varmaVijay Varma è il giovane interprete di Monsoon Shootout, film d’azione indiano diretto da Amir Kumar e proiettato all’ultimo Festival di Cannes. Abbiamo incontrato Vijay nel suo albergo fiorentino in occasione del River to River – Florence Indian Film Festival, durante il quale ha presentato il film e ha parlato della sua esperienza sul grande schermo. Simpatico, disponibile e affascinante, ci ha subito conquistato.

 

Quest’anno Bollywood è stata special guest a Cannes, dove è stato proiettato Monsoon Shootout. Com’è stata la sua esperienza al Festival francese?
È stato il primo festival della mia vita. La ricorderò come una giornata speciale. Un protocollo prevede che gli ospiti abbiano il trattamento migliore. Quando sono arrivato, appena sceso dall’aereo, ho pensato di essere ad una festa della moda o su una passerella. Poi, in realtà, mi sono trovato in una sala piena di gente, a mezzanotte (ora di proiezione del film), che voleva vedere il film. Questo mi ha fatto riflettere e mi ha dato maggiore sicurezza in me stesso e mi sono sentito molto fortunato di aver iniziato la mia carriera con il festival di Cannes.

So che ha fatto teatro, come è approdato al cinema? Ha lasciato il teatro?
Sono nato e cresciuto a Hyderabad, nel sud dell’India, dove c’è una grande industria cinematografica, soprattutto in lingua locale, telugu, ed è stato lì che ho iniziato a fare teatro. Presso una compagnia, Sutradhar (tr. il narratore o voce fuori campo), ho frequentato alcuni workshop e ho iniziato a recitare. In realtà io volevo fare cinema, ma non per questo ho abbandonato il teatro: l’ultima opera a cui ho partecipato risale a un anno fa. Né ho intenzione di lasciare il teatro, perché mi fa crescere.

Come è cambiata la sua vita con il successo? Cosa ha aggiunto o tolto?
La prima cosa, e la più più importante, che il successo ha portato nella mia vita è stata la riappacificazione con mio padre, in quanto per fare l’attore sono scappato di casa. Il mio rapporto con mio padre era piuttosto freddo, non accettava la mia vocazione, non ha mai stimato il lavoro dell’attore e non amava molto il cinema. Avrebbe voluto farmi lavorare nell’azienda di famiglia. Quando però ha visto il mio film e come ha reagito il pubblico allora è cambiata la sua posizione: ha capito che mi stavo impegnando seriamente e quindi ci siamo riappacificati. L’aspetto negativo del successo è la perdita di orientamento, per compensare pratico reiki e meditazione.

Che rapporto ha avuto con Bedabrata Pain, il regista del pluripremiato Chittagong, in cui lei ha recitato? Come è stato lavorare con lui e con Amit Kumar?varma2
I due registi hanno personalità molto diverse ma li accomuna una forte integrità nel loro modo di lavorare, credere nei valori fondamentali, il calore con cui accolgono chi lavora con loro. Bedo (diminutivo di Bedabrata Pain) è un perfezionista, ti fa ripetere una scena 30/40 volte, lasciandoti anche il tempo di sbagliare, finché non sono contenti sia lui che l’attore. Entrambi non ti dicono cosa fare esattamente sulla scena, ti pongono delle domande, sta a te trovare la risposta, lasciandoti esprimere. Bedo è una persona estroversa, ti fa capire subito cosa gli piace oppure no, Amit è sintetico e ti domandi: “ho fatto bene?”.

A quale personaggio si sente più vicino: Adi di Monsoon Shootout o Jhunku Roy (adulto) di Chittagong?
Entrambi i personaggi mi hanno aiutato a capire alcune mie caratteristiche. Jhunku Roy diventa, da testimone, un seguace, un leader della rivolta contro gli inglesi, un ruolo che mi ha appassionato. E’ stato un debutto ideale, un ruolo non da protagonista nel film ma che mi dava la responsabilità di concludere il percorso del personaggio principale. Il ruolo di Adi è incentrato sul come è possibile rimanere se stessi.

C’è qualcosa del cinema italiano che ha apprezzato o che è stata per lei una fonte di ispirazione?
Mi ha colpito il Nuovo cinema Paradiso, il Postino, Ladri di biciclette e Gomorra, Mi piace Monica Bellucci, è molto bella (sorrisi).

Preferisce la partecipazione degli spettatori indiani a quella compassata degli occidentali?
Preferisco l’attenzione al film del pubblico occidentale, non mi piace la gente che ride, scherza o mangia qualcosa al cinema.

Il prossimo film o progetto?
Un film di Bollywood, interpreto una rockstar, canto e ballo, è un ruolo molto divertente.

 

 

TAFTER è mediapartner di River to River – Florence Indian Film Festival

Programma masala (misto-speziato) a River to river: conversazioni, lungometraggi, documentari, cortometraggi e una retrospettiva su Shabana Azmi, famosa attrice e attivista indiana. Il pubblico della rassegna di cinema indiano, al cinema Odeon di Firenze, aumenta ogni anno, dimostrando interesse per il subcontinente indiano e per la varietà delle proposte offerte dalla direttrice Selvaggia Velo. Interessanti le ‘conversazioni’ sulla cultura indiana e orientalismo che avvicinano le sponde culturali e che ci auguriamo aumentino nelle future programmazioni.

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I corti indiani continuano a stupire per la loro originalità ed efficacia. Shaya di Amir Noorani, regista pakistano che ha studiato cinema negli Stati Uniti, è diretto come un pugno allo stomaco: una famiglia di rifugiati pakistani scappa dalla guerra ma non dalla paura che li attende a Los Angeles.

Il regista pakistano-canadese, Arshad Khan, riesce con Doggoned, dark e surreale, a trattare con felice ironia le difficoltà di una giovane ragazza immigrata alla ricerca di un lavoro.

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Tra i 5 film in concorso The Coffin Maker (il fabbricante di bare) di Veena Bakshi, è piacevole e soprattutto ben interpretato da Naseeruddin Shah, Ratna Pathak Shah e Randeep Hooda. Il falegname gioca con la morte la sua partita a scacchi, una vera e propria istituzione in India, rendendo inevitabile il riferimento all’illustre precedente di Bergman, il Settimo Sigillo, e a un classico del cinema indiano, The Chess Players di Satyaijt Ray.

Il film d’azione Monsoon Shootout di Amit Kumar parte in accelerazione con inquadrature mozzafiato per poi rallentare in uno sventagliamento di conseguenze che le ipotetiche scelte di un poliziotto possono avere sulla vita degli altri, di cui a volte si perde lo sviluppo. L’interpretazione di Vijay Varma nel ruolo del poliziotto è convincente.

Ottima la scelta di presentare Lessons in Forgetting di Unni Vijayan, ispirato all’omonimo libro di Anita Nair, in occasione della ‘Giornata internazionale contro la violenza sulle donne’. L’indipendenza di una donna occidentale soccombe tra i pregiudizi, la violenza e le debolezze di una società diversa. Nella stessa giornata è stato proiettato il documentario Scattered Windows Connected Doors, ritratto di otto donne indiane contemporanee, che concorre con l’incredibile vicenda raccontata in A man who planted the jungle, in cui un uomo, in Assam, addolorato dalla desertificazione e dalla morte dei serpenti, decide di piantare una vera e propria giungla su un’isola al centro del fiume Brahmaputra.

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Deepa Mehta con il suo Fire ‘accende’ l’attenzione sulla realtà della famiglia patriarcale in India e sull’omosessualità femminile, vissuta nel film come fuga, amicizia e solidarietà tra due cognate.

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Grande attesa per i premi e appuntamento a Roma, venerdì 29 novembre, alle 12 per la conversazione sulle ‘Donne e cinema dell’India contemporanea’ al Dipartimento Istituto italiano di Studi Orientali dell’Università La Sapienza, e fino al primo dicembre al Nuovo cinema Aquila, per vedere il film, il cortometraggio e il documentario vincitori della manifestazione.

 

 

TAFTER è mediapartner di River to River – Florence Indian Film Festival

lessons-in-forgetting-poster-picsPer la giornata contro la violenza nei confronti delle donne River to river ha previsto una programmazione speciale, tra cui la proiezione del film Lessons in Forgetting, tratto dal romanzo della famosa scrittrice Anita Nair. Si tratta di una pellicola sui problemi più scottanti dell’India: il feticidio femminile, la violenza sulle donne e la discriminazione di genere. Questa è l’intervista al regista del film Unni Vijayan.

La storia che viene raccontata sul grande schermo vede protagonista un padre single alla ricerca delle cause per cui la giovane figlia è stata coinvolta da un grave incidente. Ad aiutarlo a ricostruire quanto accaduto c’è una madre, Meera, abbandonata dal marito.

Lei ha lavorato, precedentemente, al montaggio di documentari e la vicenda del film è rappresentata come fosse la ricostruzione di una storia vera. Il dato riportato alla fine del film è purtroppo reale: dal 1994 in India 10 milioni di donne non sono nate perché abortite. La storia è inventata?
Il film non è basato su una storia vera, ma sono fatti che possono accadere. Nel film è descritta sia la realtà urbana che quella rurale e in entrambe esiste la società patriarcale. Il patriarcato è un fenomeno presente in molte società e in alcune è molto radicato. In India c’è una nuova legge contro la violenza sulle donne ma, finché non cambia la mentalità, questa non sarà mai sufficiente ad eliminare gli abusi contro il genere femminile. Esiste un rito in alcune zone dell’India legato all’eliminazione delle figlie femmine. Ora è proibito abortire quando si conosce il sesso del nascituro (n.d.r. per chi non vuole figlie femmine è sufficiente fare un’ecografia per conoscere in anticipo il sesso e abortire, per questo è stato proibito ai medici di non dare risposte in tal senso ma, come si vede anche nel film di Vijayan, alcuni medici si lasciano corrompere per soldi e informano i genitori). Nel caso di famiglie benestanti i genitori cercano di concepire figli maschi attraverso la selezione di cromosomi, ma la pratica è molto costosa e soltanto poche persone possono permetterselo. Il fatto di avere un figlio maschio è ancora l’ambizione di molte persone.

Che tipo di rapporto c’è stato con Anita Nair, autrice del romanzo e sceneggiatrice del film?
Il rapporto è stato ottimo, ha accettato di lavorare con noi nonostante non fossimo famosi, mentre lei era già una nota scrittrice. Il film è diverso dal libro, dove la storia è incentrata su Meera. Invece il film si è concentrato sul personaggio maschile del padre della ragazza. Quando abbiamo iniziato a lavorare siamo entrati molto in empatia con questo personaggio perché io ho una figlia di 18 anni e anche il produttore è padre di una figlia femmina. Ecco perché il film è orientato più sulla figura paterna e anche noi come padri di due figlie femmine siamo confusi, ci interroghiamo: ‘abbiamo fatto bene a educarle in questo modo?’. Molti mi hanno chiesto soluzioni, risposte, ma non ho certezze. Infatti il film pone domande, non offre risposte.

Si è trattato di un investimento coraggioso, è stato difficile trovare un produttore?
No, perché lui ci credeva, era convinto e voleva fare il film.

Il film è presentato questa sera a River to river in anteprima europea, come è stato accolto in India?
E’ uscito nelle sale in India ad aprile. La referente per le Nazioni Unite per l’India e il Buthan ha supportato molto il film, ha organizzato incontri e conferenze anche in contesti accademici.

Il film ha vinto il premio come miglior film indiano in lingua inglese al 60° National Film Awards, l’Oscar del cinema indiano, ma oltre l’inglese si sente anche un’altra lingua, rispecchiando in tal modo il multilinguismo del subcontinente. Perché questa scelta?
I giovani in India parlano lingue diverse, nelle città si parla inglese mentre nell’India rurale si parlano le lingue delle diverse regioni.

I comportamenti liberi o anticonformisti di Meera sono sempre puniti da sensi di colpa. Perché?
Perché le persone sono deboli e lei è una persona debole. Nel film non ci sono personaggi ideali, ma reali, con le loro debolezze. In fondo siamo un po’ tutti così. I personaggi non sono dei vincenti, sono dei perdenti.

Sono le stesse donne a non combattere, anche la testimone, ha visto tutto, ma non ha difeso Smriti, non è intervenuta. Come mai?
Lei infatti è impaurita, si nasconde. Non volevamo rappresentare, come di solito accade in altri film indiani, il personaggio che, alla fine, trova la soluzione, risolve o vince. Nel libro è il medico il mandante della violenza: se nel film avessimo identificato un colpevole allora il padre si sarebbe scagliato contro di lui per vendicare la figlia. Non volevamo rappresentare la vendetta.

I suoi progetti futuri, il prossimo film?
Sto lavorando ad un film insieme allo stesso produttore, siamo una squadra affiatata e lavoriamo bene insieme.
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TAFTER è mediapartner di River to River – Florence Indian Film Festival

manettibrosSong’e Napule, l’ultima e divertente fatica dei fratelli Manetti, è presentato fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma con un cast tutto italiano: Giampaolo Morelli, Alessandro Roja, Serena Rossi, Paolo Sassanelli, Carlo Buccirosso e Peppe Servillo. I due (Manetti) Bro. sorprendono con una commedia poliziesca ambientata a Napoli. Una storia festosa e noir dove Giampaolo Morelli, l’ex Ispettore Coliandro, interpreta il cantante neomelodico Lollo Love e canta dal vivo le musiche originali scritte da Pivio e Aldo De Scalzi e arrangiate dagli Avion Travel. I due registi Marco e Antonio Manetti debuttano con la regia di video musicali e approdano al cinema con alcune pellicole tra cui Piano 17, il thriller L’Arrivo di Wang e poi l’horror Paura 3D. Con Song’e Napule raccontano il fenomeno napoletano dei cantanti neo melodici, famosi nella loro città ma sconosciuti a livello nazionale. Senza presunzione girano una storia dalla linea comica e romantica, con un taglio che ricorda chi, per primo, ha raccontato la vera Napoli e cioè i registi Nanni Loy ed Ettore Scola.

Paco (Alessandro Roja), un pianista disoccupato, entra da raccomandato in polizia e viene chiamato dal Commissario Cammarota (Paolo Sassanelli) per una missione speciale. Deve infiltrarsi nel gruppo musicale di Lollo Love (Giampaolo Morelli) che suonerà al matrimonio della figlia (Serena Rossi) di un boss della camorra.

 

Intervista a Marco Manetti e Giampaolo Morelli

 

Il film Song’e Napule è stato fortemente voluto dal produttore Luciano Martino recentemente scomparso. Potete raccontarci come nasce l’idea del film?

Marco Manetti: “Nella nostra vita è entrato Luciano Martino, un bambino di 80 anni che ha insistito e ci ha martellato continuamente dicendoci: questo è il film che dovete fare. L’idea è di Giampaolo Morelli ma la sceneggiatura è stata scritta da Michelangelo La Neve con la nostra collaborazione. Siamo orgogliosi di aver girato il suo ultimo film; è più suo che nostro. Amiamo il cinema e ci vengono in mente delle storie. Da fuori sembriamo dei registi che fanno un percorso, un tragitto che vuole toccare diversi generi un po’ alla Soderbergh ma, in realtà, siamo aperti a tutto e pronti a fare qualsiasi film che ci piace.”

Giampaolo Morelli: “Mi piace il genere e poi vengo da un quartiere di Napoli che si chiama Arenella, tra il centro storico e il Vomero, e ho amici di tutte le classi sociali. Mi ha sempre incuriosito l’idea di mettere un napoletano borghese all’interno di un tessuto sociale completamente diverso, quello più popolare e dei cantanti neo-melodici che da Napoli in giù sono conosciutissimi. Un genere fatto anche di video clip assurdi, pieni di cuore, sentimento e arte. In realtà sono cantanti e musicisti molti talentuosi. Volevo raccontare la Napoli dei matrimoni infiniti che sembrano più dei sequestri di persona e volevo realizzare un altro sogno: portare i fratelli Manetti a Napoli. Solo loro potevano raccontare la Napoli come la vedevo io. Ogni angolo e vicolo di Napoli è un set. Loro potevano calarsi nel tessuto sociale e raccontarla così bene, da dentro.

 

Il film tratta il rapporto cantanti e camorra e alla loro presunta affiliazione. Immaginate che potranno esserci delle polemiche?

Marco Manetti: “Il film non vuole essere un’etichetta, ma una dichiarazione d’amore per Napoli e per la cultura popolare. La camorra è una realtà di Napoli così come il crimine è una realtà di tutte le città del mondo con nomi diversi. Il fatto è che i cantanti neo-melodici, per tradizione, vanno a cantare nelle feste di chi si può permettere di pagarli. Spesso, soprattutto in città difficili come Napoli, chi può permetterselo è legato al crimine e questo, nell’immaginario italiano, ha trasformato i cantanti in criminali. Questo è un falso mito, totalmente da sfatare. Sono dei cantanti che cantano nella loro realtà che è fatta anche di quello”.

Giampaolo Morelli: “Un altro motivo per cui volevo fare questo film è per sfatare il luogo comune dei cantanti legati e associati, necessariamente, alla Camorra. Ci sono tanti artisti bravi che vivono della loro arte e ci mettono tutta la passione e il sentimento possibile. Il problema è che può capitare che vadano ad esibirsi a dei matrimoni di persone affiliate con la camorra. A Napoli, fortunatamente, ci sono artisti onesti”.

 

Per quanto riguarda invece il connubio musica trash e genere neomelodico?

Marco Manetti: “E’ vero che ci sono due luoghi comuni sulla musica neo-melodica: l’affiliamento alla camorra e il trash che c’è, ma è una parte. Esiste, soprattutto, una musica napoletana di spessore molto alto con musicisti talentuosi. Spero proprio che il nostro film porti fuori e riveli un Sud che non è legato a nessuna di queste etichette, ma composto da gente che sa fare bella musica”.

Giampaolo Morelli: “Nel genere neomelodico ci sono professionisti seri, talentuosi e qualcuno che sì, è anche un po’ trash, ma comunque non si deve generalizzare”.

 

ceneandiamoE’ pieno il Palladium; è l’ultima delle tre sere della prima assoluta di “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, nel corso del decimo compleanno di Roma Europa Festival.
C’è un’atmosfera calda, il pubblico, sempre di quella tipologia un po’ “intellettuale” che è tipica di Roma Europa, ha un’età media di una trentina d’anni. Mi colpisce sentire che qualcuno sta tornando a distanza di due giorni, portando altra gente: le aspettative si alzano.
Lo spettacolo, coproduzione Roma Europa e Teatri di Roma, è ispirato al romanzo di Petros Markaris “L’esattore”, legato alla vicenda delle quattro pensionate greche che si sono tolte la vita insieme, dopo l’ennesimo taglio alla loro pensione. Si parte da un’immagine precisa del romanzo, ce lo ripetono gli attori stessi più volte: le quattro donne vengono ritrovate, due distese sul letto, due assopite ciondoloni da una sedia.

Tre sedie, un tavolo ed un fondale nero: i quattro attori non utilizzano altro per ricostruire il viaggio interiore che li ha portati ad immaginarsi il momento prima di quel tragico gesto, per ricostruire la scena della bevuta dei sonniferi mortali, dei pensieri che avranno attraversato la testa di quelle donne mentre all’unisono incastravano negli ultimi attimi vite che probabilmente non le avevano unite in precedenza tra loro, quasi a dire che non c’è bisogno di un passato comune per condividere un obiettivo finale ed estremo come quello che hanno compiuto queste donne.

L’operazione che propongono Deflorian e Tagliarini, insieme con Monica Piseddu e Valentino Villa, è di sfondamento della quarta parete di pirandelliana memoria: raccontano il travaglio dell’attore, il suo percorso verso l’assunzione delle sembianze del personaggio giocando sul non saper fingere.

Su questo doppio gioco ognuno fa il suo monologo: si parte spesso dalle azioni quotidiane, di vita nostra.
C’è la tapparella che si rompe e, andando a comprare delle cinghie di ricambio alla ferramenta di fiducia, si scopre che sta chiudendo ed intere famiglie di commessi si interrogano sul loro futuro, ci sono le bollette che non si riescono a pagare, l’affitto improvvisamente insostenibile.
Il quotidiano che diventa esempio del dramma esistenziale è però raccontato senza mai essere esasperato, il pubblico ride.
I corpi degli attori anticipano le parole, sono la vera forza dello spettacolo: Monica Piseddu sorprende il pubblico quando, con un gesto rapidissimo che parte dalle spalle, passa dal comico racconto dei suoi risvegli improvvisi nella notte a ricalcare precisamente l’immagine del romanzo da cui parte lo spettacolo di una della donne sdraiate.

Quasi senza che il pubblico se ne accorga il tavolo, ultimo degli elementi scenografici a fare il suo ingresso in scena, diventa il tavolo delle quattro donne con quattro bicchieri, la bottiglia di vodka per la certezza della creazione di un cocktail micidiale con i sonniferi, le quattro carte d’identità in ordine e le voci che rileggono il biglietto “ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Risparmierete sulle nostre quattro pensioni e vivrete meglio”. Diventa tutto nero, siamo alla ricostruzione della storia, arriva anche l’azione finale di chiusura, netta, inequivocabile: gli attori ricoprono le sedie, diventano nere anche loro, come la tovaglia sul tavolo, come il fondale del palco.

Lo spettacolo finisce, gli attori sono richiamati tre volte, lo spettacolo che avevano dichiarato di non poter fare perché ci si dispera a casa propria – mica a teatro – da soli e non con della gente che ci guarda, ha inchiodato tutti gli spettatori al palco.

primavoltascarduelliIntervista Matteo Scarduelli, responsabile marketing e comunicazione del  Filmmaker Festival

 

Dal 1980 esiste a Milano questo festival straordinario che si chiama Filmmaker Festival. Eppure, c’è qualcuno che forse ancora non lo conosce. Spiegaci di cosa si tratta.
Quando la realtà è in continuo movimento, solo l’arte può anticipare i cambiamenti, intuire le svolte, individuare le tendenze o le eccezioni. Le narrazioni possibili che si nascondono sotto la superficie degli accadimenti devono essere scovate e riconosciute, e diventare oggetto di una scommessa difficile e affascinante: devono prendere una forma. Questa serie di passaggi – che è la pratica corrente dei cineasti che lavorano con la realtà – è un processo che Filmmaker conosce bene: il nostro festival oltre a mostrare i film (in concorso e fuori) si è sempre occupato del processo creativo e produttivo del film, seguendo lo sviluppo di progetti e finanziandone la realizzazione.
A partire dal 1980 Filmmaker, con il contributo di enti pubblici, sponsors privati ed istituzioni culturali, promuove sul territorio milanese la cultura cinematografica indipendente, sostenendo al tempo stesso la ricerca e l’innovazione nella produzione audiovisiva.
La caratteristica che più di tutte ha contraddistinto Filmmaker rispetto ad altri festival è da sempre stata l’azione tesa a favorire la produzione di nuove opere. Ad oggi più di ottanta film e video sono stati realizzati con il sostegno dell’associazione.
Nell’annuale sostegno alla produzione audiovisiva sono sempre stati privilegiati i giovani, i nuovi autori e tutti coloro che scelgono di realizzare un cinema “fuori formato”.

 

Ma poi, alla fine, chi ci lavora dietro? Insomma, chi siete?
Persone che credono e hanno creduto che il cinema possa essere realmente una forma di educazione e di confronto sociale e politico. Con il tempo l’associazione ha subito diversi mutamenti e negli ultimi anni sono entrate nuove generazioni che hanno nuove energie ed idee per parlare di cinema oggi. Il festival durante l’anno ha sempre cercato di organizzare laboratori e seminari accessibili a tutti per promuovere la critica e la regia cinematografica. L’anno scorso grazie a Fondazione Cariplo abbiamo lanciato il progetto “Nutrimenti” mettendo insieme da tutta Italia trenta giovani filmmaker che hanno avuto l’opportunità di seguire una masterclass di un anno con i più importanti registi e produttori del cinema contemporaneo.
Quest’anno grazie alla costituzione di Milano Film Network, il network dei festival cinematografici milanesi, abbiamo avuto l’incarico di gestire e organizzare i laboratori di tutti i sette festival del circuito (Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Festival MIX Milano, Filmmaker, Invideo, Milano Film Festival, Sguardi Altrove Film Festival e Sport movies & Fest.); una sfida e un’opportunità incredibile che porterà l’accento ancora di più sulla dimensione laboratoriale della nostra associazione. Luca Mosso direttore del festival da due anni, è coadiuvato dall’instancabile lavoro di Danila Persico ( responsabile della programmazione con Alessandro Stellino e Francesca Piccino). Per il secondo anno ho preso in gestione la parte di marketing e comunicazione della manifestazione; Cristina Caon è la nostra coordinatrice del programma e Ottavia si occupa della parte gestionale dell’associazione. Abbiamo anche uno chef, Andrea, e nuovi soci del calibro di Minnie Ferrara, Dario Zonta, Alina Marazzi e molti altri che quando possono ci dedicano le loro energie. Quest’anno abbiamo con noi anche Diego, tre Giulie e tutto lo staff del Network.

 

Per questa edizione avete deciso di pensare in grande e di chiedere aiuto a tutti coloro che hanno creduto, credono e vorranno credere nella magia di questo festival. Cosa bolle in pentola?
Come ben sai le pubbliche istituzioni sono in gravi difficoltà economiche ed è venuto il momento di coinvolgere il nostro pubblico, un pubblico forte che oltre trenta anni segue il festival nelle differenti location milanesi. Abbiamo costruito sulla piattaforma di crowdfunding Kapipal la nostra personale campagna. Per farlo e abbiamo pensato di creare un video lancio virale coinvolgendo tra i più importanti registi del che sono passati attraverso le produzioni di Filmmaker o che hanno vinto alcune edizioni del festival. Gianfranco Rosi, Alina Marazzi, Michelangelo Frammartino, Silvio Soldini sono solo alcuni dei nomi che hanno partecipato a questo progetto sposando il claim del festival: la prima volta non si scorda mai.
La campagna sarà accompagnata da una serie di attività off line e una serie di interviste che pubblichiamo settimanalmente sui nostri canali social in cui i vari registi ci raccontano le loro prime volte. Piccoli tuffi emotivi nel passato e momenti ispiratori per tutti i futuri registi.

 

Quindi, state diventando sempre più grandi e sempre più famosi. Quali sono le principali novità di questa edizione?
L’intenzione è questa, anche perché con l’entrata all’interno del festival network si presuppone che molte risorse possano essere condivise. Lo staff del festival in effetti si è decisamente ingrandito. Quest’anno oltre al concorso internazionale ci sarò una retrospettiva dedicata al documentarista americano Ross Mcelwee. Avremo una sezione fuori formato in cui saranno presentate in anteprima alcuni lavori italiani molto interessanti. La novità più grande però è ancora una sorpresa per l’intera città di Milano e non potremmo parlarne fino al 19 di novembre. Ci stiamo lavorando assieme al Comune di Milano.

 

3 buoni motivi per cui bisogna essere a Milano dal 29 novembre all’8 dicembre al Filmmaker Film Festival (non basta dire che TAFTER è media partner dell’evento)
1. Perché saranno presentate opere da tutto il mondo introvabili nei circuiti commerciali
2. Perché faremo l’Opening night in un luogo bellissimo e segreto
3. Perché durante il festival organizzeremo brunch, laboratori e workshop
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L’immagine di Filmmaker Festival è stata realizzata da Arianna Vairo

L’idea primigenia di Zuckeberg quando ha ideato Facebook era di creare un portale tramite il quale socializzare e fare rete. Oggi Facebook è diventato una realtà molto più articolata e complessa, e gli usi che se ne fanno si sono a dir poco moltiplicati. Facebook è diventato anche uno strumento per promuovere l’arte e la cultura, per curare la brand image di un’istituzione culturale o di un museo.

L’ha ben capito l’Essl Museum di Vienna, il museo a venti minuti dal centro della città, che raccoglie la collezione di arte contemporanea dell’austriaco Karlheinz Essl. Si tratta di un museo all’avanguardia, che basa la sua policy sul coinvolgimento diretto dei visitatori. Questi non sono semplici fruitori passivi delle opere esposte, ma sono protagonisti, soggetti direttamente coinvolti nelle attività del museo. Persino nelle sue scelte curatoriali.

La mostra LIKE IT!, inaugurata il 23 ottobre, nasce proprio seguendo i gusti degli utenti dell’Essl Museum che hanno scelto le opere da esporre tramite Facebook. L’esperienza social di LIKE IT! si è sviluppata in due fasi. Dal 30 settembre all’8 ottobre, i fan della pagina ufficiale dell’Essl Museum hanno avuto la possibilità di votare, attraverso un like, tra circa 120 opere, di varie tipologie – pitture, fotografie, video –  tutte appartenenti ad artisti della collezione, nati a partire dal 1973. Le più votate sono andate a costituire la mostra allestita nella Great Hall del museo. Una volta scelte le opere era necessario dare inizio alla seconda fase del processo: a tutti gli “Amici” Facebook del Museo è stata data la possibilità di candidarsi come curatori della mostra. 5 elementi sono stati scelti per collaborare con Andreas Hoffer, critico professionista del museo. E così, dopo un workshop intensivo di due giorni, l’allestimento ha avuto inizio e i curatori in erba hanno potuto occuparsi anche dei testi di commento a corredo delle opere.

 

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Un’opera fra tutte è stata scelta ad emblema della mostra, sia perché la più votata, sia perché effettivamente rappresentativa della natura della mostra: Estrella di Patrìcia Jagicza. Si tratta di un dipinto raffigurante una donna che si specchia in un bagno per uomini mentre si sta mascherando. È stata individuata come un simbolo del problema della privacy, del dilemma tra pubblico e privato di cui sono appunto espressione i nuovi mezzi di comunicazione digitale.

 

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L’esperimento con la mostra LIKE IT! è continuato anche durante la Vienna Fair, tenutasi dal 10 al 13 ottobre. I visitatori della fiera sono stati chiamati a votare, stavolta, le 5 opere che costituiscono la parte speciale della mostra “Vienna Fair – The New Contemporary Special Selection”. Il parere degli utenti di Facebook, inoltre, è richiesto per tutto il corso della mostra – che si terrà fino al 6 gennaio – attraverso commenti e like che possono determinare cambiamenti nell’allestimento.

Andreas Hoffer stesso ha spiegato la necessità di portare avanti questo esperimento di curatela social partecipata: è inutile per un museo avere una pagina Facebook, un’identità sui social network, se questi devono essere usati passivamente. I social vanno considerati uno strumento professionale vero e proprio, indispensabile se sfruttato in tutte le sue potenzialità.

 

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Ed effettivamente un prima esperienza del genere l’Essl Museum l’aveva già sperimentata con il progetto “Festival of Animals”. In quel caso erano quattro gruppi a scegliere le opere, a contribuire al catalogo della mostra e a interagire direttamente con gli artisti: i bambini di due scuole, un gruppo di donne della Caritas e i fan Facebook del museo.

Sempre Andreas Hoffer ci ha tenuto a precisare, però, che quello di LIKE IT! sarà un evento “one shot”: è assolutamente vietato ripetersi nel mondo dei social e le domande da porre al pubblico devono variare di continuo. Il caso di questo museo di Vienna va sicuramente tenuto in conto come esempio intelligente di uso dei social media, un modo interattivo e dinamico per coinvolgere pubblici sempre più vasti, soprattutto giovani, all’interno di strutture e processi che spesso sono percepiti troppo settoriali o elitari. Uno sguardo fresco e nuovo sulle cose, specialmente nel mondo dell’arte e della creatività, non fa mai male.

 

pesciIn un mondo sempre più dominato dai geek e dai nerd, intriso di virtualità sociale e comunità virtuali c’è bisogno di ritornare alle origini del lavoro creativo, in cui l’atto di creare ha delle sue precise conseguenze materiali. Operae è l’effetto, il risultato concreto di un’attività artistica, intellettuale e materiale: un processo di messa in funzione che prevede la produzione di un determinato manufatto conseguente ad un’attività di lavoro.

Torino la scorsa settimana per la quarta edizione ha ospitato Operae, l’independent Design festival; una fucina di makers, artigiani e designer pronti a sporcarsi le mani e ad ibridare nuove e vecchie tecnologie per dialogare tra futuro e presente. Oltre ottanta espositori provenienti da tutta Italia hanno riempito le OGR Torinesi in tre giorni intensissimi di incontri, workshop per bambini, conferenze e masterclass.

Costola creativa della Torino Design week, Operae quest’anno ha ospitato al suo interno la manifestazione MICRO più, organizzata da Copy Copy, associazione che da anni cerca di restituire uno sguardo sulla produzione editoriale indipendente proponendo case editrici e publisher internazionali più creativi del momento, fino all’anno scorso svoltasi ad Art Kitchen, a Milano.

Tra i molti progettisti presenti, molto interessanti sono sicuramente le sperimentazioni editoriali di LuchaLibre, un progetto che cerca di esplorare le nuove forme di cinema, letteratura e la musica unendo con le opere di giovani illustratori internazionali in una veste grafica molto accattivante. Ancora più eclettico è il magazine Diorama, frutto di una ricerca costante, scandita in stagioni tematiche.

La creatività che traspira dalle decine di giovani designer presenti fa sperare bene per il futuro dello stivale; una parola su tutte è flessibilità e indipendenza; se non andrà in patria, il mercato estero infatti è già pronto per accogliere la creatività italiota.

Tra i manufatti più ingegnosi e hipster c’è la libellula emotiva di tagmi; agenzia di comunicazione milanese che si era fatta notare l’anno scorso con il progetto Fix your bike, un film adesivo per le biciclette resistente ad acqua e raggi UV che permette di rivestire totalmente la propria bici in maniera creativa.

Parlando di musica e diffusori alternativi impossibile non citare GIACINITO Loudspeaker, un altoparlante fai da te che consente di modulare le frequenze del suono in maniera analogica grazie a filtri intercambiabili. Simile principio ma meno personalizzabile è ITO’CH amplificatore acustico creato per fare suonare il legno, creazione nata dalla collaborazione tra Realizzatori di idee e lavoro di un liutaio.

Il laboratorio tipografico Semiserie è un pozzo di idee regalo senza fine: un duo creativo definisce le sue creazioni irrazionali e ironiche, utilizzando tecnologie scomode, lente ed obsolete senza alcuna logica di mercato.

Arriva da Lecce il progetto MoMang, realizzato nell’ambito dell’arte pubblica: è una struttura metallica leggera e smontabile pronta per essere utilizzata come cucina da street food e pensata come attivatore dello spazio pubblico.

Per gli appassionati del Design, imperdibile l’appuntamento in corso con la Dutch Design Week Olandese ad Eindhoven dal 19 al 27 ottobre, e per chi non riuscisse a volare in terra arancione dovrà aspettare l’appuntamento milanese organizzato allo spazio “O”: Sprint (dal 29 novembre al 1 dicembre) con l’Independent Publisher and Artist Book Fair.

 

GLIMPTSiete appassionati di design innovativo, contemporaneo, spiritoso e creativo? Allora l’ Operae. Independent Design Festival di Torino è il posto che fa per voi. Si tiene ai Cantieri OGR dall’11 al 13 ottobre e queste sono alcune delle creazioni che espone al pubblico.

Sedie, lampade, sgabelli, elementi d’arredo per la cucina, il salotto, la camera da letto, opera di designer e artisti nazionali e internazionali della scena contemporanea, risultano un piacere per gli occhi e i gusti dei visitatori del festival. E se poi c’è un oggetto che vi è piaciuto più degli altri… potrete pure acquistarlo!

Quelle che vi proponiamo sono le realizzazioni di:
1) Digimorphé
2) Dorodesign
3) Federica Bubani
4) Friday Project
5) Glimpt
6) Ilaria Innocenti
7) Jamais Sans Toi
8) Johnny Hermann
9) Lith Lith Lundin
10) Livia Polidoro
11) Manuel Netto
12) Marco Guazzini
13) Officina82
14) Philipp Beisheim
15) Piktur
16) Teste di legno
17) ZPSTUDIO

La V° edizione del Festival del Flamenco all’Auditorium Parco della Musica di Roma è stata inaugurata dall’anteprima di FLA-CO-MEN di Israel Galván.

Galván, figlio d’arte – madre, della famiglia de Los Reyes, ‘bailaora’ (ballerina di flamenco) e  padre ‘bailaor payo’ (ballerino non gitano) – ha reinterpretato la danza flamenca, grazie alla sua creatività, stimolata dai rapporti fecondi con artisti e coreografi internazionali, e alle contaminazioni con i vari stili di danza contemporanea. L’artista sivigliano rappresenta la perfetta fusione tra la precisione tecnica payo e la dirompente energia emozionale gitana, come da lui stesso dichiarato, essere entrambe le cose gli ha dato maggiore fiducia in se stesso.

galvan
Senza mai abbandonarne le radici, ha rivitalizzato la tradizione flamenca (influenzata dalla cultura araba, ebrea e cristiana) inserendola nel panorama coreografico contemporaneo e internazionale, per questo ha conseguito diversi premi sia in Francia che in Spagna.
Fla-co-men è forse, tra i titoli degli spettacoli del coreografo sivigliano, quello che meglio esprime il suo stile: la parola ‘flamenco’ è frammentata nelle sue sillabe e ricomposta in un diverso ordine, fla-co-men.

Potremmo definire lo stile del flamenco di Galván ‘cubista’, squaderna il ‘baile’ (flamenco tradizionale), lascia che sia contagiato da altri stili musicali e coreutici, poi lo ricompone dandogli una diversa fisionomia. Il maestro ‘cantaor’ (cantante) Enrique Morente diceva che nel flamenco si doveva tradurre la tradizione ed essere coscienti del ‘tradimento’ che è sempre implicito in tale operazione. Il ‘montaggio’ coreografico (scomposizione-contaminazione-ricomposizione) è la cifra stilistica e la chiave interpretativa della danza di Israel Galván. Allo stesso tempo quest’ultimo riconduce spesso il flamenco, riconosciuto patrimonio culturale immateriale dell’Umanità dall’UNESCO nel 2010, alla sua purezza originaria, quando era ballo individuale e non era accompagnato da strumenti musicali ma soltanto dai ‘toque de palmas’ (il ritmo del battito delle mani).
In Fla-co-men il corpo statuario di Galván è apparso in controluce sul palco come una star del rock. La musica  durante lo spettacolo è stata spesso sottrazione, riduzione a suono e ritmo, accompagnando la libertà espressiva ed emozionale di Israel, oppure densa di riferimenti come alla tarantella, ai tangos, al jazz o a sonorità orientali. La gamma espressiva-emozionale è andata dalla tristezza e malinconia della soleá e seguiriya, alla gioiosità dell’alegría, Già nel primo brano è stato subito riconoscibile il suo stile, il ritmo è nel suo respiro, nel battito delle mani, nel suo corpo usato come uno strumento di percussione. Il suono del sax è diventato un lamento. I suoi movimenti delle braccia spesso evocano movenze del mondo animale, sono puri, precisi, velocissimi. Il basso elettrico ha scandito il ritmo come un pendolo e le braccia di Galván hanno disegnato nell’aria geometriche oscillazioni. Ad un tratto il palcoscenico si è trasformato in arena e il ballerino in un torero.
Il corpo di Galván riesce a vibrare insieme a una campana tibetana. La sua danza sprizza energia, emozioni perfettamente controllate, come le sue impeccabili piroette. Ad un tratto si pone davanti ad un microfono ma è il suo corpo a cantare e non la sua voce, così come davanti ad un leggio è il suo corpo ad eseguire la partitura.
La sua danza ha ipnotizzato il pubblico, che sembra aver assistito in apnea e che generosamente si è prodigato in applausi senza riuscire però ad ottenere un bis dal ballerino ormai a piedi nudi.
Bella la voce del cantaor Tomás de Perrate e l’esecuzione di Antonio Moreno alle percussioni.

Il Festival proseguirà il 10 ottobre con l’anteprima mondiale di Homenaje flamenco a Verdi, interpreti: lo straordinario cantaor Arcángel, la bailaora Patricia Guerrero, con accompagnamento di chitarra, contrabbasso e percussioni; l’11 ottobre sarà la volta della cantante andalusa Carmen Linares insieme al trio formato da Jorge Pardo al sax, Carles Benavent al basso e Tino Di Gerlado alla batteria.
Il concerto prevede l’esecuzione di brani classici e originali su testi dei famosi poeti: Federico Garcia Lorca, Horacio Ferrer e Miguel Hernández; il 12 ottobre, Mercedez Ruiz presenterà: Baile de palabra, confluenza di tradizione e innovazioni, in cui la ballerina andalusa sperimenta nuove coreografie e il 13 ottobre Eva Yerbabuena presenterà: Ay!
Ad arricchire il programma le 32 immagini dei fotografi Pablo Jiménez e Mikel Alonso che illustreranno la festa religiosa che si tiene ogni anno a maggio: El Rocío, piccolo villaggio andaluso di Almonte (Huelva), dove si trova l’immagine della Virgen del Rocío. Oltre cento confraternite dell’Andalusia con i loro vestiti tradizionali, a maggio, si mettono in cammino, con buoi, muli, carri e ogni mezzo per raggiungere La Blanca Paloma, una delle denominazioni della Madonna del Rocío.

festberCome ogni anno l’atmosfera del 13. Festival Internazionale della Letteratura di Berlino alla Haus der Berlinerfestspiele è stata viva e accogliente. Il complimento più bello è giunto proprio alla chiusura quando Salman Rushdie nel definire la kermesse letteraria berlinese l’ha chiamata un “meraviglioso assembramento di scrittori. Mi considero onorato di poter partecipare”.

Ruschdie non ha mancato nemmeno di ringraziare calorosamente l’amico e direttore del festival Ulrich Schreiber, per il supporto al “PEN World Voices Festival of International Literature” di recente fondazione a New York.

164 autori da 47 diversi paesi hanno partecipato all’edizione di quest’anno, un raduno non solo di autori e di autrici, ma soprattutto l’incontro di diverse generazioni di scrittura e di diverse forme dell’arte di raccontare. L’edizione di quest’anno infatti ha previsto una particolare apertura al mondo della comunicazione, con particolare attenzione a quella delle diverse generazioni o forme d’arte a confronto, facendone un festival “politicamente attivo”, quasi una forma di museo itinerante, educativo, temporaneo: il programma ha presentato la letteratura per bambini e per la gioventù con una sezione a parte pensata sia per giovani lettori che per giovani scrittori, quindi con un occhio al futuro, alla formazione; ha  inoltre inserito i progetti “Weltweisheit – Kulturen des Alterns”, con riflessioni e confronto sulla diversa percezione del “tempo che passa” di rinomati artisti e diversa estrazione culturale, e per ultimo la presentazione di collaborazioni con le arti che in tempi moderni hanno cambiato il volto della letteratura e che ancora lo stravolgeranno nell’immediato futuro, cioè la novella a fumetti e la letteratura applicata alla creazione di videogiochi, tra conferme e mutazioni di codici e linguaggi espressivi.

Durante il 13. Internationales Literaturfestival Berlin per la sezione “Internationale Kinder und Jugendliteratur” (Lettartura internazionale per l’infanzia e la gioventù) si è tenuta la manifestazione “Eine Geschichte für Europa. Welche Kinder und Jugendliteratur braucht Europa?” (Una storia per l’Europa. Di quale giovane letteratura necessita l’Europa?). 26 giovani autori e illustratori sono stati invitati a riflettere e discutere su questo tema per poi far confluire la loro creatività in uno scritto, in un saggio o in un racconto. Ogni ospite ha poi proposto un libro per i giovani lettori europei. Il risultato è stato una raccolta di storie dal panorama culturale e letterario ricco di sfaccettature e nuovi punti di vista sul tema e sul futuro del continente, che grazie al supporto finanziario della Commissione Europea, verrà pubblicato in una versione tedesca e inglese dalla Vorwerk Verlag (ISBN-978-3-940384-61-4): “Schlüssel für di Zukunft. Welche Kinder- und Jugendliteratur braucht Europa? – Keys to the future. What kind of Children’s and Young Adult Literature does Europe need?”. La pubblicazione sarà distribuita gratuitamente nei ministeri culturali, nelle scuole, nelle biblioteche, e varie altre istituzioni dentro e fuori Europa.

I giovani autori e illustratori che hanno partecipato all’edizione sono nel testo disponibile on-line.

 

Weltweisheit – Kulturen des Alterns (Saggezze del mondo – Culture dell’Età) 3-13 Settembre 2013. Un Progetto del Festival Internazionale di Letteratura (13. Ilb) nell’ambito dell’Anno della Scienza 2013 – Prospettive della Demografia.

In che modo un aborigeno pensa al concetto d’età umana? Perché gli uomini d’Israele e in Giappone hanno le più alte aspettative di vita? Quali sono i valori di un uomo anziano di Cuba? Come si è sviluppata la nostra attuale percezione del tempo -passata attraverso tutta la letteratura europea a partire dall’antichità- e in che modo evolverà? L’Ilb si è interrogato su questo tema con un programma d’interventi di autori e ricercatori, invitati al proposito di incontrarsi e discuterne con il pubblico attraverso letture, manifestazioni e testimonianze dalla prospettiva della più ampia diversità culturale possibile.
Ogni anno crescono in Germania le aspettative di vita di circa tre mesi. Lo sviluppo demografico si pone quindi  insieme ai problemi ambientali come una delle sfide del futuro ai cui il progetto Wissenschafstjahr 2013 – Die demografische Chance del Ministero Federale della Cultura finanzia per promuovere informazione e dibattito sul tema. Viviamo sempre di più, ci saranno sempre meno giovani, sarà una società sempre più multiculturale.
Il dibattito è stato pensato dal Ilb Berlin invitando un gruppo di autori, giornalisti e pensatori di varia origine culturale ed estrazione sociale a parlare della loro opinione sul tema e di come si sia eventualmente sviluppato nella loro scrittura o ricerca, un dialogo tra scienza e letteratura: Ingrid Bachér (Ger), Priya Basil (Gb), Gisela Dachs (Ger/Isr), Péter Farkas (Ung), Franz Hohler (Ch), Dacia Maraini (Ita), Nancy Morejón (Cuba), Georg Stefan Troller (Aus/Fra), Herb Wharton (Austr), Martin Winckler (Kan) che in un dialogo con gli scienziati Prof. Dr. Christian Behl (Universität Mainz), Dr. Sonja Ehret (Universität Heidelberg), Prof. Dr. Andreas Kruse (Universität Heidelberg), Prof. Dr. Clemens Tesch-Römer (Deutsches Zentrum für Altersfragen) und Dr. Nina Verheyen (Universität Köln), hanno discusso sui temi “La Creatività con l’Etá che avanza”, “L’Età e le Emozioni” e “Etá e Qualitá di Vita”. Il progetto finanziato dal Ministero si è svolto in diverse sedi della città ad ingresso gratuito.

 

Scandalo dell’NSA: Juli Zeh e una ventina di altri autori raccolgono oltre 65.00 firme da presentare agli uffici del governo.

Il 18 settembre scorso due dozzine di autori hanno consegnato ad un rappresentante del governo tedesco 65.000 firme a supporto delle lettera aperta alla Cancelliera Angela Merkel (la petizione può essere trovata anche in internet www.change.org/nsa ). Con questo gesto gli autori intendono indurre il governo ad una immediata ed adeguata risposta alle recenti scoperte dei metodi di spionaggio in rete dell’agenzia americana appartenente ai servizi segreti CIA.
Questa è la prima azione politica congiunta di autori e intellettuali tedeschi dalla riunificazione. Gli scrittori partecipanti a questa iniziativa sono, solo per citare alcuni nomi della letteratura, della poesia o della saggistica, Juli Zeh, Moritz Rinke, Julia Franck, Ulrike Draesner, Michael Kumpfmüller, Inka Parei, Nora Bossong e Kristof Magnusson.
Prologo all’azione è stata la lettera aperta che la scrittrice e giurista Juli Zeh insieme ad altri 60 autori ha pubblicato alla fine di luglio su Change.org e sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Il testo indirizzato alla cancelleria Angela Merkel (CDU) prega il governo di prendere posizione per la difesa dei diritti e della privacy e contro l’iniziativa della agenzia investiva americana.
“La protezione dei dati personali e della privacy stanno all’era della comunicazione, come stava e sta la protezione dell’ambiente alla progressiva industrializzazione.” scrive Juli Zeh. “E non c’è momento migliore in cui il governo dimostri di averlo compreso”.
Dal momento delle lettera aperta a luglio 2013, la Cancelliera non ha ancora adeguatamente chiarito cosa sia accaduto in Germania a proposito delle accuse del “whistle-blower” Edward Snowden, né fornito assistenza o adeguata informazione ai propri concittadini sulla questione. “La strategica tattica dell’attesa sull’intero affare da parte del governo, non è più accettabile”, afferma Eva Menasse una dei propugnatori dell’iniziativa. “La marcia verso la Cancelleria” si è tenuta il pomeriggio del 18 settembre 2013. Ora, dopo il voto e la conferma della Merkel, si attende una risposta chiarificatrice su cosa sia realmente accaduto e fino a che punto la politica europea fosse a conoscenza dello spionaggio preventivo dei servizi segreti USA.

 

1) Per correre una maratona di 5 km non ci vogliono muscoli e allenamento.
2) È obbligatorio sporcarsi, colorarsi, divertirsi senza pensare a cause e conseguenze.
3) Lo scopo non è vincere, ma partecipare.
Sembrerebbero le regole alla rovescia di un mondo incantato dove tutto è possibile e, invece, si tratta delle semplici e reali basi da cui parte l’esperienza The Color Run.

the color run

The Color Run è una corsa di 5 km alla quale si può aderire da soli o in gruppo, l’importante è cominciare la corsa vestiti di bianco, per concluderla tra un turbinio di polvere di colori. Non ci sono limiti di età per iscriversi e tutti possono partecipare perché le parole chiave sono benessere, felicità, individui e restituire. Si corre solo per sentirsi bene e vivere un momento felice, non per agonismo, per vincere premi, o per dare prova di prestanza fisica. L’individuo è al centro perché i Color Runners vengono da tutto il mondo per prendere parte a quella che è stata definita anche “la corsa dell’amore”: il rispetto e la gentilezza verso gli altri sono la condicio sine qua non per correre insieme agli altri. Infine, si può restituire un po’ della felicità incamerata attraverso la 5 km più allegra del pianeta, decidendo di donare qualcosa alle onlus che si allacciano all’evento.

Nonostante l’aspetto “charity”, però, per diventare Color Runner è necessario iscriversi e pagare, e The Color Run LLC è un’azienda a scopo di lucro. L’ideatore del progetto è stato Travis Snyder, organizzatore d’eventi dello Utah che pianificò la prima gara podistica da correre solo per divertimento, in Arizona a Phoenix. Era il 2010 e i partecipanti furono 6000. Da quel momento l’idea prese piede e si diffuse in Nord America, Sud America, Asia, Australia e Europa, arrivando a totalizzare 600.000 partecipanti per 50 eventi nel 2012.

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robot06-homeE’ l’evento imperdibile per gli amanti della musica elettronica e delle arti visive, ma anche per chi ha voglia di novità e sperimentazioni: il roBOt Festival è stato inaugurato dal concerto The Kilowatt Hour del 24 settembre e ora è grande l’attesa per gli appuntamenti che si svolgeranno dal 2 al 5 ottobre a Bologna. Ne abbiamo parlato con gli organizzatori.

 

Perché roBOt Festival sceglie quest’anno di indagare il tema della “vertigine digitale”? In che modo si propone di farlo?
L’accumulo e la conservazione del sapere è un macro tema diffuso e sviscerato dalle più grandi manifestazioni culturali europee degli ultimi anni. Il rapporto con archivi e database, l’attendibilità delle fonti e l’etica della privacy sono argomenti presenti nella nostra quotidianità. roBOt ha scelto di approcciare l’argomento partendo dagli effetti/conseguenze individuali per ipotizzare reazioni, soluzioni e nuovi scenari di convivenza/sopravvivenza socio-culturale. La sovraesposizione ai flussi di informazioni causa asfissia e smarrimento, provocando quella che Lovink definisce, mutuando Freud, la “Psicopatologia del sovraccarico di informazioni”.
I partecipanti a questa sesta edizione di roBOt descriveranno la #digitalvertigo: forme capaci di incarnare gli istinti primordiali, intimi e grotteschi, le paure e i sentimenti contrastanti di uno Spleen post moderno, generato dalla perdita di limitazioni e punti di riferimento. Le interpretazioni raccolte rappresentano soluzioni stilistiche eclettiche, che indurranno nello spettatore le sensazioni più incontrollate, recondite, irrazionali e allucinatorie. Fra i risultati formali sono emersi distorsioni ottiche e percettive allucinatorie, giochi di riflessi e di luci, ribaltamenti prospettici; allusioni a mondi alternativi, paralleli, esoterici, all’aldilà e alle dimensioni magiche, mitiche, religiose; fino a giungere, visivamente, alla raffigurazione del Cosmo.

 

Quali gli eventi salienti di questa edizione? Ci sono novità importanti da segnalare?
Anche quest’anno il Festival porterà in 5 luoghi diversi della città, fra teatri club e palazzi storici, il meglio dell’elettronica internazionale: fra gli altri, si esibiranno Tim Hecker, Lorenzo Senni, Thundercat (prima e unica tappa italiana), Seth Troxler, Ben Klock, Pantha Du Prince, Jon Hopkins e dj Koze. Due invece saranno le novità importanti della sesta edizione: il Music Hack Day, un evento che nell’arco di 24 ore, fra il 5 e il 6 ottobre, riunirà a Palazzo D’Accursio programmatori, designer e artisti per dare sfogo alla loro creatività e dare vita al futuro della musica elettronica e il roBOt kids, nato dalla partnership con il Dipartimento Educativo MAMbo, un laboratorio audiovideo dedicato ai bambini.

 

L’evento è giunto ormai alla sesta edizione e si conferma uno degli appuntamenti di punta per Bologna. In che modo la città partecipa al festival? Sono state avviate particolari sinergie?
C’è stato un supporto totale da parte dell’Amministrazione Comunale bolognese, in particolare abbiamo lavorato a stretto contatto con il Settore Cultura e il Settore Marketing Urbano e Turismo. Grazie al sostegno di Provincia e Regione abbiamo realizzato la rassegna estiva “roBOt_ini in provincia” che ci ha permesso di portare delle pillole del festival nei comuni di Castel Maggiore, Bentivoglio e Budrio.
Confermata anche la collaborazione con l’Alma Mater Studiorum: riduzioni studenti sugli abbonamenti al festival e supporto sull’organizzazione dei workshop che riguardano lo sviluppo delle tematiche trattate quest’anno.
Il Teatro Comunale di Bologna rappresenta la location preziosa deputata all’opening mentre il dipartimento educativo del MAMbo, Museo di Arte Moderna di Bologna ospiterà la giornata di chiusura, per la prima volta dedicata ai bambini.
Il festival attraversa club e associazioni culturali particolarmente attivi in città: Arterìa, TPO, Link ed Elastico Studio, accolgono installazioni, live e dj-set.

 

Il concerto di apertura di roBOt06 ha coinciso con l’ultima tappa del tour di The Kilowatt Hour, in una location particolare.
Il progetto The Kilowatt Hour nasce dall’incontro delle sinergie di tre grandi della sperimentazione musicale, David Sylvian, ex membro del pop rivoluzionario dei Japan, Christian Fennesz e Stephan Mathieu, due mostri sacri dell’elettronica. La piece è pensata come un’interazione fra tre diversi stili, è un lavoro in work in progress che prende forme diverse a seconda del luogo in cui si svolge. A Bologna The Kilowatt Hour si è svolto presso il Teatro Comunale, risalente al 1700, un luogo straordinario che ha offerto agli artisti un particolare spunto per la loro performance.

 

In questi anni di roBOt Festival, come è cambiata l’offerta musicale elettronica? In che direzione si sta andando in particolare nel nostro Paese?
Il format di roBOt è cambiato molto negli anni: l’evento nasce come momento dedicato alla dance da club ma negli anni la musica elettronica in Italia ha conosciuto la diffusione in diverse sfumature ulteriori rispetto a quella ballabile, come quella dell’ascolto e della ricerca. Il roBOt Festival inoltre si pone l’obbiettivo di valorizzare la produzione elettronica nazionale che al giorno d’oggi non ha nulla da invidiare in quanto ad attualità e grado di sperimentazione alle famose “scuole” tedesche e inglesi.

 

Quali sono i numeri di roBOt06?
roBOt è un festival che coinvolge 140 artisti di cui il 30% internazionali, patrocinato da 6 istituzioni fra cui il Comune e Provincia di Bologna, Regione Emilia Romagna, Fondazione del Monte e Università di Bologna. I cinque giorni di Festival non sono animati solo dalla musica, ma anche da workshop, installazioni video, documentari e performance di danza e teatro. La scorsa edizione roBOt ha contato circa 14.000 presenze, 150 persone coinvolte nell’organizzazione e 40 volontari.

 

Cosa c’è nel prossimo futuro del roBOt Festival?
Ci interessa seguire l’evoluzione delle tecnologie laddove digitale, arte e musica si incontrano, obiettivo che si rinforza di anno in anno.
E’ nostra cura continuare a fare ricerca in questo settore portando in Italia artisti interessanti con proposte capaci di mantenere alto il livello di attenzione  del pubblico. Nel prossimo futuro, roBOt intende coltivare i progetti roBOt_ini in provincia, roBOt kids e il Music Hack Day, novità significative del 2013, tutti ideati nell’ottica di lavorare in rete per creare un network di intelligenze, spunti e stimoli creativi.

 

 

jazzitfesOggi, organizzare anche un piccolissimo evento diventa sempre più difficile da organizzare, eppure Luciano Vanni già un anno fa tra le pagine di facebook annunciava la sua grandiosa creazione: un “festivalone” in grande stile che, a livello di innovazione nulla ha da invidiare all’illustrissimo “Umbria Jazz”, anche se, l’impronta è completamente differente.
Parliamo di “Jazzit Fest”, evento che dal 5 all’8 settembre si terrà a Collescipoli, in provincia di Terni. Il periodo scelto, non solo contribuisce a destagionalizzare l’attrazione turistica, ma vive nell’interesse di non compromettere il percorso perugino promosso da oltre 40 anni dal più importante festival di jazz in Italia.
Proprio in provincia di Terni ebbe origine Umbria Jazz e sempre lì, lo stesso Luciano Vanni, più di un decennio fa, sfidò il suo destino fondando la casa editrice LVE con le sue rispettive riviste: “Jazzit” e “Il Turismo Culturale”. L’evoluzione di questo suo amore per la musica lo portò a confrontarsi con la regione Umbria (resa universale per il jazz) e con l’ambito dell’organizzazione degli eventi, dando origine prima a “Terniinjazz Fest” (2001-2007) e in seguito al “Gran Tour Fest” (2008-2009).
L’APPROCCIO
Agli occhi di tanti, l’organizzazione di un evento colossale da parte di un editore, lascerebbe un po’ a desiderare, ma a dirla tutta, quella degli imprenditori che navigano in prima linea nell’ambito della comunicazione e che di conseguenza ambiscono a sperimentare il panorama festivaliero, sembra diventare una considerevole realtà. Quasi certamente per uno che scrive di jazz e di turismo non sarà stato tanto difficile interagire con musicisti, critici, associazioni ed istituzioni di categoria, e proporre loro di intervenire in prima persona durante la propria manifestazione. L’abilità sta poi nell’essere imparziali, (anche se il tocco di criticità non deve mai mancare), spesso accondiscendenti e nel saper vedere oltre i personali interessi. Una buona dose di queste caratteristiche, assieme alla passione per il proprio lavoro e ai 3 anni di meditazione avranno complessivamente contribuito ad realizzare pienamente il progetto dell’editore e a renderlo così tanto innovativo. Innovativo per una lunga serie di motivi:

 

QUANTITÀ
Immensa varietà della stessa proposta ideativa: 104 concerti (26 al giorno) con 450 jazzisti, 60 stand di operatori del settore nel primo reale expò di jazz italiano, “il meeting del jazz in Italia” (tra etichette discografiche, circoli, collettivi, festival, produttori di strumenti musicali, negozi di musica, etc), proiezioni cinematografiche, esposizioni di fotografia, e opere d’arte. La scelta dei repertori e degli stessi musicisti non dipende da nessun direttore artistico, tanto è vero che la figura dell’ideatore Vanni si avvale solo delle sue qualità di moderatore – coordinatore e, se vogliamo, di “project manager”.

 

QUALITÀ
La parte più “seriosa”, probabilmente la più “studiata a tavolino” è dettata dalla scelta di far emergere del “nuovo” e dalla tipologia di workshop, conferenze, clinics, seminari musicali diretti da musicisti; corsi di musica, ear traning, laboratori in tema per i più piccoli; meeting ad incastro in versione no stop. Cosa che nessuno mai aveva pensato di fare dedicando in maniera esclusiva tutte le singole attività alla musica jazz.

 

GESTIONE INNOVATIVA tra CROWDFUNDING, CO-WORKING e DIREZIONE ARTISTICA “OPERN SOURCE”
Realizzare un cartellone di questa portata esigerebbe di grossi costi se non fosse per il contributo singolare di tutte quelle realtà che per loro personale scelta hanno deciso di sentirsi partecipi all’organizzazione del Jazzit Fest. C ‘è chi, come la Vanni Editore offre il backline con supporto alle scuole di musica, chi mette a disposizione il proprio personale specializzato come le agenzie di management e i proprietari di jazz club. Lo staff del Fest si occuperà tra le tante cose di comunicazione, di booking in qualità di agenzia turistica, dell’intera logistica, mentre gli artisti sono giunti di spontanea volontà per esibirsi assolutamente senza alcun fine di lucro.
Chiaramente, il bisogno di disporre di una forza lavoro così professionale, di servizi importanti, tali da non condizionare la qualità e quantità dell’offerta cartellonistica, generano conseguentemente, da parte dell’ideatore-commitente, un atteggiamento tanto “elastico” e comprensivo da non voler pretendere necessariamente la partecipazione di tutti quegli artisti che, normalmente, in fase di creazione festivaliera, si vorrebbe a tutti i costi inserire nel programma.
Ecco spiegata sicuramente una delle ragioni per le quali è stato scelto di non promuovere la funzione di un direttore artistico.

 

LA “CARTA DEI VALORI” E LA POSSIBILE FORMULA DI AUTOPROMOZIONE
La scelta di non chiedere neppure un euro di finanziamento pubblico, di non necessitare di un direttore artistico, di permettere agli artisti, operatori del settore e concittadini di partecipare in piena libertà ma senza cachet rientra nel codice etico della carta dei valori. Un codice programmatico – organizzativo e produttivo ben interpretabile da tutte la comunità di riferimento che a sua volta andrebbe condiviso anche con i futuri lettori ed ideatori.

Non si può per l’appunto negare l’interesse da parte di una casa editrice che si presta a questa nuova forma di comunicazione diretta (il festival-festa) di promuovere le proprie creazioni, di incontrare personalmente i propri abbonati, di generarne dei nuovi e allo stesso tempo di ottimizzare i costi e soprattutto i tempi avendo una miriade di artisti e operatori a propria disposizione ai quali poter dedicare interi articoli, di proporre loro nuove incisioni, di stipulare con essi particolari convenzioni, di stabilire accordi di sponsorship, di vendita delle pagine pubblicitarie all’interno dei propri volumi-numeri, e via di seguito. Eppure, c’è da riconoscere che l’obiettivo primordiale del JAZZIT FEST non sembra essere affatto quello di fare i propri interessi di stampa, poiché nessuno tra coloro che avrà contribuito all’iniziativa, artisti compresi, godrà di un trattamento privilegiato.

Piuttosto, i personali accordi finora stipulati dalla casa editrice verranno messi a disposizione di altri come “effetto fiera”, così da rendere insaziabile l’impegno di fare rete tra simili. Esattamente così: un’industria che opera all’interno di una fiera che non cerca solo buyers, ma fa in modo che questi interagiscano anche fra di loro! Un pensiero del resto ben condiviso e da sempre fedele alla linea editoriale.

 

IL TARGET, IL VOLONTARIATO E LA FESTA-MEETING GRATUITA
Diciamo allora che non si potrebbe in realtà parlare di un festival vero e proprio, quanto di una festa impareggiabile. Un evento rivolto principalmente ai propri appassionati, operatori del settore e a chi vorrà conoscere dal vivo lo spirito e il metodo di lavoro adottato dalla LVE. Gli stessi volontari, una squadra composta da oltre 100 elementi, possibilmente aventi una media di 28 anni, saranno i primi che in cambio del contributo reso e degli sforzi economici affrontati tra viaggio e alloggio (seppur con convenzioni), avranno la possibilità di apprenderne attraverso continue riunioni il criterio operativo.
Una manifestazione studiata anche per far ampliare le proprie conoscenze e che, per le condizioni indicate, si esprime nella massima gratuità o nella facoltà di rendere un’offerta libera in base alle proprie disponibilità.

 

IL “PAESE FESTIVAL-SMART CITIES” COME “ESPERIMENTO SOCIALE”
Ciò che più colpisce del pensiero di Luciano Vanni è la volontà di rendere totalmente attiva la partecipazione del territorio.
“Sei amante del jazz o no, ma sei comunque un cittadino di Collescipoli? Ebbene, sei invitato a dare una mano!”. Non è un rimprovero, né tantomeno un obbligo, piuttosto uno stimolo a fare in modo che ciascuno faccia la propria parte per il crescere della cultura, dell’economia e del turismo locale. In fondo è un grande onore quello di vedere un antico borgo medievale come Collescipoli di soli 300 abitanti mostrarsi tutt’altro che impreparato tanto da accogliere l’enorme staff organizzativo e a prestare, tra le tante cose, perfino le sedie per la platea. È un segno di fiducia ma anche di speranza che si cela dietro quell’emozionante detto: “l’unione fa la forza”.

Chi infatti diventa il primo interlocutore, oltre agli stakeholders già citati e tutto il territorio ternano, è la Pro Loco assieme alla serie di istituzioni, compresa la Circoscrizione, che si sono impegnati nell’assicurare la resa gratuita degli spazi pubblici (5 palchi tra chiese, piazze, chiostri, viuzze e altri spazi all’aperto e al chiuso), a rendere efficiente la macchina organizzativa per l’ospitalità (servizi, sicurezza, ordine pubblico, alloggi, il ristoro e trasporti), con la scusa anche di promuovere la regione con gli stand enogastronomici.
Molte realtà che sono state sostenute nella veste di startup hanno finito negli anni nel dipendere soprattutto dai fondi statali, difendendosi dietro quella volontà di fare cultura ormai troppo ripetitiva e non più unica a molti.

Che Luciano Vanni sia risuscito negli anni, magari grazie alle sue ambizioni, alla sua crescita professionale e ai suoi rapporti editoriali – istituzionali, ad affascinare tutto il paese di Collescipoli, bisogna crederci, anche perché è una persona che lavora con ingegno e senso critico. Si può anche credere all’idea che quasi tutti gli abitanti del posto ora possano amare il jazz o essersi resi conto dell’importanza dell’attrazione turistica che il suo festival possa innescare, tanto da convincere anche i più anziani compaesani a dedicare del proprio tempo per la realizzazione dello stesso e a resistere fino a notte fonda ai più striduli suoni di tromba …. ma, non è bene imitarlo senza disporre di azzeccati strumenti per lavorarci sopra, pretendendo carta bianca con il solito scopo di realizzare i più svariati sogni artistici musicali che poco hanno a che vedere con il territorio se non nel prendere per la gola la comunità più focosa con le arti più appetitose: musica commerciale e gastronomia generalizzata.

Sicuramente, Vanni, nel suo disegno progettuale intende far credere che i successi migliori si ottengono col passare degli anni, dopo aver meticolosamente studiato ed educato il proprio territorio alla vera cultura (a quella che andrebbe fatta imboccare per essere compresa), ed essersi conseguentemente reso effettivamente conto di cosa il territorio nel suo complesso desidera. Una volta aver intuito lo spirito della manifestazione e aver fatto in modo che ciascun cittadino ne comprendesse i fini e a sua volta li condividesse, allora, solo dopo, sarebbe doveroso far subentrare la necessità di generare un criterio fattibile di smart- city.

 

moscinvenIl Lido di Venezia si prepara ad accogliere, dal 28 agosto al 7 settembre, l’edizione numero 70 della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, sotto la direzione di Alberto Barbera e giuria presieduta da Bernardo Bertolucci.

Anche se le tematiche che attraversano le pellicole non lanciano segnali di ottimismo e rispecchiano una realtà conflittuale, il Festival non perde il suo fascino e apre con due star hollywoodiane, Sandra Bullock e George Clooney, presenti con il film fuori concorso Gravity del regista Alfonso Cuaró. Debutto al lido per l’attrice americana e primo film in 3D ad aprire la Mostra più antica del mondo. La pellicola racconta la storia dell’ingegnere Bullock che, alla sua prima missione su uno shuttle comandato dall’astronauta Clooney, si perde nello spazio senza avere più contatti con la Terra.
Altro film di fantascienza è anche Under the skin di Jonathan Glazer dove la sensuale Scarlett Johansson è un’aliena in incognito a caccia di prede umane che cattura con la sua vorace bellezza.

Una rassegna di film dai temi forti che rispecchia una contemporaneità dove ricorre spesso la violenza e la crisi: esistenziale, sociale e affettiva. Scomparse le commedie. Presenti molti giovani esordienti, una selezione quella di Barbera molto coraggiosa. Tra i film in gara e in corsa per aggiudicarsi il Leone d’oro Philomena, di Stephen Fears. Tratto dal libro di Martin Sixsmith, “The Lost Child of Philomena Lee”, la pellicola è il racconto della vera storia di Philomena Lee che negli anni ’50 si vede sottrarre il proprio figlio, dato in adozione, e per cinquant’anni non smette di cercarlo. Dopo il successo di The Queen (che ha portato a Helen Mirren un premio Oscar), si annuncia un’altra notevole interpretazione della quasi ottantenne attrice inglese Judy Dench, regina di talento e possibile candidata alla Coppa Volpi.

Grande interesse per l’interpretazione di James Franco, attore, regista, sceneggiatore e scrittore di romanzi. Il poliedrico talento americano sarà presente con due film, Child of God, in concorso e Palo Alto di Gaia Coppola (nipote di Francis Ford), fuori concorso. Tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarth, Franco firma la sua seconda regia e descrive la storia di un uomo emarginato e violento che si rifugia in una caverna e precipita in una condizione di degrado totale diventando un assassino.
Ancora fantascienza nel film del regista inglese Terry Gilliam, The Zero Theorem con Matt Damon, Tilda Swinton e Christoph Waltz. Il premio Oscar austriaco interpreta un solitario genio del computer interessato a scoprire il senso dell’esistenza risolvendo uno strano teorema.
Questi i tre film stranieri in concorso che potrebbero avere maggiori chance di vittoria.

Da cinefili italiani lo sguardo è rivolto all’Italia e ai tre film in concorso diretti da un documentarista, una esordiente e un grande ritorno.
Sacro GRA di Gianfranco Rosi, primo documentario ammesso in gara. Il regista racconta un mondo invisibile e situazioni paradossali. Girato sul Grande Raccordo Anulare di Roma, uno spazio urbano che nasconde vite ai margini.
Via Castellana Bandiera segna il debutto alla regia di Emma Dante, autrice del romanzo da cui è tratto il film, con Alba Rohrwacher alle prese con un duello tutto al femminile tra donne che rappresentano mondi differenti.
L’intrepido di Gianni Amelio con Antonio Albanese e Sandra Ceccarelli, rivela l’attualità e la precarietà di un uomo senza lavoro che si inventa il mestiere del “rimpiazzo”. Prende il posto di chi si assenta, anche solo per qualche ora dalla propria occupazione, e diventa: muratore, bibliotecario, pagliaccio nei centri commerciali, venditore di fiori, autista di tram. Un personaggio scritto dal regista proprio per Albanese che nel film si chiama, simbolicamente, Antonio Pane.
L’Italia non vince il Leone d’oro da quindici anni, l’ultimo regista è stato proprio Gianni Amelio con Così ridevano. Questo potrebbe essere il suo anno fortunato.

 

Era il 15 agosto del 1969, data che nella storia della musica ha un solo significato:  Woodstock
Ripercorrere cosa accadde circa 45 anni fa  a Bethel, 80 km da NY, in quei pochi ettari di terra prestati quasi casualmente a quello che doveva essere un concerto estivo dedicato al rock e alla cultura hippie oggi potrebbe sembrare anacronistico e forse un po’ lo è: nulla di simile a ciò che avvenne in quei 4 giorni di concerto (che in realtà dovevano essere 3) dedicati alla Musica e alla Pace, così come recitava la locandina della manifestazione, potrebbe oggi accadere. In molti hanno provato a far rivivere il mito di quel festival, ma nessuno, nemmeno gli stessi organizzatori anni più tardi, è mai riuscito nell’impresa.
Nel bene e nel male, cerchiamo di capire perché Woodstock rimane un evento irripetibile e, nelle sue contraddizioni, rappresenta la fine di qualcosa (e l’inizio di qualcos’altro).

woodstockcoker

LA MUSICA

PRIMO GIORNO
Richie Havens
Sweetwater
Bert Sommer
Tim Hardin
Ravi Shankar
Melanie
Arlo Guthrie
Joan Baez

SECONDO GIORNO
Quill
Country Joe McDonald
John B. Sebastian
Keef Hartley
Santana
Incredible String Band
Canned Heat
Grateful Dead
Creedence Clearwater Revival
Janis Joplin
Sly & The Family Stone
The Who
Jefferson Airplane

TERZO GIORNO
Joe Cocker
Country Joe & The Fish
Leslie West/Mountain
Ten Years After
The Band
Johnny Winter
Blood Sweat And Tears
Crosby, Stills, Nash & Young

QUARTO GIORNO
Paul Butterfield Blues Band
Sha-Na-Na
Jimi Hendrix

Questa più o meno la scaletta del concerto anche se nessuno è stato poi in grado di affermare se sia stata seguita o meno. Le piogge torrenziali, i ritardi degli artisti, i guasti alle apparecchiature tecniche e i disagi dell’organizzazione hanno fatto slittare tutte le 32 esibizioni in programma, al punto di ritardare il tutto di un giorno.

Jimi Hendrix, che avrebbe dovuto suonare alle 23 del 17 agosto, si ritrovò a salire sul palco alle 4,30 del mattino successivo. Ed erano ancora tutti lì.

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La droga la faceva da padrona, è vero, ma anche uno stato mentale di rilassatezza tale da fare in modo che nulla potesse essere visto come un problema, come un ostacolo.
La musica, anche con il senno di poi e la coscienza di 45 anni in più, è l’unica cosa che tutti, indistintamente, si sentono di salvare senza se e senza ma dopo questo grande evento che non fu solo musicale, ovvio, ma anche politico e storico.
Non che le esibizioni siano state perfette, anzi: molti artisti non volevano salire sul palco e ricattavano gli organizzatori per un cachet più alto, altri avevano suonato solo davanti a poche centinaia di persone prima di allora ed erano rimasti completamente immobilizzati vedendo davanti a sé oltre mezzo milione di persone, altri ancora erano pesantemente sotto effetto di acidi e improvvisavano stonando. Ma l’atmosfera della musica, del palco, quelli la ricordano e la testimoniano tutti.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=b1S3jnFfJXM]

IL PUBBLICO
Di nomi del grande rock statunitense ce ne erano parecchi: molti più celebri oggi che allora, altre erano già consacrate stelle del firmamento musicale. Eppure, ad essere protagonista fu senza dubbio il pubblico: queste 500 mila persone completamente inaspettate che giunsero nella vallata solo per sfuggire alla metropoli, cercando di ritrovare la forza bucolica che millantavano in quegli anni proprio in quell’ampio spazio dove ogni cosa era possibile: quando dal secondo giorno di festival tutti cominciarono a togliersi i vestiti, a denudarsi, a bere, a fumare, a fare sesso libero, a cantare, ad auto-organizzarsi per poter andare avanti nonostante le difficoltà (pensate che Manhattan, a circa 100 km dalla sede dell’evento, conobbe a causa del festival l’ingorgo più terribile della sua storia), le icone che salivano sul palco, con  le loro borchie e i loro giubbotti di pelle sembravano quasi superate, vecchie.
Si dice che durante il Festival nacquero 2 bambini e morirono 2 ragazzi, uno per overdose e uno schiacciato da un trattore mentre dormiva nelle campagne dopo 70 ore ininterrotte di musica.

Woodstock Poland

L’ORGANIZZAZIONE
E’ forse questo il motivo più palese per cui oggi non si potrebbe mai ripetere un festival come quello del 1969. La fretta nell’organizzazione del festival che inizialmente avrebbe dovuto tenersi proprio a Woodstock, le autorizzazioni mancate, la location adattata con pochi giorni di anticipo, l’impossibilità delle forze dell’ordine di gestire uno spazio così vasto e così aperto, la mancanza di servizi igienici, l’impossibilità dopo appena 24 ore di raggiungere Bethel anche solo per portare acqua e cibo, hanno fatto si che la location divenisse, per quel weekend, una piccola comune completamente autogestita. Tutti si resero conto che stavano partecipando a qualcosa di unico e tutti si impegnarono affinché venisse rispettato il carattere pacifico dell’evento. Non ci fu nessuna rissa, nessun atto di violenza, nessun incidente.
Un incubo di fango e stagnazione monopolizzato da intrusi con l’aria freak” lo apostrofò il New York Times durante lo svolgimento. Che poi, dopo qualche mese ammise “Lo facemmo principalmente per scoraggiare l’arrivo di altre persone. Avevamo paura che la situazione degenerasse”. Fu così che dopo qualche giorno il festival divenne “un fenomeno di innocenza”, o “un motivo d’orgoglio per lo Stato di New York”.

woodstocklocandina

LA CULTURA
Ma ciò che realmente fu Woodstock lo raccontarono con parole, spesso contrastanti, i suoi protagonisti: “Ci fu la sperimentazioni di ogni tipo di droga e di esperienza lisergica ma tra libero amore e pioggia battente provammo a costruire la nostra cultura e la nostra comunità, con la nostra musica, la nostra stampa, i nostri valori, miti e leggende, per creare una pazzia autenticamente nostra in cui l’autodisciplina e la cooperazione costituivano l’unica via possibile” affermò l’attivista politico Jerry Rubin.
“Tutti flirtavano con la pazzia, improvvisando a caso, facendo pena o con risultati geniali – racconta Eddie Kramer, il tecnico del suono – Woodstock non credo sia stato l’inizio di un bel niente. E’ stato la porta dietro la quale sono rimasti sepolti gli ideali e le utopie degli anni Sessanta”.
Erano i giovani che aspiravano ad avere un posto nella società e che per tre giorni lo avevano trovato lì, in un mondo utopico fatto di sesso, droga e rock’n roll.

woodstockcibobandiera

CHE FINE HA FATTO WOODSTOCK
La fattoria dove si svolse quel solo e unico concerto (gli organizzatori continuarono ad organizzare in un’altra location un festival omonimo una volta ogni 10 anni ma senza gli stessi risultati) è stata acquistata oggi da un imprenditore americano che vi ha fatto sorgere un museo in ricordo del concerto ma anche della cultura hippie. Sede di pellegrinaggi da parte di scolaresche e di figli dei fiori tardivi, il fantasma di quell’evento giace così nel ricordo di chi si è divertito, di chi ne è rimasto traumatizzato, di chi ne ha tratto profitti e di chi può dire di avervi partecipato.

woodstocktarga
Un lungometraggio “Woodstock: Three Days of Peace&Music”, vincitore del premio Oscar come miglior documentario, ha tentato di far rivivere ai posteri quelle sensazioni. Che nessun festival contemporaneo sarà mai più in grado di ricreare.
Purtroppo o per fortuna.

cortona

Una giornata ed una nottata incredibile, nel piccolo centro storico di Cortona, qualche giorno fa (il 4 Agosto per la precisione), quando Lorenzo Jovanotti ed il suo J team, composto da Saturnino, Riccardo Onori, Leo di Angilla, Franco Santarnecchi e Marco Tamburini hanno “riempito” di persone e di musica Piazza Signorelli e tutta Cortona.

Duemilatredici i biglietti polverizzati in poche ore per poter assistere ad uno show unico, una data a sorpresa ed inattesa, arrivata subito dopo quel #lorenzoneglistadi, il Backup tour, che ha riempito stadi e città di mezza Italia.
La data di Cortona è stata inserita per la serata conclusiva del Cortona Mix Festival, alla seconda edizione, ma già “ricco” di storie da raccontare ed impreziosito anche dalla collaborazione con La Feltrinelli.  Un festival “sulla frontiera”, tra letteratura e musica, una vera rarità in questo momento storico – culturale in cui sembra che la letteratura interessi solo a pochi.

Invece il successo è stato incredibile; il Mix Festival per tutta la sua durata ha riempito le piazze e la cittadina, e nella serata conclusiva, l'”invasione” pacifica, non solo per Lorenzo, ma anche per Roberto Saviano, intervenuto nel pomeriggio ai Giardini Parterre ed anche al concerto di Jovanotti in Piazza Signorelli in serata.
La bella Italia, quella che saremmo orgogliosi di esportare all’estero (e non quella politica, ahinoi!), era lì a Cortona, ed ha trascorso una “notte fantastica”.
Pur conservando il cuore e la genuinità locale, tra i protagonisti assoluti c’erano: il borgo ed il centro storico, ma anche le frazioni nella valdichiana, in fondo alla collina, che si contraddistinguono per accoglienza, ospitalità, bellezza, cultura, sorrisi, buon cibo e buon vino.

Ed è giusto sottolineare anche una organizzazione perfetta, per i pochi fortunati che hanno potuto assistere al live in Piazza e per chi era invece nei pressi dei maxischermi, posizionati in ben 3 punti della città, due nel centro ed uno a Camucia, una delle frazioni di Cortona.
Oltre il Cortona Mix Festival, la vocazione di accoglienza del territorio si percepisce nell’ideazione e nella realizzazione di altre iniziative, che offrono ai “viandanti” momenti culturali e bellezza del borgo: Cortona on the move, festival della fotografia di viaggio che si tiene dal 18 Luglio al 29 Settembre, in vari punti della città e Cortonantiquariato, con un occhio speciale per la prima volta anche al design, che si terrà dal 24 Agosto all’8 Settembre, nel Palazzo Vagnotti ed i cui manifesti comparivano già il giorno successivo al grande evento targato Jovanotti.

Queste iniziative, inserite in un progetto di valorizzazione, con lungimiranza e voglia di fare, rendono Cortona – la perla della Toscana – in più di un’occasione “l’ombelico del mondo”.

 

Foto da instagram di @svoltarock

mostracinemaveneziaUna Mostra dominata da temi forti, film che – con molte eccezioni – riflettono le tante crisi d’oggi, economiche, politiche e sociali, e affrontano l’assenza di prospettive, senza dare segnali di ottimismo. Venezia 2013 si apre con due star hollywoodiane in 3D – Sandra Bullock e George Clooney nel fantascientifico Gravity di Alfonso Cuarón – si chiude con un docufiction franco-bresiliano in 3D, Amazonia e ospita un film d’animazione giapponese sempre in 3D, Space Pirate Captain Harlock di Aramaki Shinji, ma il direttore Alberto Barbera non nasconde il ricorrere di storie di grande sofferenza, prostituzione, pedofilia, omofobia, violenza sulle donne e la frammentazione dei nuclei familiari, come se la famiglia rappresentasse l’assenza di fiducia, la crisi di valori che la nostra società sta attraversando.

Le novità più appariscenti sono i due documentari in concorso, The Unknown Known del grande Errol Morris che ha intervistato l’ex segretario alla difesa USA Donald Rumsfeld, e Sacro GRA di Gianfranco Rosi, uno dei più celebrati documentaristi italiani.
In concorso il cinema nordamericano indipendente con Child of God di James Franco, Joe di David Gordon Green, Night Moves di Kelly Reichardt, Parkland di Peter Landesman, e tanti titoli britannici che segnano la rinnovata vitalità del cinema Uk: Stephen Frears con Philomena, interpretato da Judi Dench, Tracks di John Curran, Terry Gilliam con la coproduzione Regno Unito/Usa The Zero Theorem con Christoph Waltz, Jonathan Glazer con Under the Skin.

Per l’Italia torna Gianni Amelio con L’Intrepido, protagonista Antonio Albanese, e una straordinaria regista di teatro, Emma Dante, che esordisce al cinema con Via Castellana Bandiera. Polemiche per l’assenza di Anni felici, l’ultimo film di Daniele Luchetti, che ha scelto di andare al festival di Toronto? Nessuna, assicura il direttore Barbera, semplicemente il regista è rimasto scottato dall’accoglienza alla Mostra di anni fa e preferisce il Canada.

La Francia è presente in concorso con Philippe Garrel, che dirige il figlio Louis e Anna Mouglalis in La Jalousie, e nelle coproduzioni firmate dall’israeliano Amos Gitai, Ana Arabia, dall’algerino Merzak Allouache, Les Terrasses, e dal canadese Xavier Dolan, Tom à la ferme.

L’Europa è rappresentata anche dal greco Alexandros Avranas, che porta in Laguna il suo Miss Violence, e dal tedesco Philip Gröning, che torna, dopo il rigoroso Il grande silenzio, con il durissimo Die Frau des Polizisten.

Con orgoglio Barbera segnala la presenza in concorso di Stray Dogs (Jiaoyou) del maestro Tsai Ming-liang, ufficialmente il suo ultimo film, “summa di tutto il suo cinema”, e Kaze tachinu, film d’animazione del giapponese Hayao Miyazaki.

Da segnalare, fuori concorso, Edgar Reitz che porta a Venezia una sorta di prequel di Heimat, Die Andere Heimat – Chronik einer, e Andrzej Wajda con il suo omaggio a Walesa, Man of Hope.

IN CONCORSO
Es-Stouh (The Rooftops), Merzak Allouache (Algeria-France)
L’intrepido Gianni Amelio (Italy)
Miss Violence, Alexandros Avranas (Greece)
Tracks, John Curran (U.K.-Australia)
Via Castellana Bandiera, Emma Dante (Italy-Switzerland-France)
Tom at the Farm, Xavier Dolan (Canada-France)
Child of God, James Franco (U.S.)
Philomena, Stephen Frears (U.K.)
La Jalousie, Philippe Garrel (France)
The Zero Theorem, Terry Gilliam (U.K.-U.S.)
Ana Arabia, Amos Gitai (Israel-France)
Under the Skin, Jonathan Glazer (U.K.-U.S.)
Parkland, Peter Landesman (U.S.)
Joe, David Gordon Green (U.S.)
Die Frau des Polizisten (The Police Officer’s Wife) Philip Groning (Germany)
Kaze tachinu, Hayao Miyazaki (Japan)
The Unknown Known: the Life and Times of Donald Rumsfeld, Errol Morris (U.S.)
Night Moves, Kelly Reichardt (U.S.)
Sacro GRA, Gianfranco Rosi (Italy)
Stray Dogs (Jiaoyou), Tsai Ming-liang (Taiwan-France)

FUORI CONCORSO
Space Pirate Captain Harlock, Aramaki Shinji (Japan)
Gravity, Alfonso Cuaron (U.S.)
Moebius, Kim Ki-duk (South Korea)
Locke, Steven Knight (U.K.)
Yurusarezaru mono (Unforgiven), Lee Sang-Il (Japan)
Wolf Creek 2, Greg McLean (Australia)
Die Andere Heimat — Chronik einer Sehnsucht (Home from Home — Chronicle of a Vision), Edgar Reitz (Germany)
The Canyons, Paul Schrader (U.S.)
Che strano chiamarsi Federico Scola racconta Fellini, Ettore Scola (Italy)
Walesa. Czlowiek z nadziei (Walesa. Man of Hope), Andrzej Wajda, Ewa Brodzka (Poland)

FUORI CONCORSO – DOCUMENTARI
Summer 82 When Zappa Came to Sicily, Salvo Cuccia (Italy-U.S.)
Pine Ridge, Anna Eborn (Denmark)
The Armstrong Lie, Alex Gibney (U.S.)
Ukraina ne Bordel (Ukraine Is Not Brothel), Kitty Green (Australia)
Amazonia, Thierry Ragobert (France-Brazil)
Feng Ai (‘Til Madness Do Us Apart), Wang Bing (Hong Kong-China-France-Japan)
At Berkeley, Frederick Wiseman (U.S.)

ORIZZONTI
Je m’appelle Hmmm…, Agnes B. (France)
Bauyr (Little Brother), Serik Aprymov (Kazakhstan)
Il terzo tempo, Enrico Maria Artale (Italy)
Eastern Boys, Robin Campillo (France)
Palo Alto, Gia Coppola (U.S.)
Ruin, Amiel Courtin-Wilson, Michael Cody (Australia)
Mahi Va Gorbeh (Fish and Cat), Shahram Mokri (Iran)
Vi ar bast! (We Are the Best! ) Lukas Moodysson (Sweden-Denmark)
Wolfskinder (Wolfschildren), Rick Ostermann (Germany)
La vida despues, David Pablos (Mexico)
Algunas Chicas, Santiago Palavecino (Argentina)
Medeas, Andrea Pallaoro (U.S.-Italy)
Still Life, Uberto Pasolini (U.K.)
Piccola Patria, Alessandro Rossetto (Italy)
La prima neve, Andrea Segre (Italy)
Jigoku de naze warui (Why Don’t You Play in Hell? ), Sono Sion (Japan)
The Sacrament, Ti West (U.S.)

L’articolo è tratto da Cineuropa

Con i suoi 300 grandi film restaurati proiettati nella cornice della prestigiosa Cineteca, in una delle due sale cinematografiche dedicate all’evento e nella centralissima Piazza Maggiore il Festival del Cinema Ritrovato è riuscito a riportare Bologna indietro nel tempo e nello spazio fra pellicole in bianco e nero, a colori o colorate da restauro successivo, accompagnate dal suono di un pianoforte a coda o di un’intera orchestra.
Il Comune di Bologna dal 1986 ha saputo predire quale sarebbe stato il successo di pubblico, credendo e sostenendo il progetto di Gian Luca Farinelli (attuale Direttore della  Cineteca di Bologna) ed altri soci fondatori del Laboratorio della Fondazione Cineteca  – che opera da anni nel recupero e restauro di pellicole che fanno la storia del cinema internazionale  –  permettendo così al Cinema Ritrovato di arrivare al compimento del suo 27esimo anno nella veste di un piacevolissimo e consolidato appuntamento estivo per la città e per i tantissimi cinefili provenienti da tutto il mondo.

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“La crescita continua di notorietà del festival è avvenuta nel tempo soprattutto attraverso il passaparola. Chi ha partecipato ne ha parlato positivamente, forse perché ,a differenza di altri, il Cinema Ritrovato ha da sempre operato una scelta: quella, impegnativa e coraggiosa, di  investire le proprie risorse sui contenuti più che sulla promozione – spiega Guy Borlée, coordinatore e responsabile dell’evento – confermando il continuo aumento di adesione da parte del pubblico italiano e straniero accreditatosi all’evento con molti  mesi di anticipo.

Passaparola e volontariato: ecco le ancore che tengono il Festival ancora così saldo, nonostante i continui tagli al settore della Cultura ed alla pesante crisi economica che ha obbligatoriamente ridotto il budget di sponsorizzazione pubblico e privato.
Risorse preziose ed entusiaste sono state  quindi, ancora una volta, i tanti giovani volontari che hanno continuato ad  aderire alla chiamata della Cineteca, prestando il loro tempo e la loro passione per il cinema nel distribuire volantini e pieghevoli per la città, dare indicazioni nei diversi punti informativi, accogliere i visitatori alle proiezioni ed assistere  lo staff  della Cineteca di Bologna nei numerosi incontri del Festival: “il Cinema Ritrovato è diventato anche un momento di aggregazione fra i tanti volontari che in questi ultimi anni ci aiutano a far funzionare la macchina organizzativa di un evento così complesso : molti di loro continuano a ritrovarsi anche dopo questi giorni così intensi!”

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Ma la vera peculiarità del festival, la  sinergia che lo rende unico del  genere nel panorama italiano, è sicuramente quella di saper unire in modo armonico un evento cinematografico ad un momento di alta formazione, sia nel campo della storia del cinema che del suo restauro,attraverso conferenze tenute dai tanti relatori, esperti del settore provenienti da ogni parte del mondo. Non stupisce quindi che internazionale sia anche il pubblico, come testimoniato da Guy  Borlée : “un gruppo di studenti americani è stato qui nel quadro di in un piano formativo  dove  una delle tre settimane di permanenza a Bologna è stata interamente dedicata alla partecipazione agli  incontri  del festival;  in otto giorni hanno potuto  assistere ad una serie di lezioni di alto livello tecnico, e questo vale forse più di un anno di corso universitario” (Lezioni che  sono disponibili gratuitamente al link).
Dopo oltre un secolo l’alchimia della pellicola resta immutata grazie al lavoro di chi restaura e mostra queste opere d’arte, per consegnare al futuro una storia che rimanga intatta nel tempo.

E’ partita una sfida che coinvolgerà più di 60 mila persone in sei continenti: non si tratta delle Olimpiadi o dei Mondiali di calcio, bensì di un progetto ambizioso e creativo che ha l’obiettivo di far emergere i nuovi e migliori talenti nell’ambito della filmografia.

The 48 Hour Film Project, questo è il nome dell’iniziativa internazionale, nasce nel 2001 dall’idea visionaria di Mark Ruppert, che tentò appunto di realizzare un film “guardabile” in soli due giorni.
Da questa originale scommessa è emerso il valore del gioco: il tempo ridotto stimola infatti la creatività e lo spirito di squadra, oltre a dar precedenza alla “pratica” piuttosto che alla “teoria”, con risultati spesso sorprendenti.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=VGO9PFdlfq4]
Da allora l’esperimento si è ripetuto più e più volte, giungendo a ben oltre 700 competizioni tenutesi nel mondo. The 48 Hour Film Project è infatti itinerante e nel tempo ha interessato sempre più città.
Il concorso arriverà anche in Italia: l’11, il 12 e il 13 ottobre prossimi i filmmaker nostrani sono chiamati a rispondere alla sfida partecipando alla call di Roma. Nella capitale sarà infatti selezionato il team che rappresenterà il nostro Paese alla finale prevista negli USA.

Il premio in palio è di ben 5.000 dollari, ma la vera soddisfazione sarà quella di veder proiettata la propria opera in un parterre davvero d’eccezione, al Festival di Cannes 2014.

Le regole del gioco sono semplici: sarà assegnato un personaggio, materiale scenico e un dialogo che dovranno essere perentoriamente inseriti nel film; ai partecipanti è richiesta la piena autonomia nel comporre ed organizzare il proprio team di lavoro; la deadline è per le 48 ore successive dall’inizio della competizione.
Ogni opera realizzata viene poi proiettata in uno teatro o cinema della città in cui la gara si è tenuta, ma solo quella vincitrice sarà poi presentata alla finale di Filmapalooza a Hollywood.

Questo il miglior film della scorsa edizione: si tratta del corto “Jaques Serres”, realizzato dalla squadra francese Les Productions avec Volontiers of Paris. Direste mai che ci sono voluti solo due giorni di lavoro?
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=KjeESreH-9s]