Il processo è meno semplice e lineare di quel che alcuni intendo rappresentare.
A fronte di questi numeri preoccupanti, (ci) domandiamo: la Regione Lazio ha effettuato un censimento dell’offerta cinematografica, in funzione delle aree di gravitazione commerciale, cioè secondo le regole essenziali del marketing?
Ed al di là dell’approccio economicista, la Regione Lazio si è posta la questione essenziale dei luoghi di offerta culturale, della loro funzione di strumenti di stimolazione sociale e di aggregazione civile?
Non ci risulta esista una mappatura minimamente accurata ed aggiornata degli spazi culturali nel territorio laziale, con dati essenziali su offerta e domanda ed analisi critica dell’interazione.
Esiste un’anagrafe delle sale cinematografiche che, nel corso degli ultimi anni, sono state chiuse, a Roma ed in tutto il resto del territorio laziale? No.

Quanti sono i Comuni del Lazio che sono cinematograficamente (e teatralmente) desertificati? Non è dato sapere, nemmeno all’Assessore Ravera o al Presidente Zingaretti.
Se siamo di fronte ad una emergenza (e siamo di fronte ad una emergenza, qual è la fruizione dello spettacolo in sala), non sarebbe opportuno destinare risorse anzitutto per avviare la ricostruzione di un tessuto culturale di offerta che mostra deficit inquietanti?! Qual è la gerarchizzazione delle priorità, nella “spending review”?!

Si dirà: “prima la sopravvivenza, ovvero evitare che chiudano altri cinema”. In parte, è giusto. In parte, no. La distribuzione delle sale sul territorio (nel Lazio come ovunque) non risponde necessariamente ad ottimale allocazione dell’offerta in termini di marketing, e quindi, in chiave di lettura squisitamente economica (economicista), è forse abbastanza naturale che “il mercato” (con tutti i suoi deficit) possa determinare alcuni “fallimenti” e quindi – udite udite – anche la chiusura di cinematografi.

La “mano pubblica” deve agire con un approccio altro (ed alto): identificare laddove lo Stato deve intervenire per superare i “fallimenti del mercato”, ma anche per preservare luoghi che hanno caratterizzato e caratterizzano l’identità storico-simbolica di quartieri metropolitani, di paesi e paesini finanche. Preservare quel che potremmo definire il “paesaggio culturale” di metropoli e paesi e finanche borghi: librerie e biblioteche, cinema e teatri, luoghi di spettacolo e cultura di ogni tipo e natura (incluse le botteghe artigianali, che cultura viva ed arte materiale rappresentano).
Intervenire peraltro soltanto sui luoghi dell’offerta (la sala), senza vincolare in qualche modo l’intervento della mano pubblica ad una stimolazione della domanda, è un errore grave: esemplificativamente, basterebbe che, nei bandi, la Regione Lazio richiedesse, tra i pre-requisiti per accedere ai finanziamenti pubblici, l’impegno dei beneficiari a proiettare una qual certa quantità di film italiani ed europei indipendenti e “di qualità” (a proposito di “qualità”, basti pensare – per evitare querelle semantiche – ai titoli di film rientranti nel progetto nazionale, finanziato dal Ministero, “Schermi di qualità”). In questo modo, si andrebbe sostenere (intelligentemente) l’offerta e si stimolerebbe (culturalmente) la domanda, non limitandosi a soltanto consentire ai multiplex dominanti e finanche alle sopravvissute sale parrocchiali di proiettare “digitalmente” (uào!) i film commerciali soprattutto delle “major” americane…

Queste iniziative debbono stimolare una opportuna riflessione sul rischio di paradossi di azioni e finanziamenti che si millantano toccasana, ma poi, a ben vedere, tanto “miracolosi” finiscono per non essere.

Riteniamo che la mano pubblica debba sostenere l’offerta… altra, non quella… dominante: le piccole botteghe artigianali (e non i mega centri commerciali) e le opere “off” (e non quelle “mainstream”). “Indie” ed “off” dovrebbero essere parole-chiavi del linguaggio del “policy maker” illuminato in materia di politica culturale. Vorremmo anche in Italia, e non soltanto in Francia.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

filmfundCome è noto, Nicola Zingaretti è stato eletto nel febbraio del 2013 Presidente della Regione Lazio con 1 milione 330mila voti (41 %). Il 12 marzo è stato proclamato Presidente, ed il 22 marzo ha presentato alla stampa la nuova Giunta. Lidia Ravera ha accettato l’incarico di Assessore alla Cultura ed allo Sport e, ad inizio giugno, ha convocato una riunione in Regione, per ascoltare le tante voci del cinema e dell’audiovisivo (ne abbiamo scritto con dovizia di dettagli su queste colonne). Sono trascorsi 4 mesi dall’insediamento, è ora per alcuni primi provvisori bilanci. In materia di cinema e audiovisivo, cosa bollisse realmente in pentola non era di pubblico dominio, almeno fino a qualche giorno fa.
Lunedì scorso, 15 luglio, arriva un segnale ufficiale: in occasione di un incontro promosso dal Pd nell’ambito della Festa nazionale de l’Unità, intitolato “Cinema e audiovisivo. La forza del Made in Italy”, Ravera si disvela ed annuncia a chiare lettere che intende scardinare la legge sul cinema promossa da Polverini e Santini, e che non intende avviare le procedure per la costituzione del Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, da lei definita “struttura burocratica inutile che sarebbe costata due milioni di euro l’anno”.

La legge sul cinema e l’audiovisivo cui si riferisce l’Assessora, promossa dalla sua predecessora Fabiana Santini (Giunta Polverini), è stata frutto di una lunghissima gestazione, nella quale, nel bene e nel male, sono state coinvolte tutte o quasi le associazioni rappresentative del settore: dai produttori potenti dell’Anica agli autori effervescenti dei 100autori. Insomma, grandi e piccoli, “majors” ed “indies”.
Si è trattato di una legge che ha visto il plauso di apprezzati produttori come Riccardo Tozzi e Angelo Barbagallo (certamente non sospettabili di simpatie destrorse). La legge è stata approvata il 14 marzo del 2012, con 36 voti favorevoli, 5 contrari e 3 astenuti. In occasione del voto finale, l’ex Assessora (Giunta Marrazzo) ed esponente dell’Italia dei Valori Giulia Rodano (leader dell’opposizione in Consiglio Regionale durante la Giunta Polverini) dichiarò: “Questa legge quadro, annunciata da mesi in pompa magna dalla Giunta, non avrà alcun capitolo di spesa corrente nel bilancio regionale: siamo di fronte ad un assurdo politico e giuridico.

I 45 milioni di euro di cui parla la Giunta sono stati stanziati solo in conto capitale: non sono spendibili per contributi”. Si osservi come la Rodano ponesse l’accento sul rischio di finanziamenti annunciati e non concreti, e non manifestasse critiche di fuoco sull’architettura complessiva della norma.
A quanto ci è dato sapere, i primi 15 milioni di euro previsti sono peraltro stati effettivamente peraltro assegnati, e sono entrati nelle case di decine e decine di imprese cinematografiche e audiovisive italiane, grandi e piccine (forse troppi soldini alle grandi e pochi soldini alle piccole, ma questo è un altro discorso).

Molti avranno peraltro notato che buona parte dei film cinematografici italiani e delle opere di fiction audiovisiva italiana che sono state proiettati nelle sale e trasmesse in televisione nell’ultimo anno recano, in bella mostra nei titoli di testa e di coda, il “marchio” ovvero il logotipo della Regione Lazio.
Gli strumenti principali della legge “Interventi regionali per lo sviluppo del cinema e dell’audiovisivo” (legge n. 2/2012, ex proposta di legge n. 135 del 13 gennaio 2011) erano giustappunto il Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo ed il Fondo Regionale, nati proprio con l’obiettivo di superare la famigerata polverizzazione policentrica degli interventi, la cui responsabilità va senza dubbio attribuita alla Giunta Marrazzo..
Il Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, dotato di uno stanziamento complessivo pari a 45 milioni di euro per il triennio 2011-2013, si poneva peraltro come primo vero Film Fund di taglio europeo di cui una Regione italiana si fosse mai dotata: 15 milioni di euro l’anno sono (erano) un budget veramente importante, di grande significatività nell’economia complessiva del sistema audiovisivo italiano.
Certo, alcuni automatismi previsti dalla legge potevano essere criticabili: ad esempio, a chiunque avesse realizzato nel Lazio una certa “percentuale” della propria opera cinematografica o audiovisiva qualificata come “prodotto culturale” da uno specifico test, sarebbe stato assegnato (troppo) meccanicamente un contributo
Va rimarcato che non esistono studi valutativi indipendenti sull’efficienza ed efficacia della legge, né in termini di rafforzamento del tessuto industriale del settore, né in termini di estensione del pluralismo espressivo: è però un dato di fatto che 15 milioni di euro rappresentino (abbiano rappresentato) comunque un’ossigenazione forte di un sistema stremato e boccheggiante (a livello nazionale e quindi regionale).
Cosa avrebbe potuto fare la neo Assessora, in questi sui primi quattro mesi di governo?! Studiare al meglio magari, attraverso una valutazione di impatto, gli effetti del Fondo e della nuova legge, e magari correggere le storture del nuovo impianto. Perché quindi cassare tutto, col solito rischio – tipicamente italiano – di buttare, insieme all’acqua sporca, anche il bambino?!
Tra l’altro, è bene ricordare che nell’agosto del 2012 la (ora) contestata legge Polverini-Santini ha ottenuto anche la benedizione della Commissione Europea, che l’ha giudicata compatibile con le delicate normative in materia di aiuti di Stato.

NO al Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo quindi, SI al rientro della Regione Lazio nella Roma & Lazio Film Commission, dalla quale la Regione era uscita, perché la Polverini avrebbe voluto che la Film Commission venisse assorbita dal nuovo Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo.
Eppure, durante il dibattito alla Festa de l’Unità, alla domanda di Francesco Siciliano (Vice Responsabile Cultura del Pd nazionale sotto la segreteria Bersani) “ma quante risorse pensate di destinare al cinema ed all’audiovisivo?” la Ravera, simpaticamente elusiva, non risponde.
A distanza di qualche giorno, il 18 luglio, il Presidente Zingaretti conferma le anticipazioni di Ravera, e comunica che, per le attività della Roma & Lazio Film Commission, la Giunta regionale ha approvato uno stanziamento di 100mila euro per il 2013, 300mila euro per il 2014 e 300mila euro per il 2015. Si tratta di dotazioni – sia consentito osservare – veramente modeste. E per quanto riguarda il resto degli interventi a favore del cinema ed audiovisivo?!
Il quesito che la collettività degli operatori del cinema e dell’audiovisivo laziale pone è quindi: “prendiamo atto dell’inversione ad u, ma cortesemente ci informate dell’entità del budget complessivo che la Regione Lazio intende allocare concretamente, nel 2013 e nel 2014, a favore dell’audiovisivo?!”.

La domanda è semplice, e ci auguriamo che la risposta sia chiara. Poi, magari ci andrete a spiegare anche i criteri selettivi, sicuramente basati sulla massima trasparenza, tecnocrazia, meritocrazia.
Siamo tutti interessati alla migliore promozione della cultura, e specificamente del cinema (e che sia il più indipendente, libero, plurale, innovativo, coraggioso e finanche trasgressivo…), ma vogliamo anche avere cognizione delle risorse che la Regione Lazio intende concretamente allocare. Non basta teorizzare e proclamare un… “cambio di paradigma”.

Peraltro, il 1° luglio, la Regione Lazio ha stanziato 3 milioni di euro, sui fondi Por Fesr 2007-2013, a sostegno degli investimenti per le piccole e medie imprese, per accelerare la digitalizzazione del parco-sale cinematografiche, da realizzarsi entro il 1° gennaio 2014. Una buona notizia, non c’è che dire, ma ci domandiamo se questo finanziamento rappresentasse davvero una priorità per il “sistema” cinema e audiovisivo, dato che la “deadline” del 1° gennaio 2014 è molto teorica, considerando che molte sale cinematografiche d’Italia, d’Europa e del mondo intero continueranno ad essere alimentate da film su pellicola, perché uno “switch-off” radicale è oggettivamente impraticabile, nonostante le major planetarie lo teorizzino.

A livello mondiale, la digitalizzazione ha raggiunto il 75 % degli schermi (circa 90mila sale), spiegava Bruno Zambardino (Iem-Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli), durante un convegno tenutosi ad inizio luglio a Riccione: l’Italia è al di sotto del 60 % di schermi digitali. In Italia, sono stati digitalizzati 2.035 schermi in 651 strutture. Le sale che mancano all’appello sono ancora 1.750 su un totale di 3.864 schermi del “campione” Cinetel. Nutriamo seri dubbi che dal 1° gennaio 2014 vadano proprio a chiudere, questi schermi minori. La “morte della pellicola” riguarderà forse il mercato Usa nel 2014, ma non il pianeta intero.

E segnaliamo una dichiarazione del 2 luglio 2013 della Kodak: “Kodak smentisce quanti affermano che a fine anno terminerà la produzione di pellicola 35mm per la distribuzione nei cinema. Fino a quando il mercato lo richiederà, Kodak fornirà pellicola”. Siamo proprio sicuri che la digitalizzazione delle sale cinematografiche rappresenti il “driver” per riportare il pubblico in sala, e comunque proprio il primo elemento emergenziale su cui intervenire?!
Non si vive soltanto di coraggiose e novelle progettualità, ma anche di risorse adeguate, affinché le nuove idee non restino belle intenzioni e vacui proclami. Sono necessarie strategie di sistema e non interventi sporadici. E risorse risorse risorse. È indispensabile una programmazione pluriennale ed una conseguente gerarchizzazione degli interventi.
E va rimarcato che la cultura andrebbe sostenuta non soltanto perché c’è anche un fondamento economico nella sua funzione, ma soprattutto perché è uno strumento di coscienza civile e coesione sociale.

Ne scrivevamo su “Tafter”, nel maggio del 2012, in occasione della presentazione della “agenda della cultura” promossa dalla Fondazione Democratica di Walter Veltroni e continuiamo a scriverlo oggi.
Come dire? Attendiamo una nuova “politica culturale” che passi dalla teoria alla pratica: un “new deal” autentico di teorie nuove e nuove pratiche.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult.

foriimpL’annunciata pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiali ha tutte le caratteristiche per essere un punto di svolta sia simbolico che concreto nell’arte di amministrare le città.

Alla notizia che questo sarà il primo provvedimento della nuova giunta comunale, qualche dissenso è stato manifestato da romani proprietari di motori a scoppio, e già si programma un baldanzoso “Mortacci Pride” sul sampietrino imperiale. I ciclisti hanno dichiarato che l’idea di uno zoo tutto per loro piace assai, ma gradirebbero anche percorsi utili, il CAI ha chiesto di adibire la Colonna Traiana a cilindro per il free climbing, i guardoni del Pincio reclamano la selezione di sacerdotesse per il Tempio di Minerva.

I turisti paiono apprezzare questo schiaffo alla modernità in favore del passeggio. Per i più nostalgici del traffico, i venditori abusivi stanno facendo produrre in Cina il nuovo gadget della biga 4×4 che fa brumm brumm. Una certa preoccupazione c’è in chi teme foto mosse per schivare bus, taxi e vari altri mezzi autorizzati, mentre si fotografa il Colosseo. Questi ultimi sono stati tranquillizzati dal Campidoglio che promette un presidio sanitario per gli investiti e una foto gratuita col centurione Alfio Marzio.

Una ‘pedonalizzazione parziale’ sembra poca cosa a prima vista, ma altre città hanno già annunciato che ogni volta che se ne presenteranno le condizioni copieranno l’esempio di Roma Capitale. Mi riferisco in primis a Seoul, Granada, Belo Orizonte, Graceland, tutte concordi nel dichiarare che appena troveranno una strada costruita sopra un parco archeologico, presa in ostaggio da un cantiere della metropolitana e animata da porchettari discendenti in linea vespasiana dai Cesari, la chiuderanno parzialmente al traffico privato.

Le altre metropoli interpellate hanno fatto sapere di non essere pronte a decisioni così drastiche, in quanto tale strada dovrebbero trovare prima il coraggio di costruirla e, una volta fatta, di aprirla al traffico, il ché è davvero troppo anche per le più volenterose.

 

Samuel Saltafossi è sociologo della complessità

 

cadutaNon sappiamo se l’Assessore alla Cultura della Regione Lazio, Lidia Ravera abbia avuto occasione di leggere quel che scrivevamo ieri 2 luglio su Tafter, commentando criticamente la presentazione del rapporto annuale di Federculture, ed intitolando ironicamente con “ancora… parole parole parole” (riferendoci ai bei intendimenti annunciati dai Ministri Bray e Giovannini), ma oggi, mercoledì 3 luglio, l’edizione romana del “Corriere della Sera” pubblica un suo convincente articolo, intitolato “Cultura: abbiamo toccato il fondo, è ora di fare squadra”.

In sostanza, l’assessore Ravera manifesta il proprio sconforto per lo scenario desolante descritto da Federculture, e definisce “lucido e triste” il discorso del presidente Roberto Grossi. Ravera si sofferma sui deficit del sistema scolastico (“insegnanti mal pagati e scarsamente gratificati, programmi vecchi rimodernati in modo ideologico”), cui attribuisce la grande responsabilità di non stimolare la crescita culturale del Paese (“raccontare il presente e immaginare il futuro”).

Propone una prospettiva positiva ed ottimista: “l’era delle chiacchiere è finita”, scrive, ed auspica l’esigenza di “fare squadra” (intendendo Ministero + Regione + Comune), “invece di farsi i dispetti”. L’Assessore scrive, in perfetta sintonia con le tesi pubblicate ieri qui su Tafter: “al disinteresse generale, corrispondono vagoni di chiacchiere”. Ci auguriamo che Ravera possa presto annunciare che il Presidente della Regione Lazio ha deciso di allocare più risorse alla cultura, nell’economia di un piano strategico trasparente ed accurato.

Proprio in queste ore, l’ufficio stampa della Regione Lazio ha diramato una nota del Presidente Nicola Zingaretti, che riportiamo: “Grazie ai 70 milioni di euro che metteremo a disposizione dei Comuni del Lazio per il servizio di trasporto pubblico urbano, scongiuriamo gravissimi disagi per gli utenti dei mezzi su gomma, garantendo il diritto costituzionale alla mobilità, messo a dura prova dai tagli degli scorsi anni decisi dai governi nazionali. Il trasporto pubblico locale è stato considerato, purtroppo, la cenerentola dell’intero sistema dei trasporti ed ha subito tagli drastici con l’accetta nei trasferimenti di risorse alle Regioni, compromettendo un servizio universale. Oggi abbiamo raggiunto un importante traguardo e grazie al reperimento di ulteriori 20 milioni di euro, che si aggiungono ai 50 già messi a bilancio, potremo garantire ai Comuni del Lazio le risorse sufficienti a garantire il trasporto pubblico e a non lasciare, per mancanza di fondi, gli autobus fermi nei depositi”. Questi sono fatti, non parole.

Vorremmo presto leggere di “diritto costituzionale alla cultura”, e di una dotazione budgetaria dell’Assessorato assegnato alla Ravera adeguato alle sfide che la Regione Lazio deve affrontare.

Presidente Zingaretti, ha ragione: “non lasciamo, per mancanza di fondi, gli autobus fermi nei depositi”, e… “non lasciamo fermi, per mancanza di fondi”, gli artisti e i creativi e gli imprenditori della cultura, in teatri e cinema e librerie e sempre più chiusi…

Siamo stanchi, forse anche più di Ravera, di ulteriori “fiumi di parole” (la dotta citazione della canzoncina pop dei Jalisse non sfuggirà ai cultori del post-moderno).

Nel mentre, però, il Ministro Bray tace. E da Rimini, in occasione di Ciné, le Giornate Estive di Cinema, s’eleva oggi la protesta di molte delle associazioni del settore (Anica ed Agis in prima fila), che lamentano il taglio pesantissimo del “tax credit” ed annunciano che “il mondo del cinema è in mobilitazione”.

Al grido “il cinema e l’audiovisivo non vogliono chiudere!”, proclamano lo “stato di agitazione permanente, con un presidio delle sedi del ministero della Cultura”. Si legge nell’appello (dai toni in verità un po’ agitato-sindacalesi): “L’Italia potrebbe essere un grande paese industriale. Ma fa costruire le sue auto a Detroit, fa cucire i suoi vestiti in Cina, smantella la sua siderurgia e la sua chimica. E da oggi vuole che si smetta di produrre cinema! Perché tagliare il Fus e dimezzare il tax credit vuol dire: L’audiovisivo non serve a far crescere l’Italia”.

Attendiamo fatti (budget e progetti), dal Ministro Bray, dal Presidente Zingaretti, dal Sindaco Marino, e da tutti coloro che tanto appassionatamente dichiarano di avere a cuore le sorti del sistema culturale nazionale. Basta con “le vagonate” ed “i fiumi” di parole.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

drinkculturaLa presentazione del rapporto annuale Federculture, giunto alla sua nona edizione, è ormai divenuta un’utile occasione per una radiografia sia del corpo culturale italiano sia della sua anima: va riconosciuto al Presidente della “associazione nazionale degli enti pubblici e privati, istituzioni e aziende operanti nel campo delle politiche e delle attività culturali” (così si autodefinisce Federculture, fondata nel 1997, che vanta oltre 150 soci in un eccentrico mix: Regioni, Province, Comuni, consorzi, fondazioni, imprese, associazioni…), Roberto Grossi, di aver esplorato, attraverso il rapporto  – di cui è stato ideatore e primo curatore, fin dal 2002 – molte tematiche importanti della politica e dell’economia culturale nazionale.

Lontano da poter essere ancora un testo fondamentale di riferimento (non lo sono peraltro nemmeno la relazione annuale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni o la relazione annuale del Mibac sul Fondo Unico per lo Spettacolo… lo stato dell’arte delle conoscenze resta in Italia drammatico ed è forse l’emergenza prioritaria a livello di “policy”), il rapporto Federculture è certamente uno strumento interessante per tutti gli operatori, anche soltanto per l’utile appendice statistica. Di anno in anno, vengono chiamati a corte diversi contributori, e ciò arricchisce lo spettro delle opinioni, ma non esalta l’organicità e la necessità di un approccio critico globale e diacronico, affidato soltanto al capitolo introduttivo curato da Grossi.
Quel che qui interessa è l’aspetto “coreografico” della presentazione, kermesse che mostra, di anno di anno, nella composizione del “panel” e nelle presenze istituzionali, una strutturazione che ha valenze non soltanto simboliche.

Il 2013 rientra senza dubbio nella “serie A”. Il 1° luglio, parterre de roi, nella assai istituzionale (e molto rovente, causa deficit climatizzazione), Protomoteca del Campidoglio, oltre al Sindaco di Roma Capitale, Ignazio Marino, ed alle due fiere Assessore alla Cultura, Lidia Ravera per la Regione e (fresca di nomina) Flavia Barca al Comune, quest’anno, ben due ministri: Bray per la Cultura e Giovannini per il Lavoro. Abbiamo ascoltato discorsi alti: il primo è intellettuale colto, il secondo ricercatore serio.

La lettura “da sinistra” della crisi in atto (secondo Federculture, nel 2012 i consumi culturali sono caduti del 12 %, i Comuni hanno ridotto le risorse allocate alla cultura dell’11 %, gli sponsor privati hanno tagliato budget per il 42 %: in sintesi, un disastro) propone nuovi stilemi: abbiamo a che fare con amministratori pubblici senza dubbio più sensibili (e preparati e colti), ma il “pianto” resta del tutto simile: “no hay dinero” e quindi le “policy” restano belle intenzioni.

In sostanza, le analisi sono più evolute, finanche raffinate, ma la risposta concreta è la stessa: in questo, l’esecutivo Letta mostra la stessa insensibilità e colpevole inerzia dell’esecutivo Monti, così come di quello precedente ancora (eccetera eccetera eccetera).
Verrebbe da sostenere, ascoltando le analisi (e le lamentazioni) di Massimo Bray e Enrico Giovannini: cambia la “retorica”, non cambiano le “pratiche”. Questa dinamica è molto deludente, ancor più per chi sperava in un “new deal” da parte di amministratori giustappunto più sensibili rispetto alla cultura.

È quindi quasi paradossale ascoltare bei discorsi, migliori discorsi, se, alla prova dei fatti, questi ministri non si rivelano (non si rivelano ancora? beneficio di inventario perché sono al potere “soltanto” da due mesi?!) sostanzialmente differenti dai Bondi e dagli Urbani (per citare due ministri-simbolo della non politica culturale del centro-destra). «Parole-parole-parole» (ricordiamo, da cultori del diritto d’autore, che la canzone è divenuta famosa grazie a Mina nel 1972, ma il brano è stato composto da Gianni Ferrio, con testo di Leo Chiosso e Giancarlo Del Re).
Parole più suadenti, forse più convincenti nell’elaborazione teorica, ma di fatto soltanto parole.

Roberto Grossi, nel suo come sempre appassionato intervento, ha chiesto: sostenere i consumi delle famiglie grazie alla detraibilità delle spese per la cultura, promuovere il lavoro giovanile con un piano per l’occupazione culturale, rilanciare la produzione cancellando le norme che ostacolano l’autonomia di capacità di programmazione di enti e aziende. Sagge tesi, di cui non si trova alcuna traccia nell’azione di Governo.

Ma il Ministro Bray, nella sua prima intervista, ha sostenuto che non intende comunque dimettersi, anche se continuerà a ricevere schiaffi dalla sua stessa compagine di governo (basti pensare alla incredibile vicenda del tax credit de-finanziato…). E ardua intrapresa si rivela quella del Ministro Giovannini, gran teorico di quel benessere equo e sostenibile che dovrebbe avere nella cultura il proprio volano. Parole, nuovamente. Belle parole, ma soltanto parole. Se questo è il risultato di un Pd o di un Sel partiti “di lotta e di governo”, temiamo che il dissenso qualunquista dei grillini finirà per crescere ancora nei consensi di un elettorato sempre più stanco, esausto, esasperato.
Il titolo dell’edizione 2013 del rapporto Federculture (per i tipi di 24Ore Cultura) è “Una strategia per la cultura. Una strategia per il Paese”. La crisi è profonda, lo sconforto diffuso, gli interventi teorici, la speranza svanisce.

Quale… “strategia”, di grazia?! Il respiro strategico resta pia intenzione, a fronte della carenza di ossigenazione nel breve periodo.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

clanartNapoli “giovane” e “artistica”. E’ questo l’obiettivo ambizioso del Comune della città partenopea che ha dedicato, tradizionalmente, il mese di Maggio ai monumenti, all’arte ed alla cultura sotto varie forme e, per la prima volta, il mese di giugno ai giovani. Il cartellone proposto è stato fitto di eventi, workshop, laboratori; sono state scelte location “d’eccezione”, come ad esempio la Facoltà di Economia Federico II, Piazza Garibaldi, Piazza Bagnoli, la Mediateca Comunale di Santa Sofia.

La realizzazione della kermesse di inizio estate, è nata dall’iniziativa promossa dall’Assessorato ai Giovani del Comune di Napoli, con il bando “I Giovani, il Presente” destinato al finanziamento delle ventidue migliori idee progettuali dedicate all’arte ed al sociale.

I risultati sono stati sorprendenti e innovativi. Difatti si sono alternate “opere ed iniziative fuori dal comune” – come ad esempio – una serie di laboratori di poesia nei vagoni della Circumvesuviana o nei bus in movimento (a cura dell’Associazione ‘O pata pate e ll’arte), a graffiti sul muro di Coroglio, zona ferita, ma fortunatamente ancora vivacemente attiva, dal disastroso incendio della Città della Scienza.

Questa serie di eventi si concluderà venerdì 28 giugno, alla Villa Comunale di Scampia, un luogo simbolico e di forte “resistenza”, con l’evento chiamato “Clan degli Artisti…a gonfie vele”.

Giusta chiusura del “Giugno dei Giovani”, quindi, con il Clan degli Artisti, gruppo di giovani talenti partenopei di età compresa tra i 18 ed i 35 anni, vincitori del concorso “I Giovani, il Presente” che esporranno le loro opere, sul tema della legalità e del territorio, proprio nella Villa Comunale del quartiere simbolo del “recupero” della legalità e della dignità.

In questo modo Scampia, per troppo tempo, purtroppo, teatro solo di notizie negative, si illumina d’arte. La speranza (di chi ci crede e non si arrende) e la consapevolezza (delle Istituzioni) che la “luce” non sia solo (uno) spot, ma si traduca in un simbolo di costante impegno di “bonifica sociale” che il territorio e tutti gli abitanti meritano.

Non è un luogo comune dire che Napoli è una terra fuori dagli schemi, con mille facce e tanta voglia di mostrare a tutti che, per una notizia di cronaca che dipinge la città come un teatro di violenza quotidiana, ci sono almeno altre cento storie positive di Associazioni che lavorano sul territorio per valorizzarlo.

Quando le iniziative culturali toccano così profondamente la coscienza dei cittadini, diventiamo tutti ambasciatori della città, con tanta voglia di promuovere le sue enormi bellezze.

Seguiamo con grande interesse quindi il “Clan degli Artisti”, sperando facciano una “strage d’arte”.

 

campidoglioIn queste ore (mercoledì 26 giugno 2013), circola con discreta insistenza, anzi viene accreditata come sicura, l’ipotesi che Flavia Barca, direttrice dell’Istituto di Economia dei Media (Iem) della Fondazione Rosselli (potente fondazione di ricerca, che vanta – per citarne soltanto un paio tra i più noti – Amato e Urbani tra i propri sostenitori), venga nominata dal neo Sindaco di Roma Ignazio Marino come Assessore alla Cultura. La Giunta Marino verrà presentata oggi alle 18 in Campidoglio, ponendo finalmente fine ad una lunga e travagliata gestazione.

Rivolgiamo alla Giunta e specificamente alla neo-Assessora un qualche suggerimento, che peraltro abbiamo già avuto chance di manifestare anche al Sindaco Marino, così come all’Assessore regionale Lidia Ravera. Per quanto riguarda l’assessora regionale alla Cultura (e allo Sport e alle Politiche Giovanili), le sue sortite, nelle ultime settimane, appaiono incoraggianti, rispetto all’esigenza di un “new deal” nelle politiche culturali, che debbono essere centrate più sull’innovazione/sperimentazione che sulla riproduzione/conservazione.

Al Sindaco Marino, suggeriamo di accorpare alla “cultura” (ed alla “comunicazione”, immaginiano) anche le deleghe per il “turismo”, la “moda”, e magari anche l“innovazione”. Ne scriveva su queste colonne (per quanto riguarda turismo e innovazione) Stefano Monti in un articolo del 17 gennaio 2011.

Marino lo farà? Ce lo auguriamo. Il Sindaco ha peraltro prospettato un assessorato dedicato agli “Stili di vita”. Perché no, quindi, un “assessorato alla creatività ed alle industrie culturali”?!

Quel di cui ha necessità la Capitale, così come la Regione, è anzitutto una riflessione radicale e rinnovata sul senso dell’intervento della mano pubblica nel settore culturale. Questa riflessione non può che essere basata su un’analisi critica del sistema culturale (inteso a trecentosessanta gradi, beni ed attività culturali: dai musei alla concertistica, culture “alte” e “basse”, convergenza con il sistema dei media…): domanda ed offerta, ruolo dei privati ed istituzioni pubbliche, tra l’economico, il politico, il semiotico…  Senza dimenticare l’interazione tra i livelli dello Stato: Mibac, Regione, Province, Comuni… E vogliamo dimenticare il ruolo ormai fondamentale (e finora mal analizzato) delle Fondazione Bancarie???

Lo stato dell’arte delle conoscenze, a Roma e nel Lazio, è totalmente deficitario.

A differenza di altre Regioni d’Italia (come nel caso dell’Osservatorio Culturale del Piemonte, che proprio il 5 luglio prossimo presenta la propria nuova relazione annuale; si ricorda che è stato costituito nel 1998), a Roma e nel Lazio gli assessorati competenti non dispongono ancora di un dataset adeguato alla delicatezza delle politiche che pure debbono attuare.

Non esiste un’analisi degli investimenti pubblici, della loro efficienza e efficacia, ed il livello di trasparenza della spesa pubblica è modestissimo. Anzi inesistente, fatta salva l’ipotesi di andare a cercare – con approccio poliziesco, oltre che con il lanternino… – tra le pieghe dei criptici bilanci comunali e regionali.

Non è possibile comprendere quanto sia benefico, o meno, l’intervento della “mano pubblica”: si pensi al controverso caso di Musica per Roma, e del suo ruolo di disturbo (secondo gli operatori privati, che arrivarono a rivolgersi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) nel “libero mercato” culturale romano… Ma stesso discorso (assenza di analisi valutative) si può fare per Zètema e per il suo intervento nella gestione dei beni culturali, così come per le iniziative festivaliere: perché tanto danaro pubblico al Festival del Cinema di Roma e nemmeno un euro (incredibilmente) all’eccellente MedFilm (almeno nell’edizione 2013, che è la n° 19)?!

Infinite soggettività, simpatie/antipatie, cromie politiche, capitali relazionali, lobby... Tutto è gestito con grande approssimazione.

La “conoscenza” relazionale prevale sulla “conoscenza” tecnica. Della tecnocrazia, nemmeno una traccia.

L’ultimo tentativo di analisi lo si deve alle giunte Rutelli e Veltroni (e si perdoni un cenno… autoreferenziale): si tratta di due ricerche (l’ultima risale al 2008) realizzate dall’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult, che hanno gettato le basi di un “Osservatorio sulla Cultura” a Roma e nel Lazio, fortemente voluto dall’ex Assessore Gianni Borgna (il più longevo d’Italia: 1993-2006), iniziativa che la Giunta Alemanno e la Giunta Polverini hanno poi messo in un cassetto. L’Assessore Umberto Croppi (Comune di Roma) non ha ritenuto di aver necessità di una simile strumentazione, e certamente non manifestò esigenze cognitive di questo tipo l’Assessore Fabiana Santini (Regione Lazio).

Notoriamente, in questo nostro Paese malato, se una iniziativa è stata sostenuta da giunta di cromia avversa, la novella giunta tende a bollare la precedente esperienza, a priori, come partigiana.

Da ricercatore, chi scrive queste note ha maturato l’impressione che spesso l’italico politico/amministratore (sia rosso o nero o bianco o… a pois) giunge alla (perversa) conclusione che “meno si sa, maggiore è il mio margine di discrezionalità”, con buona pace di esigenze di trasparenza ed efficacia. Anche perché, riducendo il livello di conoscenza, si riduce la capacità critica dei… dissidenti e degli… esclusi.

Negli ultimi mesi della Giunta Marrazzo, IsICult aveva proposto all’allora assessore Giulia Rodano la elaborazione di quello che sarebbe stato un primo inedito eccezionale avanguardistico “bilancio sociale” dell’Assessorato alla Cultura, arricchito di dati dettagliati (“chi abbiamo finanziato, perché, quali sono stati i risultati dell’intervento pubblico…”), ma le dimissioni di Marrazzo hanno fatto svanire anche questa prospettiva.

Qualche altro tentativo di analisi (concentrato su Roma piuttosto che sul Lazio) è stato messo in atto da Federculture, qualcosa ha tentato di fare – nello specifico dello spettacolo – la Siae, ma siamo ben lontani dalla disponibilità di strumenti di conoscenza tecnica (si noti, non soltanto di approccio economico: la degenerazione economicista è sempre latente, e va scongiurata) che debbono essere accurati, approfonditi, e soprattutto resi di pubblico dominio: disponibili agli operatori, agli studiosi, e soprattutto agli “stakeholder” finali, cioè i cittadini.

Il risultato attuale qual è? Che Zingaretti e Marino governano, sono costretti – almeno per ora – a governare “a vista”, nasometricamente e spannometricamente, almeno nello specifico della cultura (del resto, taciamo). Ed in questo habitat, finisce per prevalere, quasi inevitabilmente, una logica conservativa-conservatrice, esattamente come avviene, a livello di Stato centrale, per la gestione del Fondo Unico dello Spettacolo, che è il fondo di sostegno alla cultura più chiuso d’Europa.
Il Fus è un fortino inaccessibile: chi è dentro, è dentro, e può sperare di essere risovvenzionato; chi è fuori, fuori resta! Ne ha scritto con efficacia Lucio Zan nel suo saggio del 2009 “Le risorse per lo spettacolo”, per i tipi de il Mulino.

Un esempio concreto del rischio di riproduzione di errori? Settimane fa, le “associazioni storiche” dell’Estate Romana hanno protestato perché il Comune di Roma aveva emanato un bando surreale, nel quale l’entità del finanziamento era rimandato ad un “si vedrà…”.
Eccesso di prudenza, forse, data l’incertezza pre-elettorale, ma anche un’assurdità amministrativa (crediamo che in nessun altro Paese sviluppato si assista a simili buffonate). Le associazioni hanno promosso un incontro di protesta ed hanno richiesto una sovvenzione di almeno 2,5 milioni di euro l’anno. L’allora candidato Marino si è impegnato per almeno un paio di milioni di euro, e, pochi giorni dopo l’insediamento, il Sindaco ha annunciato una dotazione di 1,5 milioni. La domanda è: perché 2,5 o 2 o 1,5 milioni, ovvero 10 o 0 (zero)?! Non è ben dato sapere, se non per… inerzia, o per valutazioni… “spannometriche” appunto.

E che dire dei 3 milioni di euro che Zingaretti, e gli assessori Ravera (Cultura) e Fabiani (Economia) hanno annunciato pochi giorni fa voler assegnare agli esercenti di Roma e del Lazio per accelerare la digitalizzazione dei cinema? Perché 3 o non 2 e non 5? Qualcuno ha analizzato con un minimo di serietà i fabbisogni? No. E lasciamo perdere le possibili necessarie analisi in termini di evoluzione della domanda, di nuovi linguaggi, di effetti dell’offerta culturale sulle “visioni del mondo” (e, quindi, anche sulla politica stessa: qualcosa ne sappiamo, dopo la “mutazione antropologica” provocata dai modelli culturali della televisione berlusconiana, quegli… “stili di vita” evocati da Marino).

Flavia Barca conosce queste problematiche: vanta un eccellente curriculum come ricercatrice e chi redige quest’articolo ne è stato ex datore di lavoro prima (tra il 2002 ed il 2003 Barca è stata direttrice dell’IsICult) e poi spietato competitore. Questi suggerimenti sono rivolti quindi in particolare alla neo Assessore, con simpatia finanche imbarazzo. In verità, Barca non ne ha necessità. Queste tematiche sono state oggetto di tante discussione e della comune sconsolata constatazione della diffusa insensibilità dei politici italiani, rispetto ai migliori modelli di valutazione dell’impatto delle politiche pubbliche (vale per il Mibac non meno che per la Rai), procedure che sono routine – da decenni – in Francia, Regno Unito, Germania, finanche Spagna… Addirittura l’Argentina può vantare una pluralità di “osservatori culturali” (anzi, meglio “sulle industrie culturali”!), che l’Italia può soltanto invidiarle.

Qualche critico ha osservato che Flavia Barca, a parte la ricchezza di un cognome familiare partitocraticamente pesante, è “soltanto” una ricercatrice, e non può vantare alcuna esperienza come “amministratore pubblico”: è vero, ma forse questa sua estraneità alle esperienze burocratiche potrebbe paradossalmente rivelarsi un plus e non un minus. Così come ci si augura stia avvenendo con Lidia Ravera, intellettuale umanista prestata alla politica. Se sapranno dotarsi delle adeguate cassette degli attrezzi, sia Ravera sia Barca potranno far sì che la “politica culturale”, in Italia, non resti un pio intendimento, anzi una pura illusione.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

estateromana2Ieri, 19 giugno 2013, si è tenuta a Roma, nella cornice pomposamente istituzionale della sala che la Camera dei Deputati ha dedicato ad Aldo Moro (non sappiamo quanto l’eterodosso celebrato avrebbe in realtà apprezzato…), una giornata in memoria del più famoso Assessore alla Cultura d’Italia: Renato Nicolini (1942-2012), assessore nelle giunte romane guidate da Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli ed Ugo Vetere (1976-1985).

L’iniziativa, promossa da uno dei cinque figli, Ottavia (che si professa filosofa di professione) e dall’ultima compagna, l’attrice Marilù Prati, ha rappresentato un’occasione stimolante di riflessione, sia sulla politica culturale sia sulla politica italiana tout-court.

Brillante – come sempre – l’intervento di Stefano Rodotà, che ha ricordato come tutta l’esperienza politica e personale di Nicolini rappresenti la lotta al “riduzionismo”, ovvero al tentativo di ridurre la politica ad amministrazione del contingente, a rapporto con “la polizia ed il mercato”, allorquando dovrebbe essere invece continuo invito alla provocazione creativa, alla “fantasia al potere”. Rodotà ha rintracciato nelle teorie e pratiche di Nicolini la radice della sua idea di cultura come “bene comune”.

Il neo eletto Sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha ricordato di aver conosciuto Nicolini quando, allora al Policlinico Gemelli, fu il medico curante di colei che scoprì essere la madre dell’Assessore, e ha ricordato la fascinazione subita nei confronti di un uomo che aveva il dono di essere lieve anche nei momenti di tristezza, con un sorriso sempre un po’ malinconico (atteggiamento che peraltro molto affascinava le donne). Il Sindaco ha approfittato dell’occasione per annunciare che l’edizione 2013 dell’Estate Romana, che era a rischio a causa di un bando surreale emanato negli ultimi giorni della Giunta Alemanno (incredibile caso di bando che si dichiara subordinato all’eventuale – ?! – acquisizione di risorse…), si terrà, avendo reperito le risorse necessarie (almeno 2 milioni di euro, a fronte di una richiesta minima di 2,5 milioni da parte delle cosiddette “associazioni storiche” della manifestazione romana).

Franco Purini, amico e collega del Nicolini architetto sin dai tempi dell’Università, ha ricordato come Renato sia stato interprete di una lettura trasversale di autori che hanno formato la sua poliedrica personalità: da Nietsche a Gramsci a Debord. L’Estate Romana (progetto tutt’altro che “effimero”, se è vero che sopravvive dopo oltre trent’anni: la prima edizione risale al 1977) è in effetti un esempio eccellente di una logica (post-moderna) di ibridazione di linguaggi, di superamento della separazione ideologica tra culture alte e culture basse, nonché l’avanguardistico tentativo di “riappropriazione” della città, di rifondazione urbanistica, di ridefinizione degli spazi della socialità, da parte della cittadinanza.
L’organizzatore culturale Andres Neumann ha evocato l’immagine dello “sciamano”, per rappresentare la capacità di Nicolini di vedere oltre, di cercare di costruire realtà ispirate all’utopia.

Sono poi intervenuti Vincenzo Frustaci, dirigente dell’Archivio Capitolino, e Donato Tamblé, Soprintendente Archivistico per Roma ed il Lazio, che hanno comunicato che la biblioteca e l’archivio personale di Nicolini, messi a disposizione dalla famiglia, sono stati dichiarati proprio il 19 giugno beni di interesse culturale e storico nazionale, e verranno quindi messi a disposizione della collettività.
Infine, va segnalato che è stato pubblicato dalla Camera dei Deputati un libro che raccoglie gli interventi di Nicolini durante la sua attività parlamentare: è stato deputato per 3 legislature (IX, X e XI) ovvero dal 1984 al 1994, prima nelle fila del Pci e nel 1992 come esponente del Pds.

Nonostante il livello qualificatissimo degli interventi e la stimolazione intellettuale provocata, abbiamo percepito una qual certa nebbia farisea nella celebrazione della memoria del Nostro: stupisce molto che nessuno abbia nemmeno fatto cenno a come la “carriera politica” di Nicolini sia stata sostanzialmente interrotta quando nel 1993, in dissenso rispetto al proprio partito, decise di non sostenere la candidatura di Rutelli come possibile Sindaco di Roma, e si candidò con una lista autonoma, denominata “Liberare Roma” (si osservi che lo slogan “liberiamo Roma” è stato peraltro ripreso da Marino nella sua recente campagna elettorale).

Ne scrivo a ragion veduta, perché sono stato il responsabile della comunicazione della sua campagna elettorale, autofinanziata francescanamente: Nicolini ottenne un 8 % dei voti, al ballottaggio fu poi eletto Rutelli, Nicolini frequentò poi per un qualche tempo Rifondazione Comunista, ma mai tornò a ricoprire ruoli, a livello nazionale o locale significativi, se non quando Bassolino Sindaco lo chiamò, per una breve stagione (dal 1994 al 1997), come Assessore alla Cultura di Napoli. Nessuno ha ricordato che nell’estate del 2009 decise di prendere la tessera del Pd e prospettò una candidatura (che autodefinì “creativa e democratica”) alle primarie, cui presto rinunciò, rendendosi conto che aveva contro, ancora una volta, “il partito”.

Ad inizio 2010, aveva pubblicamente sostenuto la necessità delle primarie per la scelta del candidato del centro-sinistra a presidente della Regione Lazio, dichiarando di voler partecipare alle stesse. Poche settimane prima di morire (soffriva da tempo di una terribile malattia), pubblicò su “il Manifesto” (il 28 giugno 2012) un articolo che così iniziava: “Confesso di restarci un po’ male, quando vedo che nessun giornale o gruppo associa a sinistra il mio nome alle ormai prossime elezioni per il sindaco di Roma”. Come dire?! La passione e la tenacia, nonostante le batoste, non l’avevano certo abbandonato.
In sostanza, Nicolini rappresenta la figura di un politico irrituale ed anticonformista, un uomo colto e creativo, un intellettuale umanista, un artista eccentrico, sganciato dalle dinamiche della partitocrazia, vecchia e nuova, tollerato fino a quando non ha superato i “limiti”.

Alessandra Mammì ha intitolato un suo intervento su “l’Espresso” con un efficace “Nicolini, il Grande Escluso”. Spesso emarginato, comunque visto con sospetto dagli apparati vecchi e nuovi. Emarginato in vita e celebrato post-mortem: un po’ come avvenuto per Pasolini (che certamente aveva tratti comuni con Nicolini, entrambi agli antipodi rispetto all’idea di “intellettuale organico”), la “buona società” si rivela spesso abile nel cordoglio, ma non riesce a ben mascherare il respiro di sollievo per essersi liberata di un personaggio scomodo.

La lungimiranza che mostrarono i sindaci (comunisti) Argan, Petroselli e Vetere nei confronti del giovane Nicolini fu un atto di coraggio (soprattutto in considerazione dei tempi), rispetto alla conservazione che spesso caratterizza le macchine burocratiche dei partiti.
Nessuno ha però adeguatamente enfatizzato, nella celebrazione in memoria, la radicale diversità (caratteriale, culturale, arriverei a sostenere antropologica) di Renato rispetto alla gran parte dei “politici di professione”. Era veramente… un diverso!

Tutti hanno poi evocato l’Estate Romana, assurta quasi a dimensione mitica, dimenticando che negli ultimi anni Nicolini aveva assunto una posizione molto critica rispetto alla degenerazione mercantile che la sua idea aveva subito nel corso del tempo.

Si era (si è) esaurita la carica di innovazione e di trasgressione, e l’Estate Romana si è andata via via trasformando in una sorta di inutile bazaar culturale, in un banale supermarket dello spettacolo. Crediamo che questa visione critica di Nicolini verso la sua stessa creatura debba stimolare il Sindaco Marino, al fine di una lettura innovativa del mercato dell’offerta e della domanda culturale capitolina, che ha necessità di nuove invenzioni, nuove provocazioni, nuove trasgressioni.

Non di riprodurre l’esistente, ma osare: sperimentare nuove forme e nuovi linguaggi e… nuovi luoghi finanche. È certamente importante assegnare risorse alle “manifestazioni storiche” dell’Estate Romana (almeno per garantire l’occupazione, verrebbe ad aggiungere!), ma è forse più importante e strategico ragionare sul senso e sulla validità della mera riproposizione di un intervento pubblico che attualmente finisce per riprodurre quel che il mercato è ormai in grado di produrre da solo.
Nessuno, infine, ha ricordato che nonostante si tratti di uno dei concetti che più hanno reso famosa Roma negli ultimi 40 anni in tutto il mondo, incredibilmente non esiste una monografia sull’Estate Romana, né un saggio critico sull’esperienza politica, culturale, artistica di Renato Nicolini.

Quali le ragioni di questa incredibile rimozione??? Di fatto, l’unica pubblicazione è il suo libro di memorie, “Estate Romana 1976-1985. Un effimero lungo nove anni”, ripubblicato l’anno scorso dalla Città del Sole (la prima edizione era stata pubblicata nel 1991 da un editore il cui nome era tutto un programma, Sisifo…). Qualche riflessione storico-critica è contenuta nel nostro contributo al saggio a più mani pubblicato nel 2008 da Donzelli “Capitale di cultura. Quindici anni di politiche a Roma”, scritto con Gianni Borgna, Roberto Grossi, Carlo Fuortes, Franco Ferrarotti, ma quella voleva essere una piccola traccia che purtroppo non ha avuto gli adeguati sviluppi di ricostruzione politica e culturale di una esperienza profonda.

Mentre il Sindaco lasciava la Sala Aldo Moro, scusandosi per la necessità di tornare in Campidoglio per perfezionare la gestazione della Giunta, qualcuno ha simpaticamente urlato: “Sindaco, ci dia un Nicolini assessore!”. Magari fosse. Avrà Marino il coraggio necessario per affidare l’incarico ad una persona lontana dai poteri forti (anche del sistema culturale romano) e soprattutto fuori dal coro, per dare voce (e palcoscenici) alle infinità diversità che Roma ancora non riesce ad esprimere?! Ce lo auguriamo.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale

audiovisivoIl 5 giugno si è tenuto a Roma, presso la sede della Regione Lazio, un incontro tra Lidia Ravera, Assessore alla Cultura e Sport e Politiche Giovanili della Giunta Zingaretti (insediatasi a metà marzo), ed una folta rappresentanza delle tante associazioni, professionali ed imprenditoriali, che caratterizzano il “piccolo mondo” degli italici cinematografari. È stata una occasione ghiotta, per chi cerca di comprendere gli orientamenti della eterodossa neo-Assessore (che si è autodefinita una “aliena”, rispetto ai “palazzi della politica”, in un bell’articolo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 1° giugno scorso). Ravera è stata chiamata alla guida delle politiche culturali della Regione Lazio da Nicola Zingaretti, che ha voluto mettere in atto un’operazione spiazzante, anche perché Ravera, pur ben collocata a sinistra, non è iscritta al Pd, ed è quindi sganciata da dinamiche partitocratiche.

Da osservatori critici – quali siamo, da decenni – della politica culturale, a livello nazionale e locale, abbiamo, fin dai primi giorni, apprezzato la estrema cura comunicazionale (linguistica e semantica) con cui Ravera si è manifestata, in alcune pubbliche occasioni: che fosse un intellettuale ed un’artista, era evidente, ma che riuscisse ad arricchire il “linguaggio della politica” con una forma elegante ed al tempo stesso significativa (significante) è una bella sorpresa. Anche perché si tratta di un bel parlare che sembra riuscire a non cadere in quella qual certa ridondanza retorica che caratterizza invece talvolta un altro eccellente “affabulatore” – politico di professione – qual è Vendola, ad esempio.

Ciò premesso, la Ravera, che ha ereditato un assessorato retto per alcuni anni da Fabiana Santini (il cui curriculum evidenziava al massimo il ruolo di capo della segreteria dell’ex Ministro Scajola) nella Giunta Polverini, ha subito precisato, non appena insediatasi, che avrebbe “studiato”, e che avrebbe anzitutto “ascoltato”… “prendendo appunti” (formula che ribadisce spesso, e che effettivamente corrisponde alla realtà). Ha anche premesso con chiarezza: “la Regione Lazio, e questo Assessorato, non saranno più un bancomat, anche perché il bancomat s’è rotto”.

In estrema sintesi, va ricordato – ai lettori che non vivono a Roma e nel Lazio – che la Giunta Polverini (aprile 2010-marzo 2013) aveva, a sua volta, ereditato dalla Giunta Marrazzo (aprile 2005-ottobre 2009) un notevole livello di interventismo nelle politiche culturali, con particolare attenzione all’audiovisivo: finanziamenti consistenti, sostegno ad iniziative incerte come il Fiction Fest, iniziative promozionali varie.

Il deficit della Giunta Marrazzo va cercato nell’assenza di programmazione, ovvero di un piano strategico organico e di medio periodo: ha prevalso una pluralità di interventi, che è presto degenerata in policentrismo dispersivo, a partire da una assenza di sintonia tra “anime” della stessa giunta: le politiche culturali erano curate da Giulia Rodano (poi divenuta responsabile cultura nazionale dell’Italia dei Valori, ed ormai allontanatasi dalla politica); le politiche comunicazionali erano gestite da Francesco Gesualdi (segretario generale della Regione, già direttore generale di Cinecittà, fiduciario di Marrazzo).

Con una gestazione complessa, la Giunta Polverini ha comunque approvato una legge regionale sul cinema e sull’audiovisivo, che un qualche segno di innovazione ha provocato, a partire dalla denominazione della norma stessa, che, per la prima volta in Italia, ha “accomunato” il cinema e l’audiovisivo (non cinematografico). Sono stati allocati fondi per 15 milioni di euro l’anno, assegnati sulla base di meccanismi “automatici” (in primis, la sensibilità verso il Lazio, in termini di riprese o utilizzazione di risorse professionali in Regione), senza che vi fossero commissioni di esperti che giudicassero la sceneggiatura o il progetto filmico.

Questa legge è controversa: per alcuni, ha consentito una preziosa boccata di ossigeno, a fronte della riduzione della “quota cinema” del nazionale Fondo Unico per lo Spettacolo (che non arriva ormai a nemmeno 100 milioni di euro l’anno); per altri, ha finito per finanziare anche qualche produzione indipendente e qualche giovane autore (e produttore), ma per lo più ha sostenuto i “soliti noti”, ovvero i più ricchi produttori italiani (esemplificativamente, la Cattleya di Riccardo Tozzi e la Palomar di Carlo Degli Esposti). Va rimarcato che non è stata realizzata alcuna analisi valutativa degli effettivi impatti di questa legge, nella “migliore” tradizione dell’assenza di verifiche sull’intervento della mano pubblica nel settore culturale, che riteniamo essere la più grave patologia del sistema italiano. In verità, né l’assessorato affidato a Rodano né l’assessorato affidato a Santini hanno prodotto un rendiconto analitico accurato: il concetto stesso di “bilancio sociale” è ancora fantapolitica, per il nostro Paese.

Come vengono allocate le risorse… perché a favore di “x” piuttosto che di “y” (e questo problema riguarda enormi macchine “mangiasoldi” come gli enti lirici a livello nazionale, ma anche l’ultima delle piccole associazioni culturali del comune più sperduto)… sono domande che restano senza risposte, come il quesito sull’efficacia, in termini di stimolazione del tessuto culturale (estensione del pluralismo, pluralità dei linguaggi, eccetera), degli interventi pubblici. Il concetto di valutazione di impatto così come quello di verifica dell’efficacia sono sconosciuti alla quasi totalità della italica politica culturale.

Sono intervenuti alla riunione (ad inviti), i rappresentati di Slc Cgil, Anica, Agis Lazio, Anem, Anac, Apt, Agpc, 100autori, Cinema e Territorio, Cinecittà Luce, Doc/it, Fidac, Consequenze Network, Sact… Tutti hanno manifestato le proprie lamentazioni, per una crisi grave e diffusa: è emerso uno scenario critico veramente sconfortante. Che la crisi del cinema italiano sia profonda è confermata dalla notizia (diffusa nella stessa giornata dell’iniziativa della Regione Lazio) della sostanziale sospensione delle attività di distribuzione ed acquisizione della mitica Sacher di Nanni Moretti, che ha diramato questo comunicato stampa: “Ormai la situazione del Paese è tale che una distribuzione come la nostra, da sempre orientata alla diffusione di film art house che la gente va sempre meno a vedere e che le tv non acquistano più, si ritrova a lavorare più per filantropia che altro”.

Dopo oltre due ore di interventi, ha tirato le conclusioni l’Assessore, visibilmente affaticata (ha diligentemente preso appunti, come annunciato), ma ben vivace e stimolante, tracciando alcune linee-guida: ha premesso che non ha mai creduto nella dicotomia tra “cultura” ed “industria”, ed ha definito le industrie dell’immaginario come “industrie particolari che producono oggetti delicati” (aggiungendo: “dobbiamo sempre ricordarci il motto: handle with care”); ha lamentato come il nostro Paese, da molti anni, sia sottoposto ad un bombardamento mediatico (televisivo) che ha impoverito le coscienze (“abbiamo consumato roba balorda per decenni”) ed ha determinato una diffusa “desertificazione culturale”; ha sostenuto la necessità di far affluire “aria fresca” in un sistema polveroso e stantio, attraverso la promozione della sperimentazione, della ricerca, dell’innovazione, dei giovani talenti, stimolando le diversità espressive e linguistiche; ha sostenuto a chiare lettere che gli “automatismi” possono anche essere funzionali, ma che debbono essere integrati (corretti) con l’intervento “umano” (per quanto esso possa essere a rischio di soggettività); ha dichiarato che le procedure di finanziamento dovranno prevedere anticipazioni, perché la produzione audiovisiva è processo complesso e costoso, ed è la fase iniziale a dover essere sostenuta con maggiore attenzione; ha enfatizzato la necessità di guardare al territorio regionale, ben oltre Roma, perché è soprattutto “in provincia” che si soffre dell’assenza di strutture di offerta (cinema, teatri, centri culturali…), ovvero si assiste alla morte degli “avanposti dell’alfabetizzazione”; ha annunciato la costituzione di un comitato di qualificati esperti indipendenti (liberi da conflitti di interessi), che procederà ad apportare correzioni “light” alla legge cinema ed audiovisivo, ed a effettuare valutazioni (soggettive!) su cosa debba essere sostenuto, e cosa no, dalla Regione Lazio (“no ai finanziamenti a pioggia… anche perché si corre il rischio di… far piovere sul bagnato”, ha ironizzato); per quanto riguarda la film commission, ha dichiarato a chiare lettere che considera l’esperienza pugliese (e la stima per Vendola si conferma) un caso di eccellenza, anche per quanto riguarda la Apulia Film Commission, diretta dal giovane Silvio Maselli.

Per noi, che pure siamo studiosi critici di politiche culturali da un quarto di secolo, assidui e pazienti frequentatori di ogni iniziativa convegnistica e di dibattito sulla cultura, si è trattato di un’iniziativa assolutamente lodevole: densa, succosa, stimolante.

Le intenzioni dell’Assessora, intellettuale umanista, sono evidenti, commendevoli, condivisibili: innovare, scardinare il modello pre-esistente, rischiare. Abbiamo anche registrato qualche interessante assonanza tra quanto sostenuto dall’Assessore Ravera e quanto annunciato il 23 maggio dal Ministro Bray nella sua relazione di fronte alle Commissioni Cultura di Camera e Senato per la prima volta riunite assieme. L’intervento del neo-Ministro, per lo specifico audiovisivo, è rivoluzionario (almeno sulla carta), sebbene nessun quotidiano abbia colto la novità: ha fatto riferimento al modello francese come “benchmark”, e ciò basti.

Non resta da augurarci che si passi presto dal libro delle belle intenzioni (comunque apprezzabile, anche soltanto dal punto di vista intellettuale e della elaborazione di “policy” auspicata) alla concreta progettualità ed alle conseguenti azioni: normazioni, regolazioni, allocazioni di budget adeguati, deliberazioni amministrative. La Giunta Zingaretti ha certamente una previsione di vita maggiore del Governo Letta, e ciò conforta.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale