Avete mai provato a spulciare il bilancio di una Fondazione? Provateci e vi accorgerete che trovare documenti chiari, concisi e di facile lettura, sarà molto più arduo di quanto pensiate. Probabilmente vi troverete impanati su dati, numeri e percentuali che poco vi illustreranno la situazione economica di questi istituti, nati da più di vent’anni con lo scopo di scorporare le funzioni imprenditoriali da quelle di diritto pubblico. Obiettivo allora era quello di portare così alla separazione delle fondazioni dalle banche che da pubbliche sono state privatizzate in s.p.a appetibili per il mercato. Tuttavia ad oggi al di là di quali siano le loro erogazioni e in quali settori queste ricadono, il fine del proprio operato, da nessuna parte viene spiegato in maniera esaustiva dove questi fondi per operare vengono raccolti.

Ma andiamo con ordine per fare luce sulla genesi e su quali sono queste leggi che regolano questo mostro giuridico, come definito dallo stesso padre si queste istituzioni, il prof. Giuliano Amato:

– tutto inizia nel 1990 con la legge n 218/90 e Dlgs n 365/90 attraverso i quali viene avviato il processo di ristrutturazione del sistema bancario nazionale a seguito del quale le Casse di Risparmio (depositi di risparmio privato)e gli Istituti di Credito di Diritto pubblico venivano convertiti in società per azioni

– legge 494/94 e direttiva Dini del novembre 94: si cerca di dismettere quanto più possibile il controllo pubblico delle banche e a tal fine venivano introdotti degli incentivi fiscali in favore di quegli enti che avrebbero compiuto questa privatizzazione nei cinque anni successivi (94/99)

– legge Ciampi 1999 la quale ha delineato e riconosciuto la natura giuridica privata e la piena autonomia statutaria e gestionali delle Fondazioni.

– Legge Tremonti 2001 che ha riorganizzato e limitato i settori di intervento, al fine di impedire l’uso dei finanziamenti a pioggia per i progetti da realizzare, ma delineandone un piano di gestione triennale e i settori interessati

– Finanziaria del 2004 che elegge le incompatibilità per coloro che rivestono cariche di controllo e amministrazione all’interno delle Fondazioni

– Decreto legge del 2010 che introduce un’autorità di vigilanza che deve relazionare entro il 30 giugno di ogni anno sull’attività della Fondazione

Queste le linee generali, ma nella pratica l’iter di separazione delle ingerenze politiche dalle banche ormai quotate in borsa e quindi passibili di dividendi e ricavi, non è mai avvenuto completamente. Ad oggi, infatti attraverso l’istituto della Fondazione Bancaria i componenti dei consigli d’amministrazione si trovano a possedere percentuali di maggioranza (in genere in capitale azionario) delle banche, da cui originariamente erano state scorporate. Capitale azionario equivale non solo quindi a remunerazione di dividendi, ma inoltre, come nel caso ben noto della Monte dei Paschi di Siena, è sinonimo di controllo nelle decisioni prese durante le assemblee ordinarie e straordinarie negli istituti di credito. Tuttavia, il patrimonio delle fondazioni non si limita alle quote bancarie. Sebbene sia difficile dai siti istituzionali risalire ad un quadro chiaro delle partecipazioni in società private, ecco qualche dato sul giro d’affari delle nostre fondazioni:

il patrimonio totale delle 88 fondazioni bancarie presenti nel nostro paese ( di cui una maggioranza cospicua hanno sede al nord piuttosto che al sud, perché originariamente la casse di risparmio erano lì situate) ammonta a 43,034 miliardi di euro, così suddivisi:

Fondazione Cariplo, nata dalla ex banca Cariplo che una volta fusa con il Banco Ambrosiano ha dato vita a Banca Intesa, è presieduta dal 1997 da Giuseppe Guzzetti, 78 anni (ex democrazia cristiana) e possiede un patrimonio di 5,3 miliardi di euro, gestiti dalla Polaris Investimenti. Oltre a quasi il 5% di Banca Intesa San Paolo, la Fondazione ha investito 476 milioni di euro in Generali, Mediaset, A2A, Fiera Milano, Acsm. Patrimonio totale 6,449 miliardi

Compagnia di San Paolo, il cui presidente è l’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino, detiene quasi il 10% di Intesa San Paolo, il 4,2% di fondi azionari, 30% di obbligazioni e il 6% di fondi monetari investiti attraverso la Fondaco sgr. Patrimonio totale 5,559 miliardi

Fondazione cassa di risparmio Verona o Cariverona, presieduta da Paolo Biasi (74 anni) uno degli uomini più importanti della finanza italiana. Possiede il 3,50% di Unicredit e quasi il 2% di Mediobanca. Ha inoltre investito 767,5 milioni in obbligazioni. Le sue partecipazioni in borsa gli hanno fruttato 55,7 milioni di dividendi. Patrimonio totale 2,647 miliardi.

La Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, il cui presidente in scadenza è Antonio Maria Marocco, in carica dal 2009 e proveniente dal consiglio d’amministrazione di Unicredit. Anche in questo caso non sono esigue le quote bancarie in mano alla Fondazione: 2,5 % di Unicredit insieme a partecipazioni nel Banco Sabadell, Mediobanca e Société Générale. A questo si aggiunge il 6% di Atlantia e l’1% di Cassa Depositi e Prestiti per un patrimonio totale che ammonta a 1,914 miliardi.

Antonio Finotti a 84 anni gestisce invece 1,733 miliardi della Fondazione Cassa di risparmio Padova e Rovigo: il 4,7% è la quota di Intesa San Paolo, 1,03% della Cassa Depositi e Prestiti, l’1,6% del Fondi italiani infrastrutture (il cui amministratore delegato Vito Gamberale ha appena acquisito il 44% degli aeroporti di Milano), il 23,37% di Fondaco Sgr, 35%di Gradiente Sgr. 11,4 milioni della Fondazione sono stati investiti in Fondazione per il Sud, 6,7 milioni in Sinloc Spa e 7 milioni in Banca Prossima.

Dello scandalo scoppiato della Mps forse non è mai stato sottolineato quali sono le partecipazioni effettive della Fondazione: oltre al 34,94% dell’omonima banca, di cui a seguito delle indagini tuttavia cederà un 10%, possiede 100% di Siena Biotech, 1% di Sator, 1% di Treccani spa, 30 % di Finanziaria Senese Sviluppo, e 34,6 milioni dei suoi fondi sono investiti in Fondazione per il Sud. Il suo presidente Gabriello Mancini ha iniziato la sua carriera politica nella Dc per continuare nel Pd e ad oggi gestisce un patrimonio di 1,283 miliardi

Poco di più, intorno ai 1,294 miliardi invece amministra Iacopo Mazzei, ex manager Fingen, che con i suoi 58 anni è a capo di Ente Carifirenze, che possiede il 3,32% di Intesa San Paolo, 1% di Cassa Depositi e Prestiti, il 17,5% dell’aeroporto di Firenze, 40 milioni di obbligazioni Unicredit, 6,5 milioni in Generali, 46 milioni in azioni Enel.

Infine la Fondazione Roma di Emmanele Emanuele, discendente di una nobile famiglia spagnola, si ritrova a gestire tuttavia un patrimonio più esiguo, 1,432 miliardi. Questo probabilmente perché è l’unica fondazione ad essere quasi completamente uscita dal controllo bancario: detiene solo lo 0,48% di Unicredit, 4,25% di Esi, 0,1% di Banca Nuova Terra, 2,17% di Sator e 1,71% della Fondazione per il sud.

Alla luce di queste ripartizioni due sono le considerazioni su cui riflettere:

l’ammontare di denaro gestito dalla Fondazioni è piuttosto rilevante e, nella maggior parte dei casi, la separazione tra fondazione e banca conferitaria non è mai stato portato a termine. Se a questo aggiungiamo il particolare che i fondi derivano dalla ex Casse di Risparmio (e quindi si tratta di risparmi privati) e non da ultimo che tutte 88 insieme detengono una partecipazione del 30% su Cassa Depositi e Prestiti che equivale a dire gestire i risparmi dei libretti postali degli italiani, capire da dove provengono tutti quei miliardi che le fondazioni sono in grado di gestire, non è difficile.

La seconda è che, pur essendo riconosciute come enti di diritto privato, in realtà le fondazioni sembrano rivestire, in modo molto incisivo, il ruolo di un autentico rifugio per coloro che le presiedono: si tratta, infatti, di personalità con alle spalle una lunga carriera politica destinata a finire proprio con il premio di una poltrona ai vertici di questi istituti per presiederne l’organizzazione e gestione finanziaria.

 

A grandi linee quale fosse il problema fondamentale che prima o poi avrebbe portato alla rottura del sistema lo sapevano tutti: nonostante sia stata approvata una legge che lo vieti, come fa una fondazione a detenere ancora la maggioranza azionaria di una banca? E non si tratta di un caso limitato alla sola Fondazione Monte dei Paschi, la cui partecipazione alla Banca Monte dei Paschi sino allo scorso anno raggiungeva quota 45%, per scendere all’odierno 33 %, perché il sistema delle Fondazioni bancarie, sebbene ci sai stato un tentativo di blocco nel 1999, continua a proliferale in un contesto in cui l’unico ente adibito al controllo è il Ministero dell’Economia e non un’Authority dedicata di cui si auspica l’avvento da sempre.

Probabilmente se non fosse stato reso noto il buco di bilancio maturato dall’istituto bancario toscano nel lontano 2005/2006, quando il presidente era Giusepe Mussari, appena dimessosi dalla presidenza dell’Abi (Associazione Bancaria Italiana) e alla guida della Banca d’Italia c’era invece Mario Draghi, l’indissolubile e problematico intreccio tra banche e fondazioni non sarebbe mai tornato alla cronaca. I fatti piuttosto noti che stanno monopolizzando il dibattito elettorale in questi giorni sono noti:

1)Mps ha acquistato Antonveneta pagandola più del prezzo di mercato, per un ammontare di 9 miliardi, gravando in questo modo sul proprio bilancio e contribuendo così alla creazione del passivo (non era stata effettuata infatti una due diligence preventiva adeguata per accertare la possibilità effettiva del patrimonio bancario di poter fare questa acquisizione)
2)Per mascherare le perdite di 220 milioni di euro Mps si affida alla banca giapponese Nomura che acconsente a comprare la perdita, chiedendo i cambio però che l’istituto senese investisse in un operazione rischiosa, l’acquisto di Btp italiani a termine trentennale.

Nel pieno della bufera che sta investendo i vertici dell’istituto, la Fondazione non è rimasta illesa: il coinvolgimento del consiglio d’amministrazione dell’istituzione no profit nel deficit bancario difatti è piuttosto evidente, dal momento che la principale detentrice delle azioni bancarie era proprio la suddetta Fondazione, attraverso i componenti del suo consiglio d’amministrazione (come da statuto infatti questo è l’unico organo che può dirigerla, essendo l’assemblea di controllo non prevista).
Il rapporto reciproco do ut des tra istituto bancario e fondazione all’interno del territorio senese era piuttosto noto e mai tenuto nascosto. La fondazione Monte Paschi, infatti, oltre a detenere le azioni di uno degli istituti bancari più antichi al mondo e esserne imprescindibilmente legata da un rapporto di simbiosi dalla sua nascita, è tecnicamente una fondazione di erogazione: non solo gestisce la propria amministrazione, ma finanzia inoltre enti esterni che perseguono il suo stesso fine. L’elenco degli enti sovvenzionati dalla fondazione senese è piuttosto cospicuo e comprende enti, associazioni, biblioteche, circoli, tutti situati nel territorio di Siena a Provincia. Non solo: la Fondazione ha da sempre ricoperto un ruolo di primo piano, attraverso Mps, per il sovvenzionamento del celebre e tradizionale Palio della città (255 mila euro l’anno), confermando il suo radicamento molto forte per l’economia e l’organizzazione culturale del territorio circostante.

Non a caso, dunque, il crack bancario sta travolgendo l’intera città di Siena con tutte le strutture che dipendevano dal connubio banca- fondazione. Con il suo ferreo controllo inoltre nelle fila e nella gestione della banca, non cedendo in alcun caso il suo capitale azionario da poter rivendere ai privati, la Fondazione in questi anni ha praticamente impedito la ricapitalizzazione del patrimonio bancario, impedendone così il rientro del debito: mantenendo il 33% dell’azionariato infatti, questa ha mantenuto il controllo delle assemblee straordinarie. Eppure in questi giorni il consiglio d’amministrazione dell’ente no profit sembra intenzionato a tornare sui suoi passi e probabilmente non è un caso: ormai la ricapitalizzazione della banca è ritenuta una via d’uscita necessaria, alla luce dei gravi dissesti emersi dall’inchiesta in corso, e la Fondazione si è addirittura offerta a cedere il 10% delle proprie azioni. Probabilmente non solo per permettere l’aumento di capitale, ma evidentemente anche per allontanare il sospetto delle dirette responsabilità ricoperte in questa vicenda.

Quale sarà quindi il destino della Fondazione non è dato saperlo e chissà se questi ultimi avvenimenti abbiano definitivamente spianato la strada ad una riforma vera e propria che porti alla separazione dei rapporti tra fondazioni ed istituti bancari, come auspicato da tempo. Perduto il controllo nella gestione dell’istituto bancario, attraverso quali mezzi la fondazione continuerà a finanziare i suoi numerosi progetti e a concedere erogazioni? Intanto a risanare le casse della banca Monte dei Paschi ci sta pensando lo Stato italiano, attraverso l’emanazione di 3.9 miliardi di Monti Bond, fondi solo prestati come ha tenuto a precisare il ministro dell’Economia Vittorio Grilli, che dovranno essere restituiti con un tasso d’interesse del 9% il primo anno sino ad aumentare dello 0,5% negli anni successivi, sino ad un massimo del 15%. Ma come potrà una banca così indebitata ripagare i suoi passivi con interessi così onerosi? La Fondazione si sta ritirando nel momento opportuno, per non finire forse la sua gloriosa storia insieme alla banca di cui ha mantenuto le redini, ma d’altra parte troppo in ritardo, perché uscendo prima di scena avrebbe attenuato la propria sfera d’influenza e consentito un futuro diverso all’istituto di credito, che non meno di due anni fa, prima di acquisire Antonveneta, stava per fondersi con Bnl.

È arrivata un po’ in sordina, a ridosso delle vacanze di Natale, una decisione inappellabile presa da Enac e Adr holding che controlla l’hub di Roma Fiumicino, dove convogliano tutti i voli in partenza e in arrivo per la capitale: il decantato aumento delle tasse aeroportuali che faranno lievitare le tariffe dagli attuali 16 euro a cifre che variano dai 26 ai 50 euro per passeggero. Un incremento consistente, che quasi raddoppia le entrate che ogni viaggiatore in transito da e per Roma apporterà nelle casse della holding capitanata da Gemina(gruppo Benetton) che di Adr detiene il 95%. Della proposta dell’aumento a carico dei passeggeri si vociferava nei mercati azionari da tempo tanto che già nel 2010 la banca d’affari americana Citigroup consigliava di investire nel titolo nel quale confidava un grande margine di guadagno proprio in vista degli incrementi promessi da Enac.

Le entrate delle tariffe aeroportuali vengono assorbite completamente da progetti di ristrutturazione degli spazi aeroportuali che li impongono e, nel caso dello scalo di Fiumicino le previsioni riportate dal Piano Nazionale degli Aeroporti sembrano essere molto positive: se ad oggi lo scalo romano convoglia su di sé il 30% del traffico nazionale, raggiungendo la quota di 37 milioni di passeggeri, nel 2020 è previsto aumento a 50 milioni sino ad un raddoppio del traffico attuale nel 2030 con una quota di 80 milioni di passeggeri. Un incremento di traffico che allarma i vertici di Adr, i quali sostengono che la situazione potrebbe raggiungere in questo modo la saturazione, anche in vista dei piani di sviluppo turistico professionale e congressuale per la capitale di cui già si parla da un paio d’anni. Pertanto, la soluzione ritenuta più idonea per prevenire la saturazione è stata quella di ideare un raddoppio dell’aeroporto Leonardo Da Vinci. In sintesi, il progetto prevede un aumento della superficie delle aerostazioni di 1.300 ettari che si aggiungeranno ai 1.600 già esistenti che verranno invece riqualificati. Nei nuovi spazi saranno ampliate le strutture dei terminal e verrà creata una nuova pista che si andrà ad aggiungere alle 3 già esistenti. Il progetto è già stato delineato su un documento congiunto di Adr ed Enac e affidato allo studio ingegneristico Scott e Wilson. L’investimento calcolato per l’intera operazione che dovrebbe terminare nel 2044 (data che coincide con la scadenza della concessione di Adr per gestire lo scalo), ammonta a poco meno di 12 miliardi di euro. Una cifra cospicua che verrà finanziata proprio dall’aumento delle tariffe e dall’indotto commerciale che deriverà dalle zone ritagliate dai 1.300 nuovi ettari che saranno dedicate ad hotel, negozi, uffici e centri congressi.

Perciò, a conti fatti, nessuno degli imprenditori della holding di Adr investirà capitali privati per il progetto di raddoppio e, nel 2044, gli stessi si ritroveranno a cedere la concessione di uno scalo che non solo avrà visto aumentare esponenzialmente il proprio traffico, ma anche la propria superficie e il proprio indotto.
Due considerazioni:
la prima: la superficie dei 1.300 ettari aggiuntivi per il raddoppio è formata da terreni agricoli che saranno espropriati. Buona parte di questi appezzamenti appartiene alla Maccarese spa, di proprietà sempre della famiglia Benetton: questi fondi grazie al cambio di destinazione d’uso da agricolo ad edificabile acquisteranno valore e si ritroveranno ad ospitare le nuove infrastrutture aeroportuali e strutture turistico commerciali
la seconda: al fianco di questa mastodontica opera di costruzione sarà avviato contemporaneamente un lavoro di messa a norma delle infrastrutture pubbliche stradali e ferroviarie per rendere accessibile lo scalo: un progetto che prevede la creazione di complanari per collegare l’autostrada Roma Fiumicino con il Gra, di un bypass parallelo al Raccordo Anulare che colleghi la Roma Civitavecchia con la SS148 Pontina, l’ampliamento di via della Scafa e del corrispettivo ponte, il potenziamento del trenino della Roma Lido, l’incremento delle corse del treno Roma Termini – aeroporto Leonardo da Vinci. Si tratta quindi di opere pubbliche di completamento necessarie per non intasare il traffico già congestionato su queste arterie di comunicazione, la cui competenza però non sarà a carico di Adr, bensì del Comune di Roma e di Anas spa, la prima facente parte del cda di Adr, la seconda invece del gruppo Atlantia, sempre appartente alla famiglia Benetton.

Ricapitolando: il raddoppio della superficie aeroportuale lo finanzieranno i passeggeri con gli introiti dei biglietti; l’ammodernamento delle opere pubbliche necessarie per non congestionare le vie di comunicazioni lo pagheranno gli enti pubblici con i soldi dei contribuenti o con probabili aumenti delle tariffe autostradali di cui già si vocifera da tempo. E l’incasso dell’indotto a chi andrà? A Gemina. Ma quanto questo raddoppio è realmente necessario? Prendiamo ad esempio lo scalo aeroportuale della città più amata dagli italiani: Heathrow a Londra. Nella capitale inglese la superficie attuale dello scalo è di 1,227 ettari, le piste presenti sono solo 2 ( e infatti il governo inglese sta discutendo se costruirne una terza per non farsi surclassare da Francoforte e Amsterdam dove le piste sono tre e non quattro come previsto dal raddoppio di Fiumicino) e il traffico dei passeggeri raggiunge già oggi quota di 70 milioni. Si tratta di dati risalenti al 2011, che non tengono conto dell’incremento notevole che lo hanno raggiunto l’anno passato grazie alle Olimpiadi che hanno attirato milioni di turisti. Forse perché ad Heathrow prima di lanciarsi in progetti pluriennali e mastodontici hanno cercato di razionalizzare l’esistente, che è lo stesso consiglio scritto nelle prime pagine del sopracitato Piano Nazionale per gli Aeroporti.

Fiumicino si presenta oggi ad un livello di efficienza non certo eccellente rispetto allo standard europeo e forse prima di pensare ad un allargamento andrebbe migliorata la pulizia e l’operatività delle strutture attuali e razionalizzato il piano di arrivi e atterraggi come fatto all’estero. Dal punto di vista dell’impatto ambientale, inoltre, il territorio agricolo scelto per il sedicente raddoppio non sembra essere il più indicato: la zona del litorale romano per buona parte, infatti, in passato era di natura acquitrinosa e al di sotto del livello del mare. Colate di cemento come quella prevista su di un territorio già eccessivamente impermeabilizzato dall’urbanizzazione incontrastata, potrebbero aggravare la tenuta per il deflusso delle piogge che rischiano di non essere più assorbite dal terreno. Non a caso nel progetto di raddoppio presentato da Adr viene accennato al potenziamento dell’idrovora di Focene. Ma siamo certi che sarà sufficiente per prevenire gli allagamenti che sempre più frequentemente minacciano il litorale laziale?
Inoltre siamo sicuri che le infrastrutture verranno create di pari passo con l’ampliamento delle strutture aeroportuali, oppure rischieremo di trovarci con un immenso hub isolato e irraggiungibile? Con l’approvazione infatti della delibera 105 del 20 dicembre scorso, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ha previsto che la spesa per la realizzazione delle opere pubbliche può essere rivista ( e quindi ampliata) anche in corso d’opera e dopo l’aggiudicazione della gara. L’assenza di un tetto di spesa quanto potrà allungare i tempi di realizzazione e messa in operatività delle infrastrutture necessarie?

Forse gli interrogativi sulla fattibilità e sulla utilità per cittadini e turisti di tale opera superano i presunti benefici. A meno che non si tenga conto dei benefici per i principali azionisti di Gemina spa.

In un momento storico in cui le conseguenze della finanza creativa, prodotto derivato dal modello capitalistico in crisi, hanno profondamente influenzato i risvolti della vita economica e sociale quotidiana di ognuno di noi, i paradigmi seguiti sino ad oggi per creare ricchezza e benessere non rappresentano più un caposaldo basilare ed inconfutabile. Venuto meno il mito del “self made man”, ritratto dell’investitore di Wall Street che riusciva grazie alla sua abilità a creare un impero economico in grado di assicurare la prosperità non solo per sé stesso ma anche per tutta la sua dinastia, il principio che si sta facendo progressivamente strada tra gli imprenditori è quello di perseguire il bene comune e del progresso sociale. Un concetto ribadito anche dall’ultimo rapporto stilato dal Ministero dello Sviluppo Economico, quello relativo allo sviluppo e promozione delle start up innovative.

Leggi l’articolo completo su Culture in Social Responsibility

 

Sai cos’è lo Spread?

 

 

Sono concetti sulla bocca di tutti, ma che pochi riescono a comprendere. L’economia e la finanza ormai hanno letteralmente monopolizzato la nostra vita e spesso non conoscerne i segreti può avere conseguenze spiacevoli. Ovviare a questo problema è l’obiettivo dell’ultimo libro di Andrea Fumagalli, professore di Economia Politica presso l’università di Pavia e vice presidente dell’associazione Bin Italia ( Basic Income Network). Il testo sottotitolato “Lessico economico non convenzionale”, raccoglie tutti i lemmi più significativi per comprendere al meglio le vicissitudini che stanno caratterizzando questo periodo di crisi economica

 

Il testo è diviso in tre capitoli: lessico economico- finanziario, lessico economico- giuridico, lessico economico politico. La divisione è funzionale per permettere al meglio la catalogazione di determinati concetti come spread, tassi d’interesse, dividendi, deficit e debito pubblico, diritto di signoraggio, welfare state. Se solo leggendo questi termini siete già spaventati, non preoccupatevi: lo scopo del libro è rendere chiaro con un linguaggio scorrevole il significato di questi lemmi criptici per i non addetti ai lavori. Obiettivo raggiunto grazie ad una spiegazione esaustiva ma concisa che si serve spesso di digressioni storiche per spiegare la genesi e l’evoluzione del mondo della finanza.

La chiarezza delle spiegazioni e un linguaggio molto fluido. Anche la divisione dei capitoli è decisamente valida per l’orientamento del lettore.

 

Forse l’unica pecca è la mancanza di grafici ed illustrazioni che sono presenti solo in tre casi

 

 Alla fine del libro è presente un mini glossario dove sono spiegati tutti i termini economici inglesi, di grande uso nel linguaggio di settore.

 

Sai cos’è lo Spread?

Andrea Fumagalli

Bruno Mondadori costo 12 euro

ISBN 9788861597112

 

La grande crisi economica che a partire dal 2009 è al centro dei dibattiti nazionali, prima con atteggiamenti allarmisti o tralascisti e poi con semplici prese d’atto, si è estesa dalle piccole e medie aziende manifatturiere fino a travolgere le grandi multinazionali, l’epicentro del sistema economico, senza risparmiare nemmeno le grandi aziende finanziarie per eccellenza: le Banche.

Tanto da rendere evidente quanto, anche rispetto a quei temi che la maggioranza delle persone considera “laterali”(cultura, turismo, territori, beni culturali, creatività), sia necessario un ripensamento del ruolo che gli istituti di credito dovranno ricoprire nel futuro.

Particolarmente in Italia, paese che si regge su un sistema economico costituito quasi integralmente da PMI, le criticità e le tensioni del sistema interbancario si sono manifestate ancor più evidenti nella crisi di liquidità che ha portato le banche ad una forte restrizione del credito.

Tagliare l’ossigeno, già centellinato, all’imprenditoria nazionale, facendo ricorso a forme di accesso al credito bancario sempre più “blindate”, corrisponde a un lento suicidio della ricchezza nazionale.

D’altra parte, se la massiccia iniezione di liquidità da parte della BCE nelle casse delle banche nazionali ha dimostrato come il sistema sia fortemente sensibile agli stimoli esterni in termini materiali (monetari), il nuovo accordo sui requisiti minimi di capitale, noto come Basilea II, ha portato ad un inasprimento delle garanzie reali (già prima sovrabbondanti) richieste dagli istituti di credito ai fini della concessione dei finanziamenti, accentuando così le criticità di un sistema in crisi e inadatto alla crescita nazionale.

L’economia “sommersa” che annaspa per affermarsi e crescere, è fatta da una congerie multiforme di imprese giovani (di nuova costituzione) di giovani (under 35), che contengono in sé il germe per la futura competitività dell’Italia sui mercati internazionali. Il macro settore culturale, o se vogliamo settore dell’informale, è costantemente costretto al confronto (se non allo scontro) con un sistema del credito che lo costringe a barcamenarsi tra faticosissimi fondi e agevolazioni dedicati, prestiti d’onore, finanziamenti all’imprenditoria femminile,…

Sarebbe invece opportuno rivedere le barriere che impediscono ad un’impresa di nascere ed affermarsi, ragionare su un’impostazione delle garanzie commisurata al rischio richiesto non più in termini nominali quanto piuttosto ponendo alla base della valutazione la durata del progetto e il consolidamento delle relazioni.

Se la vera ragione d’essere delle Banche sta nella capacità di valutazione del rischio, e se, rispetto all’”immateriale”, il meccanismo di quantificazione monetaria, ora in crisi anche rispetto a mercati più strettamente di business, non è finora stato possibile e ha concesso risorse limitate al settore culturale, l’accesso al credito dovrebbe impostarsi su valutazioni ad hoc commisurate non più sui costi dei progetti quanto piuttosto sui piani finanziari, valutati in termini di ricadute territoriali, sociali, e, nel complesso, economiche.

La nuova sfida della Banca d’Italia si gioca proprio sul campo dell’uso delle garanzie, perno centrale su cui lavorare per la costruzione di un nuovo istituto capace di elevare l’Italia ad una dimensione internazionale, che le permetta il raggiungimento di quella famosa soglia del 20% del PIL nel settore culturale, turistico ecc..da raggiungere entro il 2020.

 

La finanza sembra sempre più distante dai valori morali e sociali, eppure esiste una banca che fonda la propria attività su principi etici quali la trasparenza, il diritto di accesso al credito, l’efficienza e attenzione alle conseguenze delle azioni economiche. E’ la Banca Etica, nata nel 1999 dalla volontà di 22 organizzazioni del mondo non profit e alcune finanziarie, che sta registrando una significativa crescita.
Per comprenderne meglio l’attività, abbiamo rivolto qualche domanda al Presidente Ugo Biggeri.
Banca Etica e territorio: come viene decisa la localizzazione delle filiali e quali sono i canali di penetrazione territoriale?
La banca, avendo soci su tutto il territorio nazionale, ha adottato un piano di sviluppo mirato a coprire quasi tutte le aree geografiche italiane. Questa politica ha portato all’apertura delle attuali 16 filiali che, tranne 3, sono tutte situate in capoluoghi regionali.
Anche la scelta di aprire alcune filiali al sud è stata dettata più dalla volontà di essere presenti che dalle effettive masse amministrate su quei territori.
In generale, una delle caratteristiche particolari di Banca Etica è il fatto che il suo cliente medio si trova ad avere una collocazione geografica spesso distante dalle località operative. Ciò è anche indicativo di come il cliente tipico scelga Banca Etica nonostante non abbia la filiale sotto casa. Ciò non succede con buona parte del sistema bancario italiano, dove la penetrazione territoriale è invece fortemente legata all’acquisizione di nuova clientela, proprio per motivi di prossimità e comodità degli utenti rispetto alle filiali operative.
Banca Etica ha 3 canali principali di penetrazione territoriale:
–  la diffusione dell’attività e il suo posizionamento culturale: ci sono molti soggetti che fanno “promozione” culturale semplicemente perchè apprezzano l’idea alla base di Banca Etica. Per dirlo con uno slogan, se normalmente le banche cercano di trasformare i clienti in fan, noi invece abbiamo più fan che clienti! 
–  i banchieri ambulanti: sono dei promotori finanziari, in Italia ne abbiamo 20 al momento e quest’anno ne metteremo in funzione altri 6. Sono figure indipendenti che uniscono i soci e la possibilità di offrire sul territorio alcuni degli strumenti della finanza etica, di risparmio ma anche una prima analisi dell’attività creditizia sul territorio. La filiale vera e propria si trova a svolgere pertanto compiti di coordinaemento su un territorio anche più vasto rispetto a quello normalmente di riferimento per una filiale tradizionale.
–  il canale telematico: la banca è utilizzabile anche per posta elettronica. Esiste un potenziale di sviluppo importante anche perchè sono spesso i risparmiatori a scegliere di venire in Banca Etica, scelta che ha ovviamente a che fare con il posizionamento culturale della banca oltre che con aspetti valoriali e che ci pone in una condizione di vantaggio anche sul concetto generico di banca online. Rimane il fatto che dobbiamo attrezzarci meglio sul banking on-line, rendendo i nostri servizi più evoluti, ma nel settore esistono anche dei problemi di investimenti tecnologici da fare e di strutture informatiche che bisogna costruire. Ma questo è senza dubbio uno degli obiettivi per il prossimo futuro.
 
Chi è il cliente tipo di Banca Etica? Ha particolari caratteritiche?
Si, in un certo senso esistono delle caratteristiche tipiche che accomunano i nostri clienti. I nostri clienti hanno un’istruzione maggiore rispetto alla media degli italiani, tendenzialmente sono persone che se non hanno esperienza diretta di volontariato (cosa comunque molto diffusa e che accomuna molti di loro), ma che hanno almeno una certa sensibilità per i temi sociali e ambientali. Sono clienti che si fanno domande nella loro vita quotidiana sulle conseguenze delle proprie azioni.
L’età è abbastanza variegata, anche se registriamo qualche carenza per quanto riguarda la fascia giovanile.

Nell’ambito delle risorse umane che equilibrio si va a ricercare tra l’aspetto tecnico e l’aspetto umano ed etico?
Nella selezione del personale per Banca Etica abbiamo una particolare cura per l’aspetto motivazionale, guardiamo molto alle pregresse esperienze nel volontariato, agli aspetti di disponibilità al lavoro in equipe e volontario presso altre strutture. 
L’aspetto tecnico rimane in ogni caso imprescindibile, visto il mestiere particolare dell’intemediazione finanziaria.
Cerchiamo di fare anche una continua formazione ai dipendenti che valorizzi questi aspetti.

In cosa si sostanzia l’”eticità” della banca?
Noi siamo dell’idea che la base della finanza etica sia nel farsi delle buone domande sull’uso del proprio denaro. In questa logica oltre ai prodotti di banca etica (in cui il risparmio va ai progetti che la banca finanzia e che sono riportati sul web, rispettando un principio molto spinto di trasparenza che ha pochi eguali) offriamo anche fondi di Etica SGR, una società controllata e di cui sono soci anche altri istituti bancari, la quale si occupa di fondi di investimento monetari e azionari. Investe in titoli di stato, nel mercato azionario, basandosi sulle informazioni di una società nata dal terzo settore inglese, Iris, che analizza i titoli di stato e le azioni di tutto il mondo. Al suo operato di advisor si aggiunge il parere di un  nostro comitato etico che all’interno di questo universo dell’investibile fa scelte restrittive.
Un investimento monetario rispetto a uno azionario ha un impatto ovviamente diverso sia nel rendimento che nella destinazione dei soldi. Anche nei mercati azionari, se si accetta di lavorarci, si possono fare delle scelte di responsabilità ambientale, sociale e di governance.
Banca Etica è una cooperativa e ci siamo dati l’obiettivo di fare maggiori utili nei prossimi anni perche siamo una realtà in piena espansione. Nel 2011 siamo cresciuti del 12% sulla raccolta e del 24/25% nell’erogazione di credito, quindi è necessario espandersi almeno altrettanto in capitale sociale.
Una cooperativa ha un modello di crescita del capitale sociale meno immediato di quello di una società per azioni e uno dei modi che abbiamo per farlo crescere è fare più utili, così che questi siano messi a riserva e creino capitale sociale: in pratica la banca reinveste in se stessa e nei progetti sociali e ambientali che riesce a finanziare.
Siamo dotati di una struttura operativa organizzata di aree di competenza e capace di interfacciarsi con i diversi temi, grazie anche alla presenza di un albo di valutatori sociali.
I nostri soci sono molti interessati a una molteplicità di temi, quali decrescita e acqua pubblica. Finanziando tante attività con alto valore culturale è però spesso difficile reperire risorse sufficienti perchè molti dei nostri clienti avrebbero la medesima elegibilità per un finanziamento.
Tra gli eventi più grossi che organizziamo c’è sicuramente, in maggio a Firenze, Terra Futura, una fiera sulle buone pratiche di sostenibilità ambientale e sociale che ha un buon successo di pubblico (90.000 persone in 3 giorni ) ed è arrivata alla nona edizione.
Curiamo anche una pubblicazione continuativa: la rivista “Valori” che si riceve solo per abbonamento e che tratta le questioni quotidiane dal punto di vista della finanza etica.
Recentemente è infine partita una campagna di educazione finanziaria sul sito www.nonconimieisoldi.org.

 

Chi di voi non ha un profilo Facebook? E quanti tra chi ne è privo non viene stressato dalle richieste di farlo da parte di chi lo possiede? Perchè è proprio questo il punto: il fatto di non esserci è come interrompere o diminuire una rete di condivisione, rinunciare ad una vita sociale sul web.
L’idea di partenza è semplice e banale e la si comprende già dal nome di quello che è il più famoso social network del pianeta, Facebook, termine con il quale negli Stati Uniti viene indicato l’annuario di foto di studenti che molti college pubblicano all’inizio dell’anno scolastico.Gli ingredienti di base del sito sono: una foto, un profilo, uno status moltiplicati per 845 milioni di utenti attivi che mettono in condivisione, in una rete più o meno ristretta, una quantità inimmaginabile di foto, video e Likes; è il secondo sito più visitato al mondo, dopo Google.
Tutto questo oggi, o meglio tra qualche mese, quando la società verrà quotata in Borsa, potrebbe ammontare ad una cifra da capogiro: ben 100 miliardi di dollari. Dopo Renren, social cinese che fu il primo tra i colleghi ad aprire la strada verso Wall Street agli inizi del maggio 2011, dopo Linkedin, Groupon e Zynga è la volta del colosso Facebook, fondato nel febbraio del 2004 dall’allora diciannovenne e studente di Harvard Mark Zuckenberg insieme ai suoi compagni di stanza, società che nel 2011 ha realizzato un utile netto di 668 milioni di dollari e un fatturato da 3,7 miliardi di dollari. Questi sono i numeri esibiti nei documenti per l’Initial public offering (IPO) della società, presentati alla Securities and Exchange Commission, ente analogo alla nostra Consob. Secondo le stime delle ultime settimane, il social potrebbe raggiungere una valutazione in Borsa tra i 50 e i 100 miliardi di dollari.
Dopo lo scoppio della bolla dei titoli Internet nel marzo del 2000, con la quale si è decretata la caduta della new economy, e una prima ripresa grazie alla quotazione di Google, dal 2011 si sta assistendo ad una grossa iniezione di liquidità da parte del settore dell’high-tech, accrescendo la speranza che possa diventare un traino per lo sviluppo e il recupero dell’economia mondiale. Gli analisti più scettici temono però una bolla speculativa dalle conseguenze imprevedibili sostenendo che il valore economico di un social network è nella sua esistenza on-line e non in prodotti tangibili. E non hanno tutti i torti se pensiamo a quanto è successo a Groupon: il sito ha raggiunto un IPO di 700 milioni di dollari ma nei giorni successivi il titolo ha subito un crollo del -42% portando ad una attuale capitalizzazione di 10 miliardi rispetto ai 16,7 raggiunti all’inizio.
Bolla o non bolla, l’entrata in Borsa di Facebook avrà degli enormi effetti, a cominciare dalla pioggia di denaro che colpirà dal suo fondatore ed i suoi ex compagni, a David Choe, artista di origini coreane i cui graffiti decorano le pareti degli uffici di Facebook e in cambio dei quali ha ricevuto una manciata di titoli che oggi valgono 200 milioni di dollari. Premiate anche le venture capital, come la Accel, che circa sette anni fa intravide le potenzialità del sito e decise di sostenerlo. Tra gli investitori ci sono anche delle sorprese come il cantante degli U2, Bono, che con la sua società di investimento, la Elevation Partners, possiede l’1,5% della società, per un ammontare di circa un miliardo di dollari (secondo il Telegraph l’equivalente di quanto Bono ha guadagnato in tutta la sua carriera di cantante). A parte l’aumento della popolazione americana di miliardari e milionari, che andranno ad arricchire le tasche di consulenti finanziari, agenti immobiliari e negozi di lusso, secondo alcuni come Mark Cannice, professore di innovazione imprenditoriale all’Università di San Francisco, l’entrata in Borsa di Facebook creerà un’euforia tale da far piovere finanziamenti su progetti simili e start-up nella Silicon Valley. Nuovo motore di sviluppo o costosissima bolla di sapone? Sarà tutto da vedere.

Dopo il “BTP day” del 28 Novembre, in cui si sono registrati scambi  record per oltre 2.59 mld di euro sui titoli italiani, oggi è stata la volta dei BOT: i titoli annuali emessi oggi, che scadranno il 14 dicembre 2012, sono stati sottoscritti interamente, per un totale di circa 7 mld.
Le banche aderenti all’iniziativa hanno rinunciato in queste due occasioni ad applicare le commissioni di negoziazione, fissate dalla legge ad un massimo di 0.3%, che generalmente sono vicine allo 0.1%. Si pagano, in pratica, dieci euro per sottoscrivere diecimila euro di Bot o Btp: il risparmio per il sottoscrittore è quindi in termini assoluti abbastanza contenuto.
Il valore di questi Btp e Bot day è quindi principalmente simbolico. Suona come un invito ad “unirsi a coorte”, per usare le parole di Mameli, in un momento di estrema difficoltà finanziaria del Paese.
Purtroppo l’oceano di negatività nel quale si stanno muovendo le economie mondiali ed europee, in particolare quella italiana, rischia di nullificare l’effetto-propaganda dello sconto commissionale.
La fuga dai Bot non si contrasta con un piccolo sconto, bensì con una politica di restaurazione della fiducia nell’investimento, che finora non è stata a mio avviso perpetrata.
Fino a sei mesi fa gli investitori si lamentavano del basso rendimento dei nostri titoli di stato; ora che i rendimenti sono interessanti, invece di correre a comprarli, si vendono, e questo scatena l’effetto nefasto delle “self-fulfilling expectations”: non fallisco perché sono insolvente, ma perché il mercato crede che lo sia.
E’ qui, su questo snodo, che andrebbe impostata una politica di persuasione, una vera e propria campagna dallo slogan “Ricompriamoci il nostro debito”. Un annuncio reiterato, credibile: “L’Italia non fallirà. Questa è una buy opportunity: comprarsi ora i titoli di stato, oltre ad aiutare il nostro Paese, significa implicitamente pagare meno tasse in futuro ed immunizzarsi dall’aumento degli spread”.
Lo sconto sulle commissioni può essere un utile corollario, ma senza un annuncio credibile rischia di essere un tentativo di svuotare il mare con un secchiello.

Luigi Bocchino lavora dal 2000 per Banca Intermobiliare

La nuova manovra vale 32 miliardi di euro al lordo, 23 miliardi al netto: 20 sono nuove tassazioni, 12 miliardi sono di tagli alla spesa pubblica, di cui il 60% riguardano le proprietà come la casa, la ricchezza finanziaria, etc… La Manovra, la quinta di questo 2011, sarà immediatamente esecutiva perché contenuta in un solo decreto legge. Ma dietro quest’azione molti non riescono ad individuare la strategia per portare l’Italia non solo fuori dalla crisi ma anche riportarla ad essere competitiva a livello internazionale.
Effettivamente, almeno in apparenza, la manovra risulta tutto fuorché equa. I tagli ai vitalizi e al numero di parlamentari sono polverina agli occhi di fronte al vero provvedimento riguardante la revisione al taglio del finanziamento pubblico ai partiti e all’esenzione Ici (o Imu come si chiamerà) ai beni ecclesiastici di natura commerciale.
Ma soprattutto per l’ennesima volta non c’è una minima azione a sostegno di una politica efficace all’evasione fiscale. Anzi, se proprio andiamo a leggere tra le righe, alcuni provvedimenti adottati vanno sostanzialmente contro questi indirizzi: aliquota al 23% dal secondo semestre del 2012 non spingerà la classe imprenditoriale ad un forte cambio di mentalità, così come la tassazione sul rientro dei capitale dall’estero.
Importante commentare la differente percezione di questa manovra: i mercati finanziari hanno risposto in modo euforico: Milano a +2,91% con spread in forte calo fino a scendere abbondantemente sotto i 400 e Olli Ilmari Rehn, commissario europeo per gli Affari economici e monetari, che ha approvato in pieno l’azione del governo, commentando il pacchetto di misure come un nuovo approccio alla politica economica.
Nel nostro paese, al contrario, molti attori dello scenario politico e sindacale hanno commentato molto duramente il decreto e, nei prossimi giorni, le piazze saranno occupate dalla protesta dei sindacati che chiameranno a raccolta i loro aderenti. Ma tutto questo rientra nel gioco delle parti della politica e dei suoi attori. La cosa che maggiormente stupisce, però, è la percezione così opposta del sentire comune degli italiani e dei giudizi della politica internazionale.
Come se ormai fossimo incapaci di dare un giudizio sereno ai disegni e alla strategie del nostro paese. Forse un’osservazione equilibrata sarebbe dire che la manovra non è di certo espressione di ricette geniali ma neanche così pessima come alcune categorie sociali e ali del parlamento stanno in queste ore dichiarando.
La sensazione forte è che la manovra passerà, verrà chiesto al paese un ulteriore sacrificio, ma sarà difficile far credere alla nazione che tutto questo sarà sufficiente al rilancio della nostra economia, sempre più legata al sistema della finanza e delle sue lobby ( di cui Monti, non dobbiamo dimenticare, è uno degli esponenti di spicco) e sempre meno ispirata ad un principio di eguaglianza democratica.

Stefano Monti è direttore editoriale di Tafter

“Le imprese italiane devono crescere”. E’ questa una tra le frasi più citate nei dibattiti economici in Italia degli ultimi anni. La dimensione media dell’impresa italiana è effettivamente minore rispetto agli altri Paesi Europei e, secondo molti, crescere è divenuto indispensabile per rimanere competitivi nelle filiere internazionali. Per questi motivi, la crescita è considerata una notizia positiva e, non a caso, sono molti gli studi empirici che hanno misurato e valutato la performance delle imprese in base al livello di crescita. Tuttavia, oltre a strategie di crescita vincenti esistono situazioni, documentate, in cui le operazioni di crescita comportano una perdita di valore per le imprese: acquisizioni mal ponderate, investimenti con un eccessivo utilizzo della leva finanziaria e strutture organizzative inadeguate allo sviluppo dimensionale sono aspetti che rischiano di peggiorare la performance dell’impresa.
Inoltre, diversi approcci teorici sottolineano come la crescita rappresenti una fase di “instabilità” nella vita aziendale in cui si possono verificare difficoltà e complessità gestionali. Tuttavia, nonostante la presenza di questi fattori potenzialmente negativi, la crescita è spesso considerata in modo “acritico” un fenomeno unicamente positivo. Alcuni, in risposta a questa osservazione, potrebbero sostenere che la crescita sia di per sé un fatto positivo, alla base dello spirito imprenditoriale e necessaria per aumentare le possibilità di sopravvivenza dell’impresa. Alla luce di tutto ciò diventa rilevante andare oltre a quella che è stata definita da alcuni “growth ideology” (Steffens, Davidsson e Fitzsimmons, 2009) per aumentare la consapevolezza di quali siano le modalità e i fattori che possono tradurre un percorso di crescita in un fatto positivo per la vita di un’impresa.

Il quadro di riferimento

Il tema della crescita delle Piccole e Medie Imprese (d’ora in avanti PMI) è quanto mai attuale soprattutto nel contesto italiano. È noto che il sistema produttivo italiano si caratterizza per una forte presenza di PMI, molto spesso clusterizzate in distretti industriali e specializzate in settori tradizionalmente considerati maturi (Piore e Sabel, 1984; Becattini et al. 2003). Secondo dati Eurostat in Italia il 94,5% delle imprese ha meno di 9 dipendenti, il 4,9% impiega tra i 10 e i 49 dipendenti, lo 0,5% impiega un numero di dipendenti compreso tra 50 e 249, mentre solo lo 0,1% delle imprese ha più di 250 dipendenti.
La forte presenza di PMI è tuttavia un dato comune ai maggiori paesi industrializzati. In Germania e Francia per esempio, le imprese fino a 9 dipendenti rappresentano rispettivamente l’83% e il 92,1% mentre le imprese fino a 49 dipendenti rispettivamente il 97,2% e il 98,7% del totale. Pertanto, ciò che differenzia l’Italia è la forte concentrazione di imprese sotto i 49 dipendenti e in particolare sotto i 9 e la conseguente minore presenza di medie e grandi imprese.
Se intendiamo per medie imprese quelle con un numero di dipendenti compreso tra 50 e 249, l’incidenza in Italia è meno della metà rispetto alla media europea e meno di un quarto rispetto alla sola Germania.
Queste caratteristiche hanno iniziato a manifestare tutti i loro limiti in corrispondenza dell’aumento della competizione internazionale nei settori di specializzazione dell’Italia a partire dagli anni Novanta. È infatti in questo periodo che inizia un percorso caratterizzato dall’abbassamento di molte barriere doganali e un più diffuso utilizzo di nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazione.
La cosiddetta globalizzazione e la diffusione dell’information technology hanno favorito l’emergere della competizione dei paesi in via di sviluppo (che possono contare su una dotazione di risorse a “buon mercato”). Questo ha portato con sé minacce alla posizione competitiva delle imprese dei paesi sviluppati ma anche opportunità di internazionalizzazione, di innovazione e “nuovi” modelli di business anche in settori tradizionalmente considerati maturi (Baden-Fuller, 1994; Camuffo et al. 2008). Le trasformazioni dell’ambiente competitivo hanno creato la necessità di un “nuovo” adattamento delle organizzazioni e delle imprese in particolare. Molte ricerche indicano nell’aumento della dimensione media delle imprese uno dei modi attraverso cui mantenere il fit con l’ambiente esterno (Ufficio Studi Mediobanca e Centro Studi Unioncamere, 2010). I dati sulla dimensione media delle imprese italiane non lasciano dubbi sulla necessità di crescere, tuttavia il tema va affrontato mettendone in luce tutte le sue peculiarità.

Un’ideologia della crescita?

Esistono certamente valide ragioni per crescere e per rendere la crescita un percorso profittevole. Alcune tra queste sono (Sicca, 2001; Davidsson, Steffens e Fitzsimmons, 2009): il raggiungimento di una scala minima efficiente tale per cui dal punto di vista produttivo si possano ottenere dei benefici di costo traducibili in una migliore profittabilità; il raggiungimento di una massa critica tale per cui si possa ottenere una posizione di rilievo nel settore di riferimento; l’aumento del potere contrattuale verso clienti e fornitori; la possibilità tramite processi di internazionalizzazione di allargare il mercato di riferimento; economie di scala, di raggio d’azione, di complementarietà, di integrazione manageriale.
Va tuttavia tenuto conto che la crescita è un fenomeno relativo, multidimensionale e complesso e i cui benefici possono talvolta essere controbilanciati da criticità strategiche e difficoltà manageriali. La crescita è un fenomeno relativo in quanto la dimensione di un’impresa si può ritenere appropriata solo in relazione alle caratteristiche del settore di riferimento. Se il settore è popolato da grandi imprese, presenta bassi tassi di crescita e una tecnologia consolidata e stabile, un’impresa
potrebbe non avere una massa critica sufficiente per competere, seppur “grande” secondo i criteri occupazionali.
La crescita è in secondo luogo un fenomeno multi-dimensionale, influenzato da molti fattori e suscettibile di valutazioni diverse tanto sul significato stesso del termine quanto sul concetto di performance ad essa collegato. Le imprese possono crescere facendo ricorso a risorse proprie, di cui già dispongono (crescita organica o per linee interne), o acquisendo risorse di altre imprese attraverso alleanze o acquisizioni (crescita per linee esterne) (Sicca, 2001). Molto spesso sono diverse le ragioni che spiegano l’una o l’altra scelta. La crescita è in terzo luogo un fenomeno complesso caratterizzato da una pluralità di conseguenze.
Quest’ultimo, tra i temi sollevati, sembra quello di maggiore attualità. La crisi manifestatasi a partire dal 2008 e in particolare le sue conseguenze sull’economia reale e sul credito, hanno contributo a rendere evidenti alcuni effetti della crescita, non sempre adeguatamente sottolineati. La stretta creditizia ha riportato all’attualità il tema degli equilibri patrimoniali e finanziari e quindi quello del finanziamento della crescita. Il lungo periodo di tassi relativamente bassi ha incentivato un ricorso (rivelatosi in molti casi) eccessivo alla leva finanziaria. Il finanziamento dei percorsi di crescita esclusivamente attraverso mezzi di terzi rischia di scardinare gli equilibri patrimoniali e finanziari dell’impresa e impone un ritorno (quasi) immediato degli investimenti effettuati.
Un percorso di crescita sollecita inoltre l’equilibrio organizzativo dell’impresa. La crescita dimensionale (indipendentemente dalle modalità con cui è realizzata) impone un contestuale adattamento dei meccanismi di governance, della struttura organizzativa e dei sistemi operativi. In altre parole l’adattamento verso l’esterno (external fit) va accompagnato da un necessario adattamento interno (internal fit) (Milgrom e Roberts, 1995; Siggelkow e Rivkin, 2005). La crescita dimensionale potrebbe infatti mettere in luce l’inadeguatezza dell’attuale struttura organizzativa, la mancanza di adeguate competenze manageriali (per esempio per la creazione di una funzione finanza o di controllo di gestione), e la necessità di rivedere ruoli e meccanismi di coordinamento interni e verso l’esterno.
I percorsi di crescita sono pertanto fonte di incertezza e di “instabilità” organizzative e, alla luce di questo, non è scontato che un percorso di crescita sia associato a effetti positivi sulla performance dell’impresa. Si può quindi dire che crescere è sempre positivo? La risposta a questa domanda non è scontata e non è empiricamente provato che un percorso di crescita comporti un miglioramento delle performance economico-finanziarie.
Sono vari gli autori che evidenziano la mancanza di studi accademici sul legame tra crescita e profittabilità (Steffens, Davidsson e Fitzsimmons 2009; Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005). Inoltre le poche ricerche empiriche condotte (Cowling,
2004; Roper, 1999; Markman e Gartner, 2002; Levie, 1997; per Cox, Camp e Ensley 2002 e Sexton, Pricer e Nenide 2000 si veda Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005) non evidenziano risultati univoci sulla relazione tra crescita dimensionale e profittabilità. Per questo motivo “the idea of growing in order to become profitable seems a much more questionable prospect” (Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005, p.17).
Il numero limitato di ricerche in questo ambito di analisi può essere spiegato dal fatto che pare esistere un’accettazione comune che la crescita sia un aspetto positivo nella vita di un’impresa, tanto che in diversi contributi la crescita stessa viene indicata come parametro di performance di un’impresa. Scrivono Dobbs e Hamilton (2007, p.297): “…The obvious benefit of growth for business owners is that of an increase return on their investment. Growth is typically equated with high performance and therefore owners stand to gain a monetary return from such developments.” E’ proprio l’ovvietà di cui parlano Dobbs e Hamilton che deve essere messa in discussione per poter meglio comprendere quali siano i fattori e le strategie che possono rendere profittevole la crescita.

Sulla relazione tra crescita e performance

Nel mondo accademico è presente un elevato numero di contributi che hanno provato a descrivere vari aspetti della crescita delle imprese e nel corso degli anni sono state utilizzate prospettive teoriche e approcci molto diversi tra loro. Un primo
approccio è dato dai modelli descrittivi, nati a partire dal contributo di Chandler “Strategy and Structure” (1962). L’approccio descrittivo ha prodotto un grande numero di modelli (Steinmetz, 1969; Scott, 1971; Greiner, 1972; Kroeger, 1974; Churchill e Lewis, 1983; Scott e Bruce, 1987; Hanks, 1990) e tuttora ha grande notorietà per le proprie capacità interpretative del fenomeno della crescita. Questo approccio descrive la vita e la crescita di un’impresa come un ciclo o una serie di stadi tipici che si verificano a seguito di crisi o inefficienze altrettanto tipiche.
Tuttavia, con l’avvenuta consapevolezza che la crescita delle PMI è un fenomeno multidimensionale ed eterogeneo, questi modelli hanno ricevuto varie critiche per la loro pretesa di universalismo e determinismo (Grandinetti e Nassimbeni, 2007)
oltre che per la mancanza di evidenze empiriche sottostanti (Dobbs e Hamilton, 2007). Inoltre, essi tendono a focalizzarsi soltanto sulle dinamiche interne e non prestano attenzione all’impatto di fattori esterni di tipo sociale, economico e
ambientale (McMahon, 1998).
Tenendo a mente i limiti di tale approccio, nei modelli sviluppati si evidenzia la possibile presenza di un trade off tra crescita e performance (Steffens, Davidsson, Fitzsimmons, 2009) in quanto intraprendere un percorso di crescita significa andare
incontro a una serie di sfide manageriali o di cosiddetti “growing pains” (Flamholtz e Randle, 1990) che possono rendere negativo l’effetto della crescita sulla performance. In particolare, nei modelli descrittivi i growing pains sono tipicamente
di carattere organizzativo e la crescita viene talvolta interpretata come una fase di instabilità necessaria per permettere all’impresa di evolversi nel tempo: ogni impresa deve crescere adattando la propria struttura organizzativa, diversamente
rischia di non sopravvivere.
Un altro approccio che studia la crescita è l’approccio evolutivo (Nelson e Winter,2002); in questo approccio la crescita di un’impresa è influenzata dalla continua interazione di fattori interni ed esterni. Le teorie evolutive possono essere divise in due gruppi (Costa e Gubitta, 2004): le teorie basate sulla selezione, quali “Population ecology” e le teorie basate sull’adattamento, i cosiddetti “active learning models”. Le teorie basate sulla selezione si concentrano maggiormente sulle forze esterne all’impresa e si basano sulla teoria della “Population ecology” che vede nella crescita una tra le possibili strategie competitive che permettono la sopravvivenza dell’impresa (Hannan e Freeman, 1989).
Al contrario, le teorie basate sull’adattamento, pur partendo dal presupposto che l’evoluzione sia determinata dall’ambiente esterno, superano i meccanismi di selezione naturale attraverso una maggiore enfasi sugli individui e sulle conoscenze degli attori. Per questo motivo in quest’ambito rientrano i cosiddetti “active learning models” (Rantala, 2006) in cui le probabilità di sopravvivenza dell’impresa aumentano al crescere del “knowledge stock” in possesso degli individui. La crescita è quindi legata alla spinta esterna alla sopravvivenza data dall’ambiente ma è profittevole soltanto grazie alla presenza di meccanismi di apprendimento che consentono all’impresa di sviluppare conoscenze e competenze adeguate. In questo contesto si sottolinea l’importanza della “behavioral continuity” (Nelson e Winter, 2002) per ottenere successo nei percorsi di crescita: comportamenti aziendali persistenti, sistematici che prendono la forma di regole e azioni, ovvero routine. Il legame crescita-performance diventa quindi positivo solo se si è in grado di creare delle strutture di apprendimento.
Infine, un ulteriore approccio è quello basato sulla Resource Based View (Wernerfelt, 1984; Barney, 1991) applicata alla crescita delle imprese; questo Alessandro Rossi, Diego Campagnolo approccio ha origine a partire dal lavoro di Penrose del 1959 (Dobbs e Hamilton, 2007, Kor e Mahoney, 2004; Peteraf e Barney, 2003). Secondo Davidsson, Steffens e Fitzsimmons (2009) la logica della RBV indica che le imprese perseguiranno opportunità di crescita in modo tale da aumentare i vantaggi derivanti dalle proprie risorse VHRN (valuable, hard to copy, rare, non substitutable).
Questo lascia spazio alla possibilità che il percorso di crescita non crei valore quando l’impresa non è in possesso di risorse adeguate per crescere o non aumenta i vantaggi delle proprie risorse distintive. Prima di intraprendere un percorso di
crescita le imprese devono quindi sviluppare un vantaggio competitivo basato sull’identificazione e sulla valorizzazione dell’unicità del set di risorse a loro disposizione. In questo senso, “in most situations it is advantageous to let profitability (and the competitive advantage it reflects) be the horse that pulls the growth cart, rather than the other way around” (Davidsson, Steffens e Fitzsimmons, 2009 p. 400).

La crescita: un mezzo non un fine

Nei paragrafi precedenti abbiamo sottolineato l’esistenza di un possibile trade off tra crescita e performance; non sempre crescere è positivo, così come confermato dalla mancanza di evidenze empiriche univoche sul tema. Piuttosto, ciò che sembra
di fondamentale importanza è la comprensione dei fattori critici di successo di un business: fattori di tipo economico, ambientale, “knowledge-based” o “firm-specific” che possono rappresentare la base sulla quale impostare percorsi di crescita.
L’ideologia della crescita è quindi sbagliata per definizione. Ritenere che crescere sia positivo a priori comporta rischi per l’impresa in termini di profittabilità. Questo aspetto deve incentivare le imprese a non sottovalutare i “costi” della crescita in
favore soltanto degli aspetti positivi: mantenere un forte spirito imprenditoriale domandandosi allo stesso tempo come, quando e soprattutto perché crescere.
Intraprendere percorsi di crescita in assenza di un’adeguata pianificazione strategica, di competenze specifiche e di una corretta attenzione alla sostenibilità organizzativa (oltre che patrimoniale e finanziaria) rischia di portare ad un effetto negativo della crescita sulla performance. La crescita è pertanto un mezzo (e non un fine) da inserire in una visione strategica più ampia, consapevole dell’opportunità e/o necessità di aumentare le dimensioni dell’impresa, nell’ottica di ricercare un vantaggio competitivo sostenibile. La crescita è un mezzo da gestire tenendo in considerazione equilibri di tipo organizzativo-gestionale.
La crescita infatti ha carattere imprenditoriale, perché può prendere avvio dall’intuizione dell’imprenditore, ma ha elementi di managerialità che intervengono nella fase (iniziale) di pianificazione, (contestuale) di attuazione e (successiva) di gestione di un’organizzazione più complessa.

BIBLIOGRAFIA
BADEN-FULLER, C., STOPFORD, J.M. 1994. Rejuvenating the Mature Business: the Competitive Challenge, Boston, MA: Harvard Business School Press.
BARNEY, J.B., 1991. Firm resources and sustained competitive advantage. Journal of Management, Vol. 17, pp. 99-120.
BECATTINI, G., BELLANDI M., DEI OTTATI, G., SFORZI, F. 2003. From Industrial Districts to Local Development. An Itinerary of Research, Cheltenham, UK: Edward Elgar Publishing.
BECCHETTI, L., TROVATO, G., 2002. The determinants of growth for small and medium sized firms. The role of the availability of external finance. Small Business Economics, Vol.19(4), pp. 291-306.
CAMUFFO, A., FURLAN, A., ROMANO, P., VINELLI, A. 2008. Breathing Shoes and Complementarities: Strategic Innovation in a Mature Industry, International Journal of Innovation Management. 12: 139-160.
CHURCHILL, C., LEWIS,V.L., 1983. The five stages of small business growth. Harvard Business Review, Vol. 61(3), pp.30-50.
COSTA, G., GUBITTA, P., 2004. Organizzazione aziendale: mercati, gerarchie e convenzioni. Milano. The McGraw-Hill Companies, s.r.l.
COWLING , M., 2004. The Growth – Profit Nexus, Small Business Economics, Vol. 22, pp. 1-9.
DAVIDSSON, P., ACHTENHAGEN, L., NALDI, L., 2005. Research on Small Firm Growth, European Institute of Small Business [Online]. Disponibile su: <http://eprints.qut.edu.au/2072/1/EISB_version_Research_on_small_firm_growth.pdf>
DAVIDSSON, P., STEFFENS, P., FITZSIMMONS, J. 2009. Growing profitable or growing from profits? Putting the horse in front of the cart?, Journal of Business Venturing, Vol.24, pp. 388-406.
DOBBS, M., HAMILTON, R.T., 2007. Small business growth: recent evidence and new directions. International Journal of Entrepreneurial Behavior & Research, Vol. 13(5), pp. 296-322.
FLAMHOLTZ, E.G., RANDLE, Y., 1990. Growing pains. Transitioning from an entrepreneurship to professionally managed firm. San Francisco: Jossey-Bass.
GRANDINETTI, R., NASSIMBENI, G., 2007. Le dimensioni della crescita aziendale. Milano: FrancoAngeli s.r.l.
GREINER, L. E., 1972. Evolutions and revolutions as organizations grow. Harvard Business Review, Vol. 50(4), pp.37-46.
HANKS, S.H. 1990. The organization life cycle: integrating content and process, Journal of Small Business Strategy, vol. 1 (1), pp. 1-13.
HANNAN M., FREEMAN J. 1989. Organizational Ecology, Cambridge: Harvard University Press.
HASPESLAGH P.C., JEMISON D.B. 1991. Managing Acquistions. Creating value through corporate renewal. The Free Press.
Alessandro Rossi, Diego Campagnolo
HARDING, D., ROVIT, S., 2005. Prendere o lasciare? Le quattro decisioni critiche in una strategia di M&A. Milano: RCS Libri s.p.a.
KOR, Y.Y., MAHONEY, J. T., 2004. Edith Penrose’s (1959) contributions to the Resource-based view of Strategic Management. Journal of Management Studies, Vol. 41(1), pp. 183-191
KROEGER, C.V., 1974. Managerial development in the small firm, California Management Review, vol. 17 (1), pp. 41-46.
MARKMAN, G.D., GARTNER, W.B., 2002. Is extraordinary growth profitable? A study of Inc. 500 high – growth companies. Entrepreneurship Theory and Practice, Vol. 27(1), pp. 65-75.
MCMAHON, R.G.P., 1998. Stage models of SME reconsidered. Small Business Research: The Journal of SEAANZ, Vol.6(2), pp. 20-35.
MILGROM P., ROBERTS J. 1995. Complementarities and fit: Strategy, structure and organizational change in manufacturing. Journal of Accounting and Economics, Vol. 19, pp 179-208.
MORENO , A.M., CASILLAS, J.C., 2007. High-growth SMEs versus non-high-growth SMEs: a discriminant analysis, Entrepreneurship & Regional Delevopment, Vol. 19(January), pp.69-88.
NELSON, R.R., WINTER, S.G., 2002. Evolutionary Theorizing in Economics, Journal of Economic Perspectives, Vol.16(2), pp. 23-46
PENROSE, E. (1959). The theory of the Growth of the Firm. Oxford: Oxford University Press.
PETERAF, M.A., BARNEY, J.B., 2003. Unraveling the Resource-Based Tangle. Managerial and Decision Economics, Vol.24(4), pp.309-323.
PIORE, M.J., SABEL, C.F., 1984, The second industrial divide: possibilities for prosperity, New York: Basic Books.
RANTALA, A., 2006. Growth of new firms, evidence from Finland 1996-2003. Pellervo Economic Research Institute [Online]. Disponibile su: http://www.ptt.fi/dokumentit/rap197_22060610.pdf
ROPER, S., 1999. Modelling small business growth and profitability. Small Business Economics, Vol.13(3), pp. 235-252.
SCOTT, B.R. 1971. Stages of Corporate Development – Part 1, Case No. 9-371-294, Intercollegiate Case Clearing House, Boston, Massachusetts.
SCOTT,M., BRUCE, R., 1987. Five stages of growth in small business. Long Range Planning, Vol. 20 (3), pp. 45-52.
SICCA, L., 2001. La gestione strategica dell’impresa. Padova: CEDAM
SIGGELKOW, N., RIVKIN, J.W. 2005. Speed and search: Designing organizations for turbulence and complexity. Organization Science, Vol. 16, pp. 101-122.
STEFFENS, P., DAVIDSSON, P., FITZSIMMONS, J., 2009. Performance Configurations Over Time: Implications for Growth- and Profit-Oriented Strategies, Entrepreneurship Theory and Practice, January, pp. 125-148.
STEINMETZ, L.L. 1969, Critical stages of small business growth: when they occur and how to survive them, Business Horizons, vol. 12 (1), pp. 29-34.
UFFICIO STUDI MEDIOBANCA, CENTRO STUDI UNIONCAMERE, 2010, Le medie imprese industriali Italiane (1998-2007),
WERNERFELT, B., 1984. A resource based view of the firm. Strategic Management Journal, Vol.5(2), pp.171-180.

 

Articolo redatto in collaborazione con Diego Campagnolo

Nota: questo articolo è pubblicato su www.ticonzero.info

 

E’ di oggi la preoccupante notizia di un ulteriore taglio di 27 milioni di euro al FUS, già in precedenza notevolmente ridotto, cui hanno fatto seguito varie reazioni, per lo più di sdegno e diniego. C’è’ chi come Bruno Cagli, ha annunciato persino di abbandonare l’incarico da sovrintendente dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, mentre Paolo Protti, presidente dell’Agis, urla allo scandalo in una lettera indirizzata al Ministro Bondi.
Tramite il sottosegretario Giro, il Ministro, anche lui dimissionario, esprime la sua estraneità e contrarietà alla decisione presa dal Ministero dell’Economia, denunciando come tale politica imponga l’ennesimo grave colpo alle risorse destinate alla cultura.
La considerazione che tuttavia sento di dover fare è purtroppo ancor più amara: il paese sapeva già da tempo delle difficoltà in cui versava il nostro sistema culturale, senza che tuttavia sia mai stato attuato alcun intervento risolutivo.
Ritengo sia necessario, sulla base degli attuali assetti italiani, una riconsiderazione sostanziale del principio di sussidiarietà orizzontale e verticale, un incremento della funzionalità tra strumenti economici e giuridici a disposizione dei soggetti operanti, nonchè un reale tentativo di attuare una governance non solo assistenzialistica, bensì di ottimizzazione della produttività, con un conseguimento del massimo impatto socio-economico.
E’ altresì opportuno verificare il reale sostegno offerto dalle istituzioni pubbliche alla cultura intesa non in senso generico, ma nell’accezione ben più concreta di prodotto culturale, quale punto di incontro tra domanda reale e potenziale. L’Italia infatti si è a lungo preoccupata dell’offerta in ambito culturale, tralasciando la domanda, che necessita invece di stimoli nuovi e creativi. Solo con un’attenta analisi e interpretazione di quest’ultima si otterà invece un miglioramento dell’offerta, e il loro successivo incontro consentirà al sistema di uscire da questa dipendenza ‘ossessiva’ dai finanziamenti pubblici.