progettoculturaLa relazione fra pubblico e privato nella gestione e nella valorizzazione della cultura ha sempre costituito un tema caldo, un nodo da sciogliere, in un Paese che come il nostro è nato guardando ai beni culturali da una prospettiva centralista e che per molti versi ancora stenta a mutare la sua prospettiva. Imprese culturali e creative, start up, organizzazioni di terzo settore operanti a diverso livello nell’ambito- dalla conservazione alla valorizzazione, dalla formazione alla progettazione – da sempre si scontrano con la difficoltà di ricavarsi un ruolo legittimo al fianco del potere pubblico, dovendo confrontarsi al tempo stesso con il mercato e la sua domanda. Colpito duramente dalla tempesta economica e finanziaria che dal 2007 si è abbattuta sull’orizzonte internazionale, questo tessuto imprenditoriale, fatto di persone, idee e progettualità, è la frangia del settore culturale e creativo che si mette maggiormente in gioco, accettando in prima persona la sfida di fare cultura in un Paese centralista e burocratizzato come l’Italia e confrontandosi continuamente col mercato e con la redditività degli investimenti intrapresi.

Chi decide di fare cultura si assume il compito di immaginare il futuro, di sperimentare idee, progetti, prodotti e servizi ad alto valore aggiunto e si prefigge l’obiettivo di dare vita a modelli di attività e produzione sostenibili, capaci di generare output che incontrino i desideri della domanda e sappiano stimolarli, restando competitivi sul mercato. Non è forse a tutti quei soggetti che decidono di assumere un approccio imprenditoriale nei confronti delle attività culturali e creative che dovrebbe andare il sostegno pubblico e comunitario in una congiuntura difficile come quella attuale? Come suggerisce lo stesso Libro Verde della Comunità Europea, è la nascita di nuove imprese, soprattutto nei settori di riferimento, a rappresentare uno dei mezzi più efficienti per lo sviluppo del sistema economico e sempre cultura e creatività costituiscono due leve strategiche per la riconversione dei territori, colpiti dalla crisi dell’industria e della manifattura.

Di sostegno si è effettivamente parlato, ma forse nella confusione del momento si è perso di vista l’obiettivo di fondo, ovvero l’introduzione di misure che supportino lo sviluppo di un comparto, laddove per comparto si vogliono intendere le realtà imprenditoriali e di terzo settore che concorrono in prima persona a dare vita alle attività, al fianco del pubblico, assumendosi il rischio.

Mi riferisco alla proposta, avanzata in relazione al ciclo di programmazione dei fondi comunitari 2014-2020, di costituire un Fondo per la Progettualità Culturale concepito, in ultima istanza, per il finanziamento degli Studi di Fattibilità Esecutivi: naturali e possibile committenze dalla Pubblica Amministrazione alle grandi società di consulenza, come Federculture, la Fondazione Fitzcarraldo, Struttura e la stessa Monti&Taft, per fare solo alcuni nomi. Tale misura dovrebbe concorrere in modo forte alla riqualificazione della progettualità portata avanti dalla Pubblica Amministrazione, facilitando la concertazione interistituzionale e stimolando al tempo stesso la partecipazione del privato alle iniziative realizzate, beneficiarie di una maggiore “certificazione di sicurezza” dal punto di vista della resa economica e finanziaria.

Ponendosi l’obiettivo della crescita sistemica del settore culturale, forse l’istituzione di una misura forte come quella del Fondo di Garanzia diventa legittima, forse, se pensata in relazione alle Micro e Piccole Medie Imprese, alle start up e alle organizzazioni di terzo settore che a diverso titolo provano a concorrere sul mercato,sull’onda della crisi e della burocrazia. Incentivi per l’imprenditoria giovanile, agevolazioni per le nuove assunzioni, benefici fiscali, sussidi per la ricerca e l’internazionalizzazione dei prodotti e dei servizi sono solo alcuni delle misure che potrebbero rientrare nella sfera d’azione di un fondo pensato appositamente per il sostegno delle imprese e delle organizzazioni culturali italiane, in un’ottica di reale apertura al privato, profit e non profit.

 

Foto di Ian Lyam Design

 

 

eucreNonostante l’arrivo dell’autunno, dall’Europa soffia un vento caldo carico di notizie positive per chi opera nel settore creativo culturale ed audiovisivo.
La Commissione Europea ha deciso di stanziare 1.801 milioni di euro tra il 2014 e il 2020, per il programma Europa Creativa, attraverso il quale prevede di raggiungere circa 8.000 organizzazioni culturali e 300.000 artisti, professionisti della cultura e le loro opere. Il Parlamento europeo ha votato favorevolmente il programma.
Scopo primario: aiutare chi si occupa di ‘cultura’ a varcare i confini nazionali, rafforzando il ruolo dei piccoli imprenditori e delle organizzazioni locali, favorire l’innovazione, la costruzione di un pubblico paneuropeo e nuovi modelli di business.

Secondo la Commissione, dal punto di vista economico questi finanziamenti sono il modo più efficace di ottenere risultati e un effetto duraturo per aiutare i professionisti del settore culturale ed audiovisivo ad inserirsi sui mercati internazionali e a lavorare con successo per promuove lo sviluppo di opere che presentano un potenziale di distribuzione transfrontaliera; più di 5.500 libri e altre opere letterarie verranno tradotte e pubblicizzate e più di 1.000 film europei, verranno distribuiti su piattaforme tradizionali e digitali.

Nonostante infatti la diversità culturale e linguistica europea sia riconosciuta dai Trattati come un principio fondamentale e più volte si sia proclamata la necessità di rafforzare la competitività dei settori culturali e creativi, i dati dell’ultimo rapporto Eurostat relativi al 2012, riportavano un panorama non proprio felice, dove tra l’altro l’Italia chiudeva la fila con una percentuale di investimenti statali nel campo culturale inferiore alla media degli altri paesi membri.
Ora sembra che ci siano tutti gli elementi per uscire dalla crisi e dare una spinta propositiva, -oltre a un sostegno economico- all’enorme ricchezza che molti, soprattutto tra i giovani continuano a ritenere il cuore vivo e pulsante in cui investire tempo e risorse, nonostante la disattenzione se non peggio, gli ostacoli da parte delle istituzioni.

Voci di corridoio sussurrano che le prime call usciranno a dicembre con scadenza a marzo. Il Programma vede un aumento di budget del 9% rispetto al precedente Programma Media e Cultura 2007-13 e resterà suddivido nei due filoni principali: Media e Cultura, oltre a una sezione tran-settoriale che istituirà una desk di supporto e archivio dati e dal 2016 un fondo di garanzia quale strumento di garanzia finanziaria destinato alle PMI e alle organizzazioni.
Quattro i settori di finanziamento: progetti di cooperazione, traduzione letterarie, network e piattaforme.

Potranno partecipare gli operatori attivi nei settori creativi culturali, aventi personalità giuridica (non sono ammesse infatti domande individuali) e sede legale in uno dei 28 Paesi Membro Ue, ma anche Norvegia, Svizzera, Turchia, Macedonia, Serbia, Islanda, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Albania; e –grande novità!- anche i Paesi partecipanti alla cosiddetta European Neighbourhood Policy -ENP: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldova e Ucraina, Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Siria e Tunisia.

Un’opportunità importante per fare rete, acquisire competenze e, grazie alle più moderne tecnologie digitali diffondere la coproduzione europea e internazionale, scambi di competenze professionali e know-how, attraverso tournee, eventi, manifestazioni internazionali.

Letteratura, musica, architettura, archivi e biblioteche, artigianato artistico, film, televisione, videogiochi e multimediale; design, festival, arti visive, arti dello spettacolo, editoria, radio, pare siano finalmente arrivate le risorse per salvare questo nostro patrimonio inestimabile, resta ora da vedere come verranno distribuite e gestite!

 

Consulta il sito del programma Europa Creativa

 

“C’è grossa crisi”, direbbe qualcuno. I privati investono con oculatezza e parsimonia. Il settore pubblico è sempre più propenso a cercare fondi, piuttosto che a elargirli. L’arte e la cultura rimangono, però, dei settori di vitale importanza nel nostro Paese che richiedono cure, supporto, incentivi, sostegno.

Alla luce di questo nuovo scenario, si profila la necessità, sia per pubblici che per privati, di rivolgersi ai cittadini stessi per mantenere e tutelare fiori all’occhiello della vita culturale di una città. I fruitori stessi vengono chiamati a sostenere determinate strutture e realtà con tipologie diverse di “crowdfunding”, cioè di  “finanziamento da parte della folla”, che si personifica in elargizione di fondi, acquisto di azioni, o finanziamenti in qualità di soci.

 

crowdfunding

 

Nell’ambito del settore pubblico, è degli ultimi giorni la notizia del lancio di una raccolta di crowdfunding per salvare il portico di San Luca di Bologna, “Un passo per San Luca”. Si tratta del portico più lungo al mondo, più di 3 chilometri, costruito nel 1677, che adesso però necessita di un restauro. Si sta crepando in molti punti e per riportarlo al suo splendore è necessaria una raccolta fondi di almeno 300.000 euro. È lo scopo che si sono posti Comune di Bologna, Arcidiocesi di Bologna, Basilica di San Luca, Quartiere Saragozza, con il supporto della piattaforma web di crowdfunding territoriale, GINGER. Enti pubblici e privati, associazioni, società e semplici cittadini possono contribuire con un’offerta minima di 5 euro, oppure con un’offerta di 20 o 100 euro, che dà accesso ad alcuni vantaggi. Se la raccolta andasse a buon fine, il portico tornerebbe realmente al centro della vita della città, non solo perché fruibile e restaurato, ma anche perché espressione della collaborazione di tutta la cittadinanza al mantenimento di un’opera architettonica così prestigiosa.

 

unpassopersanluca

 

Esempi diversi di coinvolgimento civico provengono, invece, dai privati. È il caso del progetto “Diventa amico de laVerdi”, noto anche come “Un mattone per la cultura”. Nel 2008 la Fondazione dell’Orchestra Verdi di Milano ha acquistato il 100 per cento delle azioni della Immobiliare Rione San Gottardo, di proprietà dell’Auditorium, costituendo il primo caso in Italia e in Europa in cui un teatro è di proprietà dell’Orchestra che lo utilizza. Con lo scopo di ottenere maggiori finanziamenti, ha avuto l’autorizzazione da parte della Consob, dopo un lungo processo, di vendere il 49 per cento delle azioni ai cittadini. Ogni azione ha il costo di 6 euro e sono acquistabili in pacchetti di almeno 150 azioni. Si tratta di una chiamata alla cittadinanza per “partecipare dal punto di vista immobiliare e culturale al patrimonio della città”, come ha sostenuto il direttore generale della Fondazione, Luigi Corbani (fonte La Repubblica). Quello che la Fondazione propone a chi decide di diventare azionista dell’Orchestra Verdi è un vero e proprio progetto culturale che assicura la partecipazione diretta alla vita dell’Orchestra, concerti, eventi speciali e altri vantaggi.

Infine, un altro caso è rappresentato dal Museo Civico Gaetano Filangieri di Napoli che rischia la chiusura per mancanza di fondi e di personale. Pochi mesi fa è stata istituita una onlus, “Salviamo il museo Filangieri”, presieduta da Maria Piera Leonetti, con lo scopo di finanziare l’attività e la sopravvivenza del museo attraverso visite guidate, concerti, presentazione di libri, laboratori, concorsi e altri eventi speciali. Il prossimo, che si terrà il 16 novembre, è un’asta aperta a tutti, sia a coloro che sono interessati ad acquistare, sia a coloro che vogliono semplicemente partecipare all’evento, magari decidendo di diventare soci. Le opere messe all’asta sono state donate da 51 artisti contemporanei tra i più quotati del momento: Kounellis, Mauri e Jodice, solo per fare alcuni nomi.

 

FilangieriNaples

 

Il coinvolgimento attivo dei cittadini nella vita sociale e culturale della propria comunità è sicuramente un momento importante, positivo e, a volte, anche educativo. Il fatto che si richieda anche il loro aiuto economico e finanziario è probabilmente anche il segno che il nostro Paese ha  bisogno di politiche culturali maggiormente strutturate, regolamentate ed efficaci.

basilicatagirareIntervista al Direttore di Lucana Film Commission, Paride Leporace

 

Insieme alla Regione Basilicata avete promosso il bando per il finanziamento di produzioni sul vostro territorio, in scadenza l’11 novembre. Quali i principali punti di forza di tale opportunità?
Fino a duecentomila euro di finanziamento per ogni film da spendere sul nostro territorio. E una quota destinata a sperimentare la nascita di piccole imprese locali vocate all’audiovisivo. Si tratta della prima pietra per edificare un sistema di piccole e medie imprese che possano formare un distretto della creatività a supporto dell’industria cinematografica

 

Cosa consiglia alle PMI che si candideranno per ricevere i finanziamenti messi a disposizione? C’è magari qualche location particolare che vuole suggerire?
Consiglio innanzitutto di non pensare alla Basilicata come un bancomat da utilizzare nella forma usa e getta. Spero si ragioni tutti in modo virtuoso e mi auguro che qualche squalo che circola in questi ambienti venga demotivato dalla rigidità dei controlli che un bando europeo propone. Per chiarimenti abbiamo attivato un servizio FAQ consultabile dal nostro sito lucanafilmcommission.it. In merito ai set da proporre io preferisco chiamarli luoghi. La Basilicata è molto vasta, contrariamente a quello che restituisce il luogo comune. Si tratta di luoghi che a volte hanno visto l’alba dell’uomo. Sono poco abitati quindi molto cinematografici. Matera è un patrimonio dell’umanità e città del cinema. Ma abbiamo anche due mari, molti laghi, cime innevate e deserti brulli, paesini che sembrano presepi e nidi di vespe arrampicati sulle colline, cattedrali medioevali, palazzi barocchi, foreste, centri storici intatti, piccole savane, campi di grano, attrazioni con filo d’acciaio che imbracati vi conducono come un angelo da un paese all’altro a grande altezza. Un campionario di scenari naturali pronto a soddisfare ogni sceneggiatura da illuminare con una luce che ha già entusiasmato molti direttori della fotografia.

 

Che tipo di interazioni si attivano tra le produzioni che giungono da voi e le realtà locali, come imprese, associazioni, istituti culturali e amministrazioni?
C’è grande accoglienza e molta partecipazione. Le amministrazioni locali, a differenza dei luoghi metropolitani, non creano ostacoli burocratici, ma favoriscono permessi e mettono a disposizioni mezzi e risorse. Le relazioni corte lucane sono molto utili per risolvere i problemi di una produzione, dove ridurre i costi e i tempi è il primo risultato da raggiungere. Il mondo delle imprese deve attrezzarsi meglio, quello della cultura essere più propositivo.

 

Tra le produzioni che avete sostenuto in passato, quale a suo avviso ha meglio rappresentato e veicolato le bellezze della Basilicata?
“Basilicata coast to coast”, grazie ad un regista lucano come Rocco Papaleo e al racconto “on the road”, ha permesso di rendere riconoscibile la Basilicata e di renderla anche molto affascinante al visitatore che non cerca luoghi banali o scontati. Abbiamo favorito la distribuzione del film anche in Francia e  grazie a questo prodotto cinematografico abbiamo notato come  la nostra regione sia attraente anche all’estero. Tra l’altro molti studi indicano questa favorevole circostanza. Il film è nato grazie all’intuito del produttore che ha ricevuto attenzione e finanziamento dalla Regione Basilicata e dal ministero, godendo anche di un’ottima campagna pubblicitaria pagata da parte di alcune compagnie petrolifere operanti nella nostra regione. E’ stata un’ottima operazione di promozione territoriale, abbinata ad un prodotto di successo economico e artistico.

 

Che tipo di attività svolgete invece sul territorio per promuovere il cinema e la sua conoscenza? Che feedback riscontrate?
Siamo in stretto contatto con una rete di Centri della creatività, nati in Basilicata grazie alla Regione, che ha riqualificato delle vecchie cattedrali nel deserto inutilizzate affidandole a gruppi e cooperative che hanno partecipato ad un bando pubblico. In questi Centri abbiamo tenuto molti incontri con i territori e oltre ai lavoratori della creatività e del cinema abbiamo anche interagito con imprenditori, amministratori, banche e categorie produttive. La nostra narrazione dimostrativa convince sempre più persone. Siamo inoltre molto impegnati a difendere le sale cinematografiche esistenti e con un Apq tra governo e Regione speriamo di poter effettuare una sperimentazione sul nuovo cinema digitale nelle nuove sale del presente. Infine, e non da ultimo, dobbiamo formare dei cittadini spettatori che abbiano una buona cultura delle immagini, che le sappiano leggere e capire. Per questo è indispensabile partire dalle scuole e dall’Università.

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La Basilicata ha un lungo trascorso cinematografico: come spiega questa particolare vocazione?
Le inchieste sociali e i documentari aprirono la strada. Girare in Lucania era come andare in un posto esotico. Poi la spedizione di De Martino apri’ la vocazione antropologica che continua ancora oggi ad un cinema che indaga e prende a pretesto riti e costumi ancestrali. Poi la decisione di Pasolini di ritrovare la Palestina di Cristo a Matera e Barile per alcune scene monumentali del Vangelo segnerà per sempre la storia del Cinema. Da allora Matera in particolar modo, ma non solo, diventa set privilegiato per film legati alla vicenda di Gesù. Quasi un genere compresa qualche parodia, metacinema e qualche flop americano. Poi si gira “The Passion” di Mel Gibson che, grazie ai suoi incassi stratosferici e alle polemiche globali suscitate, ha fatto diventare Matera una delle mete di cineturismo più conosciute al mondo. A Pasqua il turista trova le croci sulla Murgia ormai diventato Golgota nell’immaginario collettivo. Poi c’è tutto il resto. L’esordio della Wertmuller, la trilogia di Francesco Rosi che riesce a impossessarsi dell’epopea contadina di Carlo Levi negli anni Settanta, la finta Sicilia di Tornatore. La Basilicata è un set naturale che ispira il cinema d’autore per contaminazione culturale di alcuni testi e per forza dei luoghi. Grandi documentari pure. Oggi il nuovo snodo. Mettere a sistema questo grande patrimonio.

Guarda l‘infografica che in 2 minuti ti spiega come partecipare al bando, che trovi in versione integrale qui

pellicolacinemaAnnunciata fin da prima dell’estate (inizialmente con l’ambiziosa denominazione di “Stati Generali”), il 14 ottobre 2014 è stata ufficializzata dal Mibact l’iniziativa promossa da Massimo Bray, la “Conferenza Nazionale del Cinema”, che si terrà martedì 5 novembre a Roma presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, con una appendice conclusiva sabato 9 novembre nell’ambito del Festival Internazionale del Cinema.

Chi scrive quest’intervento presiede un istituto di ricerca specializzato da vent’anni sulle politiche culturali e le economie dei media e, da un quarto di secolo, studia queste tematiche: nel corso di questo lungo lasso di tempo, ha osservato come il livello di trasparenza ed accuratezza del “sistema informativo” della cultura italiana sia purtroppo migliorato ben poco.

Lo stato dell’arte delle conoscenze (statistiche, socio-economiche, istituzional-normative) della politica e dell’economia culturale in Italia resta sconfortante, se confrontato con la Francia, il Regno Unito, la Germania. I dati disponibili sono frammentari e disomogenei, sia sul fronte del consumo sia sul fronte dell’offerta, le letture scenaristiche rarissime, l’analisi critica dell’intervento della mano pubblica una “mission” (quasi) “impossible”.

Stendiamo un velo pietoso sulla qualità della relazione annuale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (zeppa di dati, ma carente di lettura strategica), e registriamo che l’onda lunga di trasparenza avviata anni fa da Walter Veltroni quando fu Ministro per i Beni e le Attività Culturali è ancora in corso (la relazione annuale sul Fus è migliorata anche se resta un tomo sostanzialmente inutilizzabile, la Dg Cinema del dicastero, diretta da Nicola Borrelli, si sforza di rendere più leggibili i propri dati ma è assente ogni analisi critica), eppure siamo costretti a denunciare l’assenza di un dataset minimamente adeguato a comprendere criticamente lo stato di salute del sistema audiovisivo. Qualche mese fa, Anica e Dg Cinema presentarono un dossier statistico asettico intitolato “Tutti i numeri del cinema italiano”. Scrivemmo che l’ambiziosa titolazione doveva essere corretta con un più oggettivo “Alcuni numeri (parziali assai) del cinema italiano”, e già una sintonia “statistica” tra Mibac ed Anica stimola dubbi anche in materia di conflitti d’interesse. I “buchi” della relazione al parlamento sul Fus o della specifica relazione della Dg Cinema sono semplicemente enormi. E che dire del ministeriale Osservatorio sullo Spettacolo, che è stato anno dopo anno depotenziato, fino a ridurlo ad una scatola vuota?!

C’è un “disegno”, dietro tutto questo. Forse non esattamente strategico (perché implicherebbe una intelligenza di “policy making” di lungo periodo, che non c’è), ma frutto di dinamiche politiche inerziali, di sedimentazioni conservative. Che, alla fin fine, producono però un risultato: deficit di trasparenza, impossibilità di analisi di impatto. Dati carenti ed analisi asettiche, elaborate da tecnici “partisan” asserviti alla conservazione dell’esistente, cantori del principe. Così il dizionario Treccani definisce “asettico”: “Che è privo di forza creativa, di personalità, di mordente, o che, nelle sue manifestazioni, si rivela freddo, arido, senza calore, privo o incapace di passioni, di preferenze e sim.”: definizioni che paradossalmente ben descrivono la nostra (non) politica culturale italiana.

In un quarto di secolo, siamo riusciti a capire perché questo è lo stato dell’arte: perché, meno si sa, meglio può operare chi è all’interno del sistema (si chiami Fus o appalti Rai). Minore è quindi il rischio di critiche documentate, più ardua la capacità di comprendere le dimensioni quali-quantitative delle aree protette e delle nicchie privilegiate. Parafrasando un qual certo filosofo… “la notte in cui tutte le vacche sono nere”. E chi ha interesse alla nebbia pervasiva? Chi è protetto dalle logiche del sistema. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. E fuori resta.

E che dire della “convegnistica” in materia?! Da decenni, nello specifico del cinema, ri-troviamo le stesse “sigle” (e spesso le stesse persone fisiche a rappresentare le associazioni): Anica Agis Anec Anem Anac Apt… con qualche novello innesto, significativo (100autori) o meno (Apgci). Talvolta ci sono anche i “giornalisti”, ovvero Sncci e Sngci (i due sindacati, “critici” e “giornalisti”, ricordando che l’Italia è l’unico Paese al mondo con due sindacati di giornalisti specializzati in cinema), talvolta i sindacati… Balletti rituali tra lobby grandi e piccole, che stancamente si ripetono. Infinita noia.

Da decenni, registriamo raramente rappresentanti di associazioni che denuncino i deficit del “sistema informativo” del cinema e dell’audiovisivo: noi avremo il vizio dei ricercatori, ma domandiamo loro (così come a ministri ed assessori di turno): come diavolo pensate di “fare politica” (con… scienza e coscienza) del cinema e dell’audiovisivo, se non disponete di dati ed analisi minimamente adeguate?! Ma come può essere invocata la “spending review”, se mancano i fondamentali per capire cosa realmente produce (ed è soltanto un esempio tra i tanti) il sempiterno carrozzone di Istituto Luce Cinecittà?!

Ci stanchiamo a rievocare sempre la disattesa lezione einaudiana del “conoscere per deliberare”: è divenuto un mantra, ma finanche, purtroppo, ormai, un cliché.

L’iniziativa della “Conferenza Nazionale” sembra riprodurre la storica compagnia di giro, con una parvenza di novità di “apertura” democratica, ovvero “dal basso”: dal 14 ottobre al 22 ottobre (una finestra di tempo veramente limitata, di grazia, e comunque certamente una iniziativa mal pubblicizzata), è stata avviata sul sito del Ministero una sorta di pubblica “consultazione”. Si poteva “rispondere” ad una sorta di questionario chiuso: 18 domande 18 su macro e micro questioni del sistema cinematografico, e risposte lunghe al massimo 1.000 battute. Ma si poteva rispondere ad 1 domanda 1 soltanto! Surreale. Elogio della frammentazione?! Metodo “by Mibac” ispirato a logiche di razionalità managerial-aziendalistica “made in Usa”, che cozzano con la libertà che si deve garantire al pensiero creativo. Ed anche al pensiero critico sulla creatività!

Ci siamo rifiutati di accettare una logica così rigida, schematica, chiusa. Non abbiamo risposto – e molti come noi – e non parteciperemo alla “Conferenza”, che prevede 3 “tavoli” (“Cinema: industria culturale”, “Struttura, operatori del mercato e nuovi modelli di distribuzione e fruizione”, “Le politiche pubbliche”; già questa ripartizione evidenzia scotomizzazioni a gogò), che si terranno in peraltro in contemporanea (ed anche questo metodo è sintomatico della volontà di parcellizzare il pensiero critico).

L’architettura metodologica messa in atto è profondamente errata, perché la fisiologia e la patologia del cinema italiano richiedono un approccio organico e sistemico, dati seri e analisi critiche profonde, provocazioni coraggiose, e non l’ennesima passerella di riproposizione di tesi parziali e partigiane, frammentarie e dispersive.

Sarà comunque interessante leggere i risultati concreti della Conferenza Nazionale (in termini di lettura critica del sistema e di proposte di innovazione). Se ne produrrà.

 

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

 

Dopo il successo della scorsa edizione, torna anche quest’anno il bando cheFare volto a premiare il miglior progetto culturale di innovazione sociale con 100 mila euro.

Il termine per inviare la propria partecipazione è per il 9 dicembre prossimo.

I progetti saranno selezionati da un gruppo di esperti scelti dall’associazione culturale Doppiozero, promotrice del bando. Ai partecipanti che avranno superato la prima selezione, sarà garantita visibilità on line per due mesi, così da consentire alla community della Rete di esprimere il proprio voto. Tra gli otto finalisti, una giuria di saggi sceglierà infine il vincitore che potrà ricevere i 100 mila euro in premio.
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Attraverso il bando più realtà hanno la possibilità di presentarsi e farsi conoscere da esperti del settore in modo orizzontale e democratico. Ci sono infatti parametri ben precisi cui attenersi sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo: di ciascun progetto presentato sarà considerata la sostenibilità economica, l’impatto sociale e la rilevanza culturale. Questi aspetti sono alla base di esperienze di successo, come dimostra Lìberos, il vincitore del bando cheFare 2012.

Lìberos è una rete sociale creata e costituita da alcuni scrittori, editori, librai, biblioteche, associazioni, festival e altri professionisti dell’editoria. Il progetto propone un sistema operativo culturale, un social network e un laboratorio permanente di progettazione comune volto a sostenere il comparto editoriale in Sardegna e non solo.

Quest’anno Lìberos figura tra i partner di cheFare insieme a TAFTER, Avanzi, Fondazione Ahref, Fondazione Fitzcarraldo e Societing.

L’obiettivo è sempre lo stesso: “CheFare è uno strumento per indagare le trasformazioni del presente e le strade del futuro” sostenendo le realtà capaci di innovare e progettare nel campo culturale.

 

 

miseriaenobiltaAbbiamo trascorso molti anni di indifferenza festaiola confortati o avviliti dalla bieca metafora idrocarburica, inventata per decorare il patrimonio culturale italiano con tanti lustrini che odoravano di denaro. Sappiamo com’è andata a finire, anzi possiamo dire che non è mai cominciata. Poi, mentre saliva imperiosa l’onda catodica ci siamo trovati per le mani le classifiche dell’orgoglio dimensionale, fondate sulla leggenda che attribuisce all’Italia tre quarti (o due terzi, fate voi) del patrimonio culturale mondiale; va ricordato che la cosa è il frutto di un’inferenza sciocca derivante dal dato sui furti d’arte in Europa: se qui rubano tre quarti delle opere rubate nel continente vuol dire che le proporzioni sono queste. Totò, almeno, avrebbe accompagnato l’affermazione con un sorriso beffardo. Adesso, in un lungo periodo di vacche magrissime, è del tutto naturale ricorrere alla metafora gastroenterologica: con la cultura si mangia o si digiuna?

L’equivoco che piace tanto ai giornali genera una disputa tra guelfi (che vorrebbero nostalgicamente un ordine pubblico e sacrale, come quando le truppe papaline spogliavano il Colosseo ma costruivano magnifiche facciate barocche) e ghibellini (che prefigurano una cultura efficiente per iniezioni di denaro privato e una certa disinvoltura nell’uso del patrimonio culturale). Essere di parte giustifica la crociata di entrambe le armate, ma forse drena un pochino la ragionevolezza che magari costruisce meno proclami e rende fertili i dubbi. Andiamo al nocciolo della questione. La cultura esiste per generare reddito? No. Per mantenere in vita un sistema di vincoli e barriere che arginano la barbarie e coccolano gli iniziati? No. Per consentire a un Paese, esausto come il nostro da un esodo massiccio di risorse e talenti, di mostrare qualche muscolo superstite nelle dispute internazionali da barzelletta? No. Per attrarre turisti o sedurre imprenditori stranieri? No.

Certo, può fare più effetto snocciolare cifre che mostrano la dimensione davvero negligibile della spesa italiana per la cultura, degli incassi dei musei e dei teatri, dei ricavi che derivano dalla vendita di servizi culturali, aggiungerei dell’indifferenza conclamata verso la formazione, la ricerca e la circolazione delle idee. La questione è ben più delicata e complessa di un mero confronto dimensionale, come sottolineano in un recentissimo articolo gli economisti Enrico Bertacchini e Pier Luigi Sacco: è vero che spendiamo poco, ma soprattutto spendiamo male; è vero che la cultura attira, ma soprattutto si innerva nei gangli di un’economia dinamica e multiforme. Per farla breve, sarebbe il caso di trasformare il dualismo un po’ becero che contrappone pubblico a privato in un ragionamento strategico sulle alleanze; di ridisegnare le regole del sostegno pubblico spostandone il peso da una pezza pietosa sulle falle di bilancio verso uno scambio per benefici infungibili e di lungo periodo; di riscrivere la mappa delle professioni preferendo l’ibridazione e la flessibilità alle gabbie protettive e disincentivanti di un regime bizantino.

Facciamo un semplice esercizio: se un museo o un teatro possono generare reddito e occupazione, ne generano molto di più un centro commerciale o un villaggio turistico. Non conviene mai usare agromenti che possono essere facilmente girati contro di noi. Proviamo invece a eliminare la cultura dalle nostre mappe urbane: che mondo sarebbe senza cultura? Veloce, funzionale, efficiente e privo di sbavature, forse, ma certamente grigio, ostile, privo di segni della nostra stessa presenza, indifferente a qualsiasi stimolo e incapace di darci quello che ci rende vivi: la rappresentazione del sé, la capacità di ragionare, di indossare un paio d’occhiali critici e poetici, di imparare più di quello che sappiamo insegnare. Ecco il vero impatto della cultura: senso di appartenenza, qualità della vita, relazioni fertili, immaginazione, capacità di inventare scenari nuovi e di attraversare la soglia delle certezze rassicuranti e noiose. Vale la pena che ciascuno metta sul tavolo i propri ingredienti (pubblici e privati, comunitari e individuali). Che poi si possa mangiare, va bene. Ma certamente possiamo star sicuri che con la cultura si trasforma la realtà, si moltiplica il valore delle cose e delle idee, si attiva un metabolismo critico infinito. In una parola con la cultura si cucina.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro

Alfred Nobel inventò la dinamite. Poi un giorno morì e lasciò il suo patrimonio di circa 200 milioni di euro a un fondo specifico da distribuire annualmente a coloro che, durante l’anno precedente, avessero contribuito maggiormente al benessere dell’umanità. E da lì tutto ebbe inizio.

Oggi i Premi Nobel sono considerati tra i riconoscimenti più importanti e prestigiosi e probabilmente tutti, almeno da bambini, abbiamo sognato di ottenerne uno. Quantomeno quello per la pace.

Il giro di interessi, economico e mediatico, che gira attorno ai Premi Nobel è vastissimo. Dopo la già avvenuta assegnazione dei Premi Nobel per la medicina, per la fisica e per la chimica, il 10 e l’11 ottobre sarà la volta dei Premi più attesi e discussi, quello per la letteratura e quello per la pace.

Dr. Francis Crick's Nobel Prize Medal on Heritage Auctions
Nobel per la Pace
Il Nobel per la Pace viene assegnato “alla persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace”. Rispetto agli altri Premi, al Nobel per la Pace ci si candida e quest’anno, come è leggibile sul sito ufficiale, è stato raggiunto il record di candidature: 259 di cui 50 da parte di organizzazioni. Sarà il Comitato per il Nobel della Norvegia a scegliere a chi attribuire il Premio. Tra i candidati più in vista ci sono:

malala-yousafzai-ftr1) Malala Yousufzai (La più quotata): è il vessillo dei diritti civili delle donne pachistane, in particolare del loro diritto allo studio, dopo che nel 2012 è stata aggredita dai talebani di ritorno da scuola. Malala, infatti, a soli tredici anni, si occupava di un blog per la BBC nel quale raccontava delle condizioni di vita sotto il regime talebano.

 

 
bradley_manning2) Bradley Manning (L’informatico): ha soli 26 anni eppure ha già messo in grave imbarazzo il governo americano, tanto da guadagnarsi 35 anni di prigione. Il suo reato è stato quello di rilasciare all’organizzazione Wiki Leaks documenti riservati sull’esercito americano in Iraq. È candidato al Nobel perché ha denunciato diversi soprusi da parte dei militari, tra cui omicidi di civili disarmati, ha messo in discussione la politica estera USA, ed è ritenuto una delle ragioni del ritiro degli Stati Uniti dall’Iraq.

 

 
Mukwege4583) Denis Mukwege (Il meno conosciuto): è un ginecologo del Congo che ha curato migliaia di donne vittime di abusi sessuali. Dopo aver pubblicamente condannato l’oltraggiosa impunità delle violenze sessuali nel suo Paese, nel 2012 è scampato ad un tentativo di omicidio.

 

 
lampedusa4) Lampedusa (L’esempio più attuale): tutti sono a conoscenza delle recenti stragi di immigrati, morti nel tentativo di raggiungere le coste dell’isola siciliana. Lampedusa dovrebbe ottenere il Premio Nobel per la Pace perché è esempio quotidiano di fratellanza e solidarietà. Sarebbe anche un buon modo per sensibilizzare l’Unione Europea sulla necessità di intervenire nella questione immigrazione.

 

 

Vladimir Putin5) Putin (L’assurdo): nonostante i diritti civili dei russi siano giornalmente messi in discussione da quello che da molti è considerato un regime a tutti gli effetti, l’“International Academy of Spiritual Unity and Cooperation of Peoples of the World” ha ritenuto opportuno candidare il leader russo al Nobel per la Pace. Il suo merito? Aver scongiurato in maniera decisiva (e disinteressata?) i bombardamenti in Siria e lo scoppio di un’altra guerra internazionale.

 

 

Nobel per la Letteratura:
È il premio più chiacchierato. Assegnato dall’Accademia di Svezia a chi “abbia prodotto il lavoro di tendenza idealistica più notevole”, diventa annualmente mira degli scommettitori più accaniti. L’agenzia di scommesse britannica, Ladbrokers, fornisce una lista degli artisti più quotati.

murakami61) Murakami Haruki (Il più quotato): è lo scrittore giapponese, autore di “Norwegian Wood”, “Kafka sulla spiaggia”, “1Q84”. Da più anni il suo nome gira attorno a quello del Nobel per la Letteratura perché effettivamente ha stregato milioni di lettori con il suo stile onirico, intricato e avvincente.

 

 
Alice-Munro-0052) Alice Munro (La donna): questa scrittrice canadese, ottantenne, è considerata la maggiore autrice di racconti vivente. Le sue raccolte di narrazioni, dal taglio intimista ed emozionale, hanno ottenuto numerosi premi e riconoscimenti da parte della critica. La sua quotazione al secondo posto è molto rilevante se si considera che, dei 109 premiati al Nobel per la Letteratura, solo 12 erano donne.

 

 

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3) Ngugi wa Thiong’o (L’impegnato politicamente): è un eclettico scrittore, poeta e drammaturgo Keniota, considerato uno dei più grandi maestri della letteratura africana. Ha subito arresti e persecuzioni per essersi schierato apertamente contro il governo del suo Paese.

 

 

eco4) Umberto Eco (L’italiano): è il più alto in classifica tra i papabili italiani al Nobel per la Letteratura. Maestro riconosciuto di semiotica, arte e critica letteraria, è uno dei maggiori uomini di cultura in Italia.

 

 

Roberto_Vecchioni5) I cantautori Bob Dylan, Leonard Cohen, Roberto Vecchioni (Gli improbabili): hanno scritto decine di canzoni dai testi immortali. “Buckets of rain”, “Halleluja”, “Samarcanda” sono  canzoni entrate definitivamente nella storia della musica. Eppure, i più considerano eccessiva e fuori luogo un’eventuale assegnazione del Nobel per la Letteratura a questi indiscussi maestri della canzone, perché non ritenuti paragonabili agli altri nomi in lizza.
Staremo a vedere.

Due gambe. Due gambe su un monitor si muovono, camminano, per la precisione. Un chiaro invito ad entrare, penso. Sono fuori la Hugh Lane City Gallery di Dublino, un po’ come se fosse la galleria d’arte comunale della città. L’entrata è gratuita (ne sono sorpresa abituata a pagare “solo” 10-12 euro in città), la struttura è signorile, appartiene alla città, si vede. Le opere si susseguono nella stanze variamente colorate: un cielo di Monet, un tramonto di Turner, qualche astrattista e la strada verso il Novecento (si tratta di una esposizione cronologica) si “compie” con lo studio di Francis Bacon. Una cosa mi è chiara, lui nel caos e disordine ci sguazzava, era il suo habitat, quello che gli permetteva di creare.  Un po’ come il Nietschiano motto che ormai mi fa pensare solo alla Smemoranda o a una canzone di Zucchero “bisogna avere un gran caos dentro di sé per far fiorire una stella che danza”.
Approvo, la “questione” ordine mi riguarda e, anche se la mia stanza non sarà mai esposta, mi sento più vicina a Bacon, senza entrare nel merito del suo essere genio indiscusso della pittura di tutti i tempi.

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Cambio scena.

Un parallelepipedo bianco. Un parallelepipedo bianco in una strada non affollata sta lì. Nulla particolarmente invitante all’entrata. Entrata che, ancora una volta, è libera. E’ la Royal Hibernian Academy. Tre mostre in corso, uno spazio polifunzionale dalle linee e materiali essenziali, semplice e funzionale. Bello. Spicca una mostra su Richter e Sigmar Polke e un’altra sulla pelle, quasi toccante. In alcune foto il dolore delle ferite sulla pelle ritratte è epidermico, nelle scritte di Shrin Neshat invece la pelle diventa tela attraverso cui comunicare. All’uscita c’è un box per le donazioni. Si, hanno proprio meritato una donazione spontanea, pochi euro, è vero. Ma quanto siamo disposti a donare di questi tempi? E’ già molto, credo.

 

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Siamo a Dublino. Prima volta che volo in Irlanda, cerco di cogliere le impressioni della sua scena artistica, ma anche di una città e un paese che, a quanto ho visto attraverso letture e persone, ha molto da offrire soprattutto in termini di valori: genuinità, ospitalità, generosità. Ricordo il discorso di Gabriel in Gente di Dublino “Ogni anno che passa sento con maggiore forza che il nostro paese non ha tradizione che gli faccia tanto onore e che dovrebbe proteggere così gelosamente come quella della sua ospitalità. E’ una tradizione senza eguale per quanto ne abbia esperienza (e sono stato in non pochi posti all’estero) tra le nazioni moderne”. Vedo persone rivolgermi la parola con un sorriso o una battuta, “intromettersi” per consigliare un panino al pub o indicarmi la strada ad un incrocio. Tutto torna.

Quest’anno l’Irlanda detiene la presidenza della Commissione europea e questo favorisce la sua immagine. Grazie ai fondi europei sono migliorate le infrastrutture e anche i settori tradizionali, come agricoltura e allevamento, ne hanno tratto giovamento. E la cultura? Ho tra le mani uno studio. L’impressione che ho avuto dopo appena 48 ore è che non è poi messa così male, guardando i mirabili esempi sopra esposti. Analizzo un studio (1) della EENC (European Expert Network on Culture) datato settembre 2012  . Lo scenario è alquanto negativo

“Ireland is adjusting to a severe recession complicated by banking and fiscal crises […] Until now, there has been no comprehensive research conducted in Ireland focusing on the current state of culture in the framework of the Structural Funds during the support period 2007-2013 […] most notably it has highlighted the fact that the role of arts, culture and the creative industries by EU Structural Funds in the period 2007-2013 is underdeveloped”.

E’ comunque vero che “Culture and creative industries have benefitted in different categories such as innovation and the Knowledge Economy, Sustainable Urban Development, Environment and Accessibility”.

Sono stati finanziati progetti strutturali come il Cork e il Dublin Gateway convertiti in Arts Centre, è stata incentivata la creazione di microimprese culturali come “Designer Dublin“, sono state sostenute le attività di ricerca e catalogazione in ambito culturale per la University College Dublin e il MIC. Tirando le somme dunque la situazione relativa all’utilizzo dei Fondi Europei per la cultura non è esaltante, visto che permangono una serie di aree sulle quali è necessario investire, permane una disomogeneità nella distribuzione dei fondi tra le varie regioni, ed un eccessivo attaccamento alle industrie culturali tradizionali. Nonostante questo, ciò che è stato fatto finora è incoraggiante e  fa ben sperare che la cultura possa diventare un motore di sviluppo anche per la verde Irlanda. Se una comune turista come me ha potuto vedere due mirabili esempi come quelli sopra descritti significa che “chi ben comincia è a metà dell’opera”.

(1) EUROPEAN EXPERT NETWORK ON CULTURE (EENC) – Culture and Structural Funds in Ireland by Gráinne Millar, Sept 2012

cinemaIl 7 agosto 2013 è stata diramata dall’Agis del Lazio la notizia dello stanziamento, da parte della Regione di altri 650mila euro per la digitalizzazione dei cinema. Un intervento che prevede un contributo a schermo pari al 60 % dell’investimento, fino a un massimale di 30mila euro.
Si tratta quindi di un secondo bando regionale a sostegno della digitalizzazione dei cinema non inseriti nel precedente intervento annunciato il 20 giugno (che prevede risorse per 3 milioni di euro), ossia sale parrocchiali e arene.

Secondo l’Anec (l’associazione degli esercenti cinematografici, l’anima più importante all’interno della potente lobby Agis), si tratta di un intervento “particolarmente importante, perché permette di aumentare il numero dei soggetti beneficiari, che, senza la digitalizzazione, avrebbero rischiato di chiudere, con gravi riflessi anche occupazionali”. Da segnalare che, per la prima volta, potranno usufruire dei contributi stanziati dalla Regione Lazio per l’acquisto di impianti (ovvero sistemi e apparecchiature per la proiezione cinematografica digitale) anche le associazioni senza scopo di lucro, le fondazioni (?!), nonché i soggetti non assimilabili al sistema delle piccole-medie imprese (pmi) che gestiscono le “sale della comunità”, le arene e i cinema ambulanti.

Nello specifico, si tratterebbe di 25 arene, 13 sale della comunità, 10 cinema gestiti da associazioni culturali e 5 cine-mobili. Chi scrive quest’articolo è un appassionato cinefilo, ma francamente non ha mai avuto chance di fruire dei… “cine-mobili”, che peraltro – evidentemente – esistono (si pensava fossero un ricordo del passato, ovvero del cinema delle origini, ed invece si scopre con nostalgica lietezza che così non è!). Il giovane Presidente dell’Anec Lazio, Giorgio Ferrero (titolare dell’omonimo Circuito Ferrero, 31 schermi), esulta, ed enfatizza che il bando rappresenta un “unicum” a livello nazionale, perché la Regione Lazio interviene così “organicamente” a sostegno della digitalizzazione su “tutto il sistema dell’offerta”.
Fin qui, l’entusiasmo dei beneficiari, e ben venga. È peraltro ben comprensibile, in questo periodo di vacche magre.

Non entriamo in merito di letture contrastanti delle dinamiche in atto, ma non possiamo non ricordare che il 23 giugno, le lavoratrici e i lavoratori delle 8 sale di Circuito Cinema di Roma (King, Eden, Fiamma, Maestoso, Quattro Fontane, Giulio Cesare, Eurcine, Nuovo Olimpia) hanno scioperato per tutta la giornata contro l’annunciato licenziamento di 23 lavoratori su un totale di 61 occupati nel Circuito. I lavoratori lamentavano che la Regione avesse concesso importanti finanziamenti pubblici, senza confrontarsi anche con le parti sociali, ovvero con i dipendenti, e senza richiedere agli imprenditori alcuna “contropartita occupazionale”. Nello specifico “theatrical”, la modernizzazione del digitale determina effetti paradossali, come la riduzione della forza-lavoro (“è il capitalismo, baby…”?!).

Soffermiamoci piuttosto, ancora una volta, su un discorso “alto”, ovvero sul “senso” strategico di questi interventi (e tralasciamo quell’… “organicamente” ottimista di Ferrero), in chiave critica di politica culturale: domandiamo, ancora una volta, se si tratta di iniziative che sono maturate a seguito di un’analisi attenta dei fabbisogni complessivi del sistema culturale.

Il cinema (inteso come “cinema cinema”, cioè la fruizione “theatrical”) è in crisi, profonda, radicale. A livello nazionale ed ancor più a livello regionale.
Nel 2012, a livello nazionale, sono state 91,3 milioni le presenze in sala, rispetto ai 101,3 milioni del 2011: in un anno soltanto, si sono persi ben 10 milioni di ingressi (si tratta di stime Cinetel, dato che la Siae non ha ancora rivelato i dati definitivi). Basti ricordare che l’Italia ha meno della metà degli spettatori cinematografici della Francia, che ha superato anche nel 2012 la soglia dei 200 milioni di biglietti venduti.
Ci limitiamo a segnalare che, secondo dati elaborati dall’Agis Lazio presentati in occasione di una conferenza stampa del 6 giugno a Roma, tra il 2010-2011 ed il 2011-2012 (“stagione”, concetto peraltro non meglio identificato), il cinema nel Lazio avrebbe registrato questi preoccupanti indicatori negativi: – 15 % di ingressi al botteghino, ovvero – 12 % in volume d’affari. In sostanza, avrebbe perso 1 spettatore su 6 da un anno all’altro. Inquietante.

Il 20 giugno, il Presidente della Regione Nicola Zingaretti e due suoi assessori Lidia Ravera (Cultura) e Guido Fabiani (Sviluppo Economico), avevano già annunciato – con convinto entusiasmo – uno stanziamento da 3,4 milioni di euro per la digitalizzazione. Questa la provenienza annunciata dei fondi pubblici: 3 milioni da fondi Por Fesr Lazio 2007-2013 (ah, benedetta Unione Europea!), e 400mila attraverso il (ora tanto vituperato) Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo (esercizio 2011, quindi evidentemente residui dei famosi “15 milioni l’anno” tanto voluti da Polverini e Santini). Si annunciava che i 400mila erano destinati alle sale di comunità, arene, e cinema minori. Evidentemente – in itinere – sono state reperite risorse per 650mila, a fronte dei 400mila annunciati un mese e mezzo fa. Bene.

I 3 milioni annunciati erano destinati a contributi a fondo perduto, pari al 70 % e con un limite massimo di 200mila euro (non comulabile con il “tax credit” digitale). Fondi erogabili tramite “sportello telematico”, e “fino ad esaurimento risorse”, con la possibilità di anticipo fino al 50 % del contributo. La determinazione n. B02722 è in data 1° luglio, ed è stata pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione il 4 luglio. Il bando è aperto dal 5 luglio fino al 31 dicembre 2013. Sviluppo Lazio (“house provider” regionale) gestisce, nella veste di “organismo intermedio”, la procedura amministrativa.

In quell’occasione, fu segnalato che nel Lazio sono attivi 123 cinematografi, per un totale di 437 schermi.

Di questi, solo 245 sono digitalizzati, ovvero il 56 % del totale. Più esattamente, a Roma, sono 82 i cinematografi, con 333 schermi attivi (208 digitalizzati, ovvero il 62 % del totale), a Frosinone 8 cinema con 24 schermi (8 digitalizzati, 33 % del totale), a Latina 14 con 46 schermi (12 digitalizzati, 26 %) mentre a Viterbo 18 con 29 schermi (12 digitalizzati, 41 %).

Molti temono che dal 1° gennaio 2014 le sale sprovviste di impianto digitale vengano escluse dalla distribuzione, ma – come abbiamo già segnalato su queste colonne – si tratta di uno spauracchio agitato soprattutto dalle “major” americane, e questa dinamica dovrebbe provocare una riflessione seria, anche nel “policy maker”. Almeno per due anni ancora (2014 e 2015), i film nella sacrosanta tradizionale pellicola continueranno ad essere distribuiti, anche perché la digitalizzazione della distribuzione cinematografica è processo complesso e planetario, e procede a macchia di leopardo nelle varie aree del globo. Non risponde a verità, quindi, che, senza questa digitalizzazione, le sale “saranno costrette” a chiudere. Il processo è meno semplice e lineare di quel che alcuni intendo rappresentare.
A fronte di questi numeri preoccupanti, (ci) domandiamo: la Regione Lazio ha effettuato un censimento dell’offerta cinematografica, in funzione delle aree di gravitazione commerciale, cioè secondo le regole essenziali del marketing?
Ed al di là dell’approccio economicista, la Regione Lazio si è posta la questione essenziale dei luoghi di offerta culturale, della loro funzione di strumenti di stimolazione sociale e di aggregazione civile?
Non ci risulta esista una mappatura minimamente accurata ed aggiornata degli spazi culturali nel territorio laziale, con dati essenziali su offerta e domanda ed analisi critica dell’interazione.
Esiste un’anagrafe delle sale cinematografiche che, nel corso degli ultimi anni, sono state chiuse, a Roma ed in tutto il resto del territorio laziale? No.

Quanti sono i Comuni del Lazio che sono cinematograficamente (e teatralmente) desertificati? Non è dato sapere, nemmeno all’Assessore Ravera o al Presidente Zingaretti.
Se siamo di fronte ad una emergenza (e siamo di fronte ad una emergenza, qual è la fruizione dello spettacolo in sala), non sarebbe opportuno destinare risorse anzitutto per avviare la ricostruzione di un tessuto culturale di offerta che mostra deficit inquietanti?! Qual è la gerarchizzazione delle priorità, nella “spending review”?!

Si dirà: “prima la sopravvivenza, ovvero evitare che chiudano altri cinema”. In parte, è giusto. In parte, no. La distribuzione delle sale sul territorio (nel Lazio come ovunque) non risponde necessariamente ad ottimale allocazione dell’offerta in termini di marketing, e quindi, in chiave di lettura squisitamente economica (economicista), è forse abbastanza naturale che “il mercato” (con tutti i suoi deficit) possa determinare alcuni “fallimenti” e quindi – udite udite – anche la chiusura di cinematografi.

La “mano pubblica” deve agire con un approccio altro (ed alto): identificare laddove lo Stato deve intervenire per superare i “fallimenti del mercato”, ma anche per preservare luoghi che hanno caratterizzato e caratterizzano l’identità storico-simbolica di quartieri metropolitani, di paesi e paesini finanche. Preservare quel che potremmo definire il “paesaggio culturale” di metropoli e paesi e finanche borghi: librerie e biblioteche, cinema e teatri, luoghi di spettacolo e cultura di ogni tipo e natura (incluse le botteghe artigianali, che cultura viva ed arte materiale rappresentano).
Intervenire peraltro soltanto sui luoghi dell’offerta (la sala), senza vincolare in qualche modo l’intervento della mano pubblica ad una stimolazione della domanda, è un errore grave: esemplificativamente, basterebbe che, nei bandi, la Regione Lazio richiedesse, tra i pre-requisiti per accedere ai finanziamenti pubblici, l’impegno dei beneficiari a proiettare una qual certa quantità di film italiani ed europei indipendenti e “di qualità” (a proposito di “qualità”, basti pensare – per evitare querelle semantiche – ai titoli di film rientranti nel progetto nazionale, finanziato dal Ministero, “Schermi di qualità”). In questo modo, si andrebbe sostenere (intelligentemente) l’offerta e si stimolerebbe (culturalmente) la domanda, non limitandosi a soltanto consentire ai multiplex dominanti e finanche alle sopravvissute sale parrocchiali di proiettare “digitalmente” (uào!) i film commerciali soprattutto delle “major” americane…

Queste iniziative debbono stimolare una opportuna riflessione sul rischio di paradossi di azioni e finanziamenti che si millantano toccasana, ma poi, a ben vedere, tanto “miracolosi” finiscono per non essere.

Riteniamo che la mano pubblica debba sostenere l’offerta… altra, non quella… dominante: le piccole botteghe artigianali (e non i mega centri commerciali) e le opere “off” (e non quelle “mainstream”). “Indie” ed “off” dovrebbero essere parole-chiavi del linguaggio del “policy maker” illuminato in materia di politica culturale. Vorremmo anche in Italia, e non soltanto in Francia.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

Questa è la storia di una favola che potrebbe diventare realtà. E a cui tutti possiamo partecipare.
Così nasce l’avventura di due ex animatori della Disney, Aaron Blaise e Chuck Williams i quali stanno tentando di finanziare un progetto fantastico, in tutti i sensi, tramite la piattaforma di crowdfunding Kickstarter.

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Già disegnatori di personaggi di successo per Pixar, Walt Disney e Dreamworks (loro i disegni di Pocahontas, Fratello orso, il Re Leone, Alladin , La bella e La Bestia e Mulan), Aaron e Chuck hanno deciso di imbarcarsi in un nuovo progetto, del tutto indipendente dalle grandi case produttrici di cartoni animati.
“Art Story” il titolo del film  che vorrebbero creare, un cartone animato in cui protagonisti sono un curioso ragazzo di 11 anni, Walt, e suo nonno: due personaggi molto diversi per età e attitudini che insieme si ritroveranno ad esplorare il magnifico mondo dell’arte, vestendo i panni dei protagonisti dei grandi capolavori artistici di tutti i tempi.

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“Grazie alla tecnologia unita ai disegni a mano libera – spiegano i due produttori – siamo in grado di ricreare lo stile di grandi artisti come Degas, Roy Lichtenstein, Van Gogh o Michelangelo e quindi inserire Walt e suo nonno all’interno dei principali capolavori realizzati nella storia dell’arte”.

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L’obiettivo? Quello di avvicinare i giovani all’arte, facendoli entrare nelle tele e spiegando loro cosa si cela dietro questi tesori di cui molto spesso non comprendono la grandezza e l’importanza.

Il progetto, che ad oggi ha raggiunto i 35 mila dollari, necessita di circa 300mila dollari per la sua realizzazione. Con il denaro ottenuto tramite il crowdfunding, che comunque non riuscirà a coprire tutte le spese di produzione, Aaaron e Chuck hanno però intenzione di dar vita ad un plot chiaro e definito, ingaggiare uno storico e un critico dell’arte per farsi aiutare nella linearità della storia, realizzare un trailer che illustri il cartone animato e pubblicare un libro per ragazzi.

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Un vero e proprio film collaborativo, non solo per il metodo di finanziamento ma anche per il coinvolgimento richiesto tramite i social network. Sulla pagina Facebook del progetto, infatti, viene richiesto agli utenti di postare il loro dipinto preferito indicando la motivazione della scelta. Chuck e Aaaron si impegneranno a far confluire all’interno del dipinto Walt e suo nonno e ad inserirlo all’interno del cartone.

E voi, cosa aspettate? Vi piacerebbe vedere un cartone animato in cui è l’arte ad esser protagonista? Oppure vi piacerebbe farlo vedere ai vostri figli? Basta anche solo 1 dollaro, che potrete donare qui

[vimeo 70530834 w=500 h=367]

Approfondimenti:
https://twitter.com/artstoryfilm#

 

TITOLOLet’s Lunchlets-lunch3

 

 

COSEAl giorno d’oggi le conoscenze, il network di persone con le quali si interagisce, sono fondamentali, praticamente per qualunque lavoro. Spesso, però, la possibilità di approfondire i contatti, di crearsene di nuovi, di estendere la rete di relazioni lavorative, viene a mancare per ragioni di tempo o semplicemente di opportunità. Ecco che a salvarci interviene Let’s Lunch, sito dedicato alla costruzione di proficue relazioni lavorative… a pranzo! Tramite Let’s Lunch si entra in collegamento con professionisti che possono essere a noi affini per interessi o attività e si organizza un pranzo “di lavoro” insieme. Si coinvolge, così, chi è in cerca di lavoro, chi vuole proporre un progetto per ottenere dei finanziamenti, i recruiter delle aziende che vogliono conoscere con un approccio informale i loro candidati, le imprese che vogliono creare nuove partnership.

 
COMEIl sito è di semplice utilizzo. Una volta iscritti, si connette il profilo LinkedIn o Facebook alla piattaforma, in modo che il sistema possa reperire i dati utili alla nostra profilazione professionale e sociale. Quindi si indicano i giorni in cui si è disposti a dedicare un pausa pranzo ai nuovi incontri e la massima distanza che si può percorrere per spostarsi. Infine, due giorni prima dell’incontro, un’email riepilogativa informa sulla persona che si andrà a conoscere e sui ristoranti in zona che possono essere convenienti per entrambi. Il gioco è fatto. Non resta che andare a pranzo, rendere la conversazione il più possibile proficua, e tornare a lavoro, magari con qualche interessante spunto, affare, o semplicemente piacevole momento da ricordare, in più. L’ultima cosa che resta da fare è inviare un feedback sulla persona conosciuta.
I feedback e i pranzi aumentano, infatti, il “karma sociale” dell’utente di Let’s Lunch, permettendogli di diventare sempre più “appetibile” e richiesto per i prossimi pranzi di lavoro. E’ possibile organizzare incontri a due, o di gruppo, mettere in contatto tra loro utenti che si ritengono affini, rivestendo il ruolo di link builder, prendere parte a dei Gruppi di interesse. Il format è disponibile oltre che a San Francisco e New York, in Italia, Olanda, Spagna, UK, Nuova Zelanda.

 
proÈ un’idea divertente, dinamica e utile per ampliare le conoscenze professionali, all’interno di un ambiente informale che favorisce lo scambio di opinioni e di progetti, senza l’ansia da prestazione di un colloquio, o di un incontro ufficiali.

 

 

CONTROLa pausa pranzo dura davvero poco, e il range di persone interessanti da conoscere nel raggio di qualche chilometro, prima o poi potrebbe esaurirsi.

 

 

SEGNI PARTICOLARILet’s Lunch nasce nel fermento creativo e produttivo della Silicon Valley, a San Francisco. A capo del progetto ci sono un indiano, Syed Shuttari, un americano, Ryan Hoover, e un italiano, Daniele Bianca. Tutti e tre sono giovanissimi e super intenzionati ad espandere ancora di più il loro progetto, che in soli due anni ha già ottenuto un notevole successo.

 

 

CONSIGLIATO AChi si annoia durante la pausa pranzo, chi ama discutere d’affari in maniera rilassata e informale, chi pensa che ogni occasione è buona per intessere relazioni con professionisti interessanti, e chissà, forse anche ai cuori solitari.

 

 

INFO UTILIletslunch.com

Per una volta non sono stati gli atenei italiani ad analizzare, esaminare, valutare. Il maestro si è trasformato in scolaro e le 133 strutture sparse sul territorio italiano, tra università ed enti di ricerca, sono state oggetto di indagine da parte dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione, nata nel 2006. Ci sono voluti 20 mesi perché 14.770 revisori concludessero la monumentale opera di valutazione che per la prima volta ha messo sotto esame la produttività della ricerca degli atenei italiani (progetto VQR).

Sono state considerate 14 aree scientifiche e per ogni struttura sono stati tenuti in conto 7 indicatori che si riferiscono a fattori come la qualità della ricerca, la capacità di attrarre risorse o l’internazionalizzazione; e altri 8 indicatori relativi, invece, alla capacità di relazione, connessione e valorizzazione del contesto socio-economico.

Per quanto riguarda i 95 atenei italiani, è stata fatta una distinzione in base a grandi, medie, piccole università e la posizione di ciascun ateneo in graduatoria è stato determinato da un valore medio tra tutte le aree considerate. Ai primi posti tra le grandi università figurano: Padova, Milano Bicocca, Verona, Bologna, Pavia. Le prime 5 classificate delle medie università sono state: Trento, Bolzano, Ferrara, Milano San Raffaele, Piemonte Orientale e Venezia Ca’ Foscari. Infine, tra gli atenei più piccoli, spiccano Pisa Sant’Anna, Pisa Normale, Roma Luiss, Trieste Sissa, Roma Biomedico. Se si considerano, invece, le classifiche “tematiche”, per le Scienze matematiche e informatiche abbiamo nell’ordine: Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata, Pisa. Per le Scienze economiche e statistiche: Padova, Milano Bocconi, Bologna. Per le Scienze dell’antichità, letterarie, artistiche: Padova, Milano Politecnico e Bologna. Per le Scienze giuridiche: Trento, Padova, Verona.

Come si può ben notare, la vittoria degli atenei del nord su quelli del sud e del centro è quasi schiacciante. Roma La Sapienza, nella classifica generale, è solo al 22° posto e il consiglio nazionale delle ricerche, il CNR, è risultato il grande assente dalle classifiche Anvur. Le Università di Catania e Palermo sono al 30° e al 31° posto, Bari e Cagliari al 26° e 27° posto, mentre risalgono un po’ la china solo Catanzaro, Napoli e Salerno che si attestano più o meno a metà classifica.

Alla luce di ciò, non sono mancate le polemiche, specialmente se si considera che tra i 6,69 miliardi di euro che il Miur ha stanziato per la ricerca nelle università, 540 milioni, cioè il 7%, dovrebbero essere distribuiti in base al merito, ovvero proprio in base ai risultati di questa ricerca. Il Cnr, ad esempio, si giustifica sostenendo che il centro privilegia i rapporti con il mondo delle aziende e l’interdisciplinarità, mentre la valutazione dell’Anvur ha messo in luce gli atenei che si occupano principalmente di ricerca pura. C’è anche da dire, poi, che l’indagine è stata compiuta per gli anni dal 2004 al 2010, escludendo per forza di cose, risultati importanti come quello dell’Istituto nazionale di fisica nucleare che nel 2012 è stato coinvolto nella scoperta del bosone di Higgs.

Certo è che si tratta di un momento significativo e importante per l’università e la ricerca italiana. Il fatto che si parli di questi due settori, a lungo ignorati o deprecati, e che si investano 10 milioni di euro per istituire un agenzia (l’Anvur appunto) che ne monitori lo stato di salute, è sicuramente un passo avanti positivo. Forse il passo successivo, quello di stanziare parte di fondi in base ai risultati di questa classifica, necessita di un altro po’ di rodaggio per essere effettuato. Bisognerebbe prima capire tutte le sfaccettature della ricerca, delle sue applicazioni e della sua produttività. E magari evitare il rischio di affondare ancora di più quegli atenei che sono già in fondo alle classifiche, e che, pur non essendo prestigiosi, garantiscono però una distribuzione democratica dell’accesso al sapere nel nostro Paese.

D’altra parte persino dall’Anvur giunge la necessità di cautela nell’applicare ai risultati della ricerca una distribuzione delle risorse, nonostante l’esito incoraggiante e positivo del loro lavoro: “crediamo che la VQR dispiegherà i suoi effetti benefici nei mesi e negli anni a venire se i suoi risultati saranno studiati nel dettaglio e analizzati con attenzione, e utilizzati dagli organi di governo delle strutture per avviare azioni conseguenti di miglioramento. Un segnale incoraggiante è lo spirito di grande interesse e collaborazione con l’ANVUR delle strutture valutate, per le quali la VQR ha richiesto lavoro e impegno in un momento di grande trasformazione e difficoltà (in particolare per le università)”.

icsDire ICS, in riferimento allo sport, fa pensare al pareggio qualsiasi appassionato di calcio.
Eppure non parleremo qui di pareggio (anzi, forse di una sconfitta) bensì di un acronimo, quello dell‘Istituto del Credito Sportivo, ultima banca pubblica italiana la cui funzione principale, come intuibile dal nome, è quella di erogare finanziamenti al settore sportivo, sostenendo interventi mirati alla costruzione, ampliamento, acquisto di strutture e attrezzature sportive o iniziative di promozione legate allo sport.
La Legge Finanziaria del 2004 ha disciplinato l’ampliamento della sua sfera di competenza anche ai Beni e alle Attività Culturali anche se, c’è da dirlo, le azioni intraprese in questo campo sono state finora limitate alla sponsorizzazione del Padiglione Italiano Expo Universale di Shanghai e a quella di DNA ITALIA, Salone delle Tecniche e Tecnologie per la Cultura.
Ma non è questa di certo la critica che recentemente è stata rivolta verso l’Istituto: il motivo per cui l’ICS è balzato agli onori (?) della cronaca è l’indagine della Corte dei Conti sulle anomalie riscontrate in fatto di ripartizioni degli utili.
Facciamo un passo indietro: l’istituto del Credito Sportivo è ad oggi finanziato sia da soggetti privati (soprattutto altre banche) sia (prevalentemente) dallo Stato attraverso i ricavi dei Concorsi Pronostici (le “nostre” scommesse).

Nel 2004, in occasione della modifica dello Statuto operato da Mibac e Mef, si è cercato di soddisfare la richiesta di maggior rappresentanza per gli enti locali ed è stato inoltre variato il sistema di ripartizione degli utili.
Il risultato di questa modifica è che lo Stato, a fronte di conferimenti di quasi 60 milioni di euro nel periodo 2005-2010, ha avuto indietro solo 2 milioni e 800 euro, mentre le altre banche si sono spartite più di 80 milioni di euro nonostante avessero versato decisamente meno del Pubblico.

Una anomalia che ha tutta l’aria di non essere una svista e notata solo a causa del commissariamento (partito nel 2011) da parte della Banca d’Italia, dalla quale sono partite una serie di segnalazioni a livello ministeriale.

A questa andrebbero poi accostate altre “stranezze” che vedono protagonista l’Istituto: come i prestiti e gli interessi a tassi particolarmente competitivi a comparti, come quello calcistico ad esempio, che di certo non sono tra coloro che necessitano di maggiori tutele assistenziali.
In tutto ciò, il fatto che per definire la situazione si faccia ricorso a termini quali “svista”, “anomalia” o a locuzioni come “si sono accorti” risulta quanto meno inquietante.

Mettere il sale nel caffè al posto dello zucchero è una svista, trovare quel caffè comunque di proprio gusto è una anomalia. Sorseggiarlo tranquillamente mentre magari si dirottano 80 milioni di euro, però, è sicuramente anti-sportivo.

Per approfondire:
http://www.mondoeconomia.com/la-corte-dei-conti-indaga-sull-ics
http://www.repubblica.it/economia/2013/07/02/news/indagine_della_corte_dei_conti_sull_istituto_di_credito_sportivo-62227573/
http://www.gioconews.it/cronache/70-generale20/36966-che-fine-han-fatto-i-proventi-dal-gioco-indagine-della-corte-dei-conti-sull-istituto-di-credito-sportivo
http://www.corriere.it/notizie-ultima-ora/Economia/Credito-Sportivo-governo-Monti-azzera-statuto-scontro-banche/22-04-2013/1-A_006063140.shtml

stampaeditStoricamente beneficiario di contributi pubblici, il settore della carta stampata vive oggi una fase di profonda crisi: posti di lavoro a rischio, copie invendute, nuove tecnologie e sviluppo dell’editoria digitale che ogni giorno attrae nuovi utenti.

Lo stato di crisi, si potrebbe pensare, rende più che mai necessario l’intervento pubblico. Ma è davvero così? Il sostegno economico destinato dallo stato per oltre mezzo secolo all’editoria quotidiana e periodica cartacea ha davvero garantito il pluralismo dell’informazione o ha semplicemente favorito la sopravvivenza di soggetti che altrimenti con le proprie forze non ce l’avrebbero fatta?

Per capire occorre quantificare. Se definire i contributi indiretti, tra i quali si annovera la riduzione dell’Iva al 4% per quotidiani cartacei (ma anche libri e periodici), appare più complesso, il dato relativo ai contributi diretti è di più agevole reperimento.

Nel 2010 il contributo pubblico è ammontato a circa 140 milioni di euro, nel 2012 la cifra messa a disposizione è pari a 120 milioni, mentre i finanziamenti stanziati per il 2013 sono di circa 95 milioni di euro. Ma a chi sono andati questi aiuti?
Ce lo dice il Dipartimento per l’informazione e l’editoria. I dati, aggiornati al 2011, distinguendo tra le categorie finanziabili, annoverano nomi noti quali Il Foglio (2.251.696 euro), Il Manifesto (2.598.362 euro), Avvenire (3.769.672 euro), ma anche una folta schiera di testate poco conosciute. Significativa la circostanza che si continuino a finanziare anche in modo indiretto “organi di partiti e movimenti politici” a discapito di una decisione referendaria a ciò contraria.

I criteri di selezione?
Se fino a poco tempo addietro non erano in alcun modo connessi alle vendite effettuate e rendicontate, recente è l’introduzione di parametri a ciò connessi e resi più stringenti dal Decreto Legge n. 63/2012, convertito con modificazioni con legge il 16 luglio 2012, n. 103. Un minimo confronto con il mercato. Questo il punto.

Cosa succederebbe se queste risorse venissero meno come progressivamente sta già accadendo e come già avviene per le testate digitali che di nessun contributo hanno mai beneficiato?
Il confronto con il mercato sarebbe inevitabile; trovare modelli alternativi di business una necessità; l’indipendenza, la trasparenza e la qualità requisiti diverrebbero le caratteristiche fondamentali per conquistare i lettori.

 

Stefano Monti è direttore editoriale di Tafter

 

Stanno facendo molto discutere in questi giorni le conclusioni di un corposo rapporto (il cosiddetto “Rapporto Lescure”) contenente 75 proposte legislative per preservare e finanziare la produzione culturale francese. Dopo 10 mesi di lavoro, la Commissione di saggi guidata da Lescure (che è un giornalista, manager, fondatore di Canal Plus e da cinque anni direttore del Théâtre Marigny) ha consegnato al Presidente Hollande lo scorso 13 maggio le proposte finali per mettere al passo con i tempi di Internet e dei mercati digitali globalizzati la cosiddetta “eccezione culturale”, cioè l’idea difesa per la prima volta dalla Francia durante i negoziati dell’Uruguay Round del 1993 che i prodotti culturali non possano essere considerati una merce come le altre (e figurarsi i prodotti culturali francesi…) ma hanno bisogno di regole ad hoc (non importa se protezionistiche o basate su sovvenzioni pubbliche..)

Tra le novità più rilevanti, una sorta di “I-Tax” da applicare a tablet, smartphone e prodotti tecnologici per finanziare la produzione culturale della Francia. Ovviamente siamo al momento solo allo stadio embrionale di proposta, dovendo cominciare – ove politicamente approvata– il lungo percorso parlamentare di una iniziativa di legge vera e propria che traduca politicamente e legislativamente la proposta Lescure. Ma è interessante analizzare alcuni aspetti. In primo luogo il presupposto logico: si legge nel Rapporto Lescure che “molti francesi esitano a comprare legalmente un Cd musicale a 9,9 euro mentre sono pronti a spendere da 300 a 800 euro per iPad o smartphone”. Questa considerazione psico-sociologica basta da sola a fare esprimere ai saggi (e ad una parte già cospicua della maggioranza: l’idea di una I-Tax è stata fortemente criticata dalla destra ma ha trovato l’immediato sostegno del Ministro della Comunicazione, Aurélie Filippetti) un favor verso il nuovo balzello digitale.

Andando oltre il dato politico, di costume e di polemica che in Rete si è già scatenata, occorre soffermare l’analisi su un secondo aspetto più tecnico: che rapporto c’è tra una eventuale I-Tax che Google, Amazon, Apple, Samsung dovrebbero pagare sulla produzione di prodotti tecnologici e la legge già esistente che impone (in tutta la Unione Europea) il pagamento di un equo compenso sulla copia privata? Come è noto la Direttiva 2001/29/Ce Del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 Maggio 2001 sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione ha introdotto l’equo compenso per la copia privata (in Italia la legge sul Diritto d’autore n. 633/1941 è stata emendata in recepimento della Direttiva 29/2001). In sostanza, è stata introdotta da anni una tassazione costituita da una quota di prezzo che il consumatore paga come extra su qualsiasi device che abbia capacità di archiviazione e di riproduzione di dati e contenuti audiovisivi (memorie di massa, Cd, Dvd, chiavette USB, hard disk esterni, memory card, lettori Mp3, smartphone per finire a tablet e PC, etc). L’equo compenso per copia privata sarebbe concepito per fornire un indennizzo ai titolari dei diritti d’autore persi a causa delle copie pirata; viene infatti raccolto dalla SIAE e ridistribuito agli artisti.

Il Regolamento attuativo in Italia (il Regolamento del Ministero dei Beni e Attività Culturali del 30 Dicembre 2009) ha dato vita a forti polemiche, sia per la ricaduta economica sui produttori e sul mercato, sia per questioni di principio: ci si ritrova di fatto a pagare in anticipo su una perdita di introiti presunta (per l’autore), e oltretutto senza distinzioni fra chi sul disco fisso ci salva contenuti legittimi e chi materiali in violazione del copyright. Ma torniamo alla Francia: anche quello Stato ha recepito la Direttiva UE del 2001 e dopo lunghe battaglie nel mese di Luglio 2012 la legge francese del 2 Dicembre 2011 sulla copia privata ha ricevuto il definitivo ok dal Consiglio costituzionale che ha confermato così che solo i professionisti non saranno assoggettati al tributo destinato a compensare la copia privata.

Dunque la I-Tax non sarebbe affatto una nuova tassa, anzi: il Ministro della Comunicazione Aurélie Filippetti ha affermato che questo tributo compreso tra l’1 e il 3% sarà altresì l’occasione “per rivedere, sostituire e ammodernare il compenso sulla copia privata”. Dunque sembra tanto rumore per nulla …

Più interessante, invece, l’altra parte del Rapporto Lescure che propone di ribaltare completamente l’approccio (diremmo cultura-le…) del Legislatore francese alla lotta alla pirateria e le prospettive di regolamentazione e tutela del Copyright nella Società dell’Informazione Globale, passando dalla linea repressiva di Sarkozy ad una nuova strategia commercial-liberale. Attualmente in Francia (per la famosa legge Hadopi) si può arrivare a interrompere l’accesso a Internet dell’internauta che abbia scaricato illegalmente materiali protetti dal diritti d’autore e a una multa che può toccare, nel caso in cui l’utente ritorni a scaricare illegalmente dopo una prima volta, i 1.500 euro. Questa ammenda, secondo il rapporto Lescure, dovrebbe essere ridotta a 60 euro. Il Rapporto propone inoltre lo smantellamento dell’Hadopi (sulla cui omonima legge si scatenò in Francia una battaglia politico-legale senza quartiere di cui ancora si avvertono gli echi): la legge e l’organismo che doveva fungere da “sceriffo della rete” si sono rivelati un completo fallimento (e invece questa stessa strada si vorrebbe percorrere ora in Italia attribuendo all’AGCOM – autorità amministrativa – il compito di vigilare e reprimere le violazioni in Rete del Copyright…).

Evidentemente la lungimiranza non è pregio comune dei politici: anche quelli francesi scoprono solo ora (ci voleva forse un corposo rapporto o bastava la logica??) che una efficace lotta alla pirateria passa non per l’inasprimento di pene e per (impossibili) controlli tecnici di una Rete in continua evoluzione, ma può essere vincente solo se si rende economicamente non conveniente l’attività illegale di download di contenuti protetti (abbassando i prezzi, educando il consumatore, facendo campagne informative mirate, riducendo i tempi tra uscita al cinema dei film ed entrata nel circuito commerciale, e così via).

 

Alessandro del Ninno è avvocato presso la Tonucci &Partners e professore universitario

 

L’incendio che ha distrutto la Città della Scienza di Napoli ha lasciato tutti di sasso. Dopo ormai più di tre mesi, si parla di un piano per ricostruire questo importante spazio culturale, ma i punti interrogativi sono molti per una vicenda che appare davvero complessa. Ci spiega il suo punto di vista Daniele Pitteri, giornalista e docente napoletano, che di tale questione parla da cittadino ed esperto culturale.

 

La Città della Scienza è caduta tra le fiamme di un rogo doloso. Che idea si è fatto riguardo il movente di tale azione?
Questo sinceramente proprio non lo so. Mi pare appurato il fatto che l’incendio sia stato doloso, anche a quanto si apprende dalle cronache. Quella di Bagnoli è una zona particolare dove sono accaduti già in passato episodi strani, ma mai a questo livello. Non saprei dire se si tratta di malavita organizzata, di qualche piccolo gruppo locale con interessi particolari, come lo sfruttamento della spiaggia. Ma non mi posso sbilanciare.

Quale valore ha per Napoli la Città della Scienza?
Non c’è dubbio che la Città della Scienza abbia rappresentato sin dagli inizi, quando nacque l’evento Futuro Remoto, da cui poi è scaturita l’idea di una Città della Scienza come luogo permanente, l’intrusione positiva della tecnologia e delle scienze nel contesto napoletano, aperto ad un pubblico vasto. I cittadini si sono poco alla volta abituati, attraverso Futuro Remoto prima e la Città della Scienza poi, ad avere un rapporto con queste tematiche sicuramente diverso rispetto al passato. Testimoni di ciò sono soprattutto le scolaresche e i bambini, essendosi formati attraverso la Città della Scienza, divenuto elemento fondamentale della loro crescita e sviluppo.
Questo spazio ha dunque un grande valore simbolico, poiché ha contribuito ad educare le generazioni future che tra qualche anno entreranno nel mondo del lavoro e si assumeranno determinate responsabilità.
C’è da dire che Napoli vanta in realtà una presenza cospicua di scienza, ma non è mai stata percepita: abbiamo il MARS, la stazione zoologica Anton Dohrn, c’è una forte tradizione di ricerca, ma trattandosi di laboratori specialistici e avanzati, sono sempre risultati poco noti. Con la Città della Scienza c’è stata invece una volontà di comunicare e far incontrare tale tematiche alla cittadinanza.

Come giudica le iniziative volte a raccogliere fondi per la ricostruzione?
Sicuramente c’è stata una corsa alla solidarietà. Sono state molte le iniziative e tante sono ancora in corso, attivate da molte parti. Devo dire che, essendo stata una ferita per il cuore di Napoli, i cittadini hanno per primi organizzato manifestazioni sul luogo del rogo, da cui hanno preso via diverse raccolte fondi. C’è stato un grande impegno da parte di tanti soggetti anche diversi tra loro. Sinceramente però ritengo che un luogo come la Città della Scienza non debba essere ricostruito attraverso finanziamenti volontari, ma deve essere una priorità dell’ente di governo, e non tanto di quelli locali, ma di quello nazionale.
Va bene che cominci a diffondersi nel nostro Paese l’idea che si possa sostenere dal basso, attraverso il proprio contributo, anche economico, la costruzione e il mantenimento di luoghi di cultura, ma non è questo il caso. Qui è evidente che la raccolta fondi è tutto basata sulla spinta solidaristica ed emozionale, e non può essere l’unica soluzione.

La commissione interistituzionale preposta ha avanzato l’ipotesi di una ricostruzione mista per questo spazio, edificando in parte su aree già presenti e in parte su nuove mai edificate, al fianco del Museo Corporea. Ritiene che sia effettivamente la soluzione da preferire? Che ne sarà dello spazio delle ex acciaierie?
La questione è molto complessa perché la Città della Scienza è indubbiamente legata a quel luogo di Napoli, e dunque ha una forte localizzazione: è l’unica testimonianza di trasformazione da 25 anni, avendo visto la conversione di quella che era un’area industriale di Bagnoli, dove risiedevano le fabbriche dell’Italsider, in una realtà culturale.
In realtà la Città della Scienza non doveva trovarsi lì perché non previsto dal Piano Regolatore, tanto che inizialmente si parlava di una collocazione provvisoria.
Nella zona di Bagnoli persiste poi un problema di bonifica, sul lato mare, andando verso nord. C’è inoltre una società di gestione che è Bagnoli Futura, ora in dismissione, con buchi di bilancio gravi, la quale ha seguito attività di recupero sulle ex-aree industriali, che tuttavia non sono andate in porto. C’è un grande auditorium mai entrato in funzione, come del resto la spa; si è conclusa la ristrutturazione di grandi settori che dovrebbero essere adibiti ad acquario per specie marine, ma è rimasto tutto fermo: la gara è andata deserta perché è folle la cifra richiesta per dare in concessione gli spazi, per di più per un tempo brevissimo.
C’è un sistema complessivo della zona che va ripensato, prendendosi responsabilità serie: basti pensare che alcune bonifiche sono state interrotte perché gli operatori locali dovevano aprire gli stabilimenti balneari, lì dove non era possibile a causa delle sabbie inquinate.
E’ fuor di dubbio che un pensiero strategico su quell’area comprenda anche decisioni inerenti la Città della Scienza: è bene dunque seguire vie coordinate. Non ha senso scindere il destino del museo con quello dell’area. Alcuni errori fatti nel passato dovrebbero essere ora, in queste circostanze sfortunate, corretti.

La ricostruzione sarà un grande banco di prova per Napoli, per gli enti locali e le istituzioni preposte. Pensa che saranno in grado di cogliere la sfida?
La ricostruzione della Città della Scienza, anche per come è stata distrutta, deve essere una priorità nazionale dello Stato italiano, sebbene sicuramente in collaborazione con gli enti locali.
Purtroppo però così non sarà, perché sappiamo che l’attenzione degli ultimi governi, e questo nuovo non mi sembra distanziarsene troppo, è bassa nei confronti della cultura: continueremo ad avere quello 0,2% del PIL rivolto al settore. Questo mi lascia poco speranzoso che una ricostruzione della Città della Scienza avverrà presto e in modo corretto.
Gli enti locali poi non hanno un’idea di politica culturale: il Comune di Napoli e la Regione Campania seguono indirizzi anche conflittuali tra loro. Il sindaco De Magistris ha dimostrato di non avere una visione al riguardo perché di fatto ci troviamo con un’amministrazione comunale schizzofrenica che punta tutto in maniera non programmatica, su eventi singoli come l’America’s Cup, il Giro d’Italia, facendo investimenti che non rimangono a livello infrastrutturale sul territorio. Dall’altra parte c’è un assessore alla cultura, con ben poca voce in capitolo, che invece pensa ad un’azione di coinvolgimento della cittadinanza dal basso, interpellando direttamente gli operatori, ma che si scontra con il sindaco.
Temo dunque che le istituzioni non saranno in grado di ricostruire la Città della Scienza, la quale si rivelerà l’ennesimo fallimento. Le estreme difficoltà economiche inducono inoltre a non prospettarsi nulla di buono.

Non c’è il pericolo che avvenga un’intromissione della malavita organizzata nella ricostruzione della Città della Scienza?
Questo è un rischio costante. La camorra bada soprattutto a fare business, piuttosto che a controllare il territorio, perciò un’operazione del genere, se mai ci fossero soldi, farà gola.
Il motivo del rogo non lo conosco, ma molti sono i punti interrogativi, alcuni davvero assurdi: c’è chi persino parla che possa essere stato qualcuno dall’interno, visto che il personale non percepiva da tempo gli stipendi e c’erano malcontenti. La situazione è davvero ingarbugliata. Non sto manifestando alcun sospetto, ma sto dicendo che sul nostro territorio si sono verificate strane connivenze tra diverse componenti, di tipo sociale, politico, ecc, teoricamente lontanissime dalla matrice malavitosa, in cui però si sono manifestate intrusioni e collaborazioni. Purtroppo siamo dinnanzi ad una serie di scenari molto aperti e variegati.
Dal punto di vista civico è dilaniante, perché non ci si può affidare alle iniziative dei singoli.
La Città della Scienza ha avuto come promotore principale un uomo, lo scienziato Silvestrini, da molti ritenuto ingombrante, che però, grazie alla sua capacità di relazione, ha saputo mettere a tavolino diverse parti istituzionali, contribuendo alla nascita di questo spazio. Le capacità di dialogo che questa organizzazione, con il tempo, è riuscita a creare, sono l’unica speranza che possa rinascere qualcosa di buono con un minimo di senso. Da un punto di vista istituzionale sarebbe però un altro fallimento, perché vorrebbe dire che gli organismi di governo sono incapaci di agire da sé.

 

Chi ha detto che con la cultura non si mangia, si sbaglia. Lo dimostra il food raising -si scrive così, in assonanza con il fund raising-, un sistema di finanziamento dal basso che raccoglie fondi per sostenere progetti culturali attraverso l’organizzazione di pranzi e cene.
L’idea nasce nel 2007 a Chicago, dal collettivo Incubate, che lanciò le Sunday Soup, pranzi domenicali nei quali un gruppo libero di partecipanti si raduna per condividere il pasto e per votare una serie di progetti culturali e artistici. Chi raccoglie il maggior numero di consensi ottiene il ricavato del pranzo, al netto delle spese per le materie prime, e può realizzare la propria proposta.
Il format ha subito riscosso un notevole successo ed è stato esportato in tutto il mondo, tanto che oggi gode di un network globale.
Nel nostro Paese si è diffuso grazie a Katia Meneghini, coordinatrice dello studio milanese di design Cntrlzak, che ha dato vita, per l’occasione, a Tavola Periodica. La piattaforma ha sviluppato, in location e città sempre diverse -da Milano a Siracusa-, brunch domenicali ad ingresso libero. In ciascun luogo si è guardato alle esigenze locali, raccogliendo e selezionando quei progetti di artisti o di creativi che proponessero una ricaduta positiva sul territorio.
I potenziali fruitori possono partecipare al pranzo come commensali con una quota minima di 20 euro e assegnare il proprio voto al progetto che preferiscono. Il numero ridotto di partecipanti, tra le 50 e le 90 persone, non favorisce un ricavato in grado di coprire tutte le spese per la realizzazione dei progetti, ma garantisce comunque una fonte di finanziamento, oltre a creare una rete di contatti e a inaugurare spazi in cui la discussione e il confronto si uniscono alla convivialità.
Un simile esperimento si è verificato anche a Bologna con Cosa bolle in pentola?, una rete locale nata in seno all’organizzazione culturale Ossigeno, che ha fatto della sostenibilità la chiave di volta della propria attività. Le iniziative, temporaneamente sospese nell’attesa che nuove forze si uniscano al collettivo, fino all’anno scorso riscuotevano il successo di un pubblico ampio sia per la qualità delle pietanze, realizzate con materie prime a chilometro zero, sia per i progetti, vicini alle esigenze del territorio. Le proposte premiate rispondevano infatti a criteri di sostenibilità, coinvolgimento della comunità e miglioramento delle condizioni di vita. Tra i vincitori Trame Urbane, progetto di Guerrilla Gardening, o Film Voices, servizio che aiuta i non vedenti a fruire di film attraverso il racconto orale.
Queste iniziative che dialogano con il territorio si rivelano alternative valide nel momento economico attuale, in cui il contributo pubblico alle sperimentazioni artistiche è scarso e il supporto privato viene per lo più indirizzato al finanziamento di strutture già istituzionalizzate. Il food raising trova al contrario la sua specificità nella partecipazione collettiva di un’utenza diversificata e stimola la creatività di chi vi prende parte tramite processi informali di socializzazione e coinvolgimento. Se da un lato cerca di far muovere risorse, dall’altro costruisce rapporti e legami tra persone e si dimostra piattaforma di condivisione comunicativa e collaborativa. Un modello che può e deve trovare maggiore spazio nel nostro Paese, non solo per ragioni di opportunità e contingenza, ma proprio in virtù del fatto che la cultura del cibo e dello stare insieme a tavola è qui di casa.

 

Due vicende importanti stanno cambiando il panorama dell’editoria nel nostro paese: la prima rappresenta l’estrema conseguenza di una crisi del settore inarrestabile dal 2008 ad oggi, che sta portando ad un abbandono sempre più consistente del quotidiano cartaceo in favore dell’informazione online, fruibile nella maggioranza dei casi gratuitamente. La seconda, invece riguarda l’effettivo passaggio di consegne della presidenza del Gruppo L’Espresso, da Carlo De Bendetti ai suoi tre rampolli.

Così dopo anni di bilanci inattivi e di redazioni in sofferenza economica, nonostante i sostanziosi contribuiti pubblici versati ogni anno all’editoria, l’ultima vittima illustre dei tagli al settore e del calo delle vendite sarà la casa editrice che stampa il quotidiano italiano più antico: la Rcs Media Group, comprendente il settore quotidiani, periodici e pubblicità del gruppo, ha annunciato infatti, per bocca del suo nuovo amministratore delegato Pietro Scott Jovane, un piano di ristrutturazione per rientrare dal deficit di 880 milioni di euro. Saranno 800, quindi, i giornalisti e poligrafici che verranno licenziati (640 in Italia e il restante in Spagna, dove Rcs edita El Mundo), sarà abbandonata la storica sede di via Solferino, dove ha sede la redazione del CorSera, e saranno chiuse le redazioni di 8 testate, tra cui A, Bravacasa, Yacht & Sail, Max, Europeo, Astra, Novella, Visto, Ok Salute.

Una situazione desolante, cui i giornalisti hanno risposto con due giorni di sciopero (questo mercoledì e giovedì il Corriere non è uscito) e con tre comunicati sindacali in cui hanno accusato la direzione manageriale di aver sperperato milioni nell’acquisto di Recoletos, gruppo multimediale spagnolo che edita El Mundo, e aver elargito buone uscite agli stessi manager che hanno portato il gruppo a chiudere il bilancio in forte passivo, attraverso azioni sconsiderate, non tenendo conto delle possibili conseguenze.

Il gruppo Rcs è composto da un azionariato molto composito e diversificato:

-il 14 % è in mano a MedioBanca

-il 10% a Fiat e alla famiglia Agnelli

-il 7% a Giuseppe Rotelli

-il 5% a Dorint Holding di Diego della Valle

-il 5% a Pirelli di Marco Trochetti Provera

-il 5% al Gruppo Benedetton

-il 5% a Banca Intesa San Paolo

-il 4% ad Assicurazioni Generali

-il 3% a Banco popolare

-il 3% a Gruppo UBS

-il 2% al Gruppo Merloni

Questa ripartizione frammentaria è stata controbilanciata da una politica che prevede la necessità della maggioranza assoluta dei membri in carica per approvare qualsiasi decisione, a prescindere da quale sia la loro percentuale azionaria.

Atmosfera completamente diversa quella che si respira nella sede della Società Editoriale L’Espresso, fondata e gestita, sin dalla sua fondazione avvenuta nel 1955, da Adriano Olivetti coadiuvato da Arrigo De Benedetti ed Eugenio Scalfari. Carlo De Benedetti ha ufficializzato il passaggio di testimone della Cir- Cofide, le holding di famiglia azionista di maggioranza della casa editrice del quotidiano Repubblica, ai suoi tre figli. Rodolfo, il primogenito già amministratore delegato da 18 anni della Cir ne assumerà la presidenza esecutiva e sarà affiancato da Monica Morandini, che occuperà così la doppia carica di amministratore delegato al Cir oltre a quella che già ricopre nel Gruppo L’Espresso. L’ingegnere De Benedetti ha chiuso i bilanci del 2012 con un debito di 278 milioni bilanciati da una liquidità di 133 milioni. Pur avendo una tiratura minore rispetto a quella del venerando Corsera, Repubblica rimane il primo quotidiano letto in Italia (3milioni 523 mila lettori rispetto ai 3 milioni 340 mila del Corriere) e dal 1976 si è guadagnato, grazie ad iniziative guida nel campo del web, sempre più spazio soprattutto tra le giovani generazioni.

I tre rampolli De Benedetti stanno ereditando dal padre, che rimarrà presidente onorario per assumere la carica di editore puro, una rarità nel nostro paese, un impero editoriale che, nonostante la crisi della carta stampata, grazie a Repubblica online, attivo dal 1996, ed esperimenti come la piattaforma Kataweb, continua a macinare numeri a discapito dell’autorevole Corriere.

Forse la storia parallela di queste due realtà editoriali dimostra ancora una volta che le aziende a conduzione familiare, tramandate nel corso delle generazioni, vengono gestite con maggiore attenzione nel rispetto delle tradizioni.

Non a caso, l’unico che in questi giorni si è recato a trovare l’ex editore del Corriere, accusato di bancarotta ed implicazioni con la P2, Angelo Rizzoli, infermo nel letto del padiglione penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, a causa della sua sclerosi multipla degenerativa, è stato il giornalista di Repubblica, Corrado Zunino.

 

Tempi di crisi, tempi di tagli e di sacrifici. Manca il lavoro, mancano i finanziamenti per portare avanti le attività d’impresa, manca la fiducia nel futuro e non si scommette più nella ripresa e nel domani delle nuove generazioni. In questo scenario sconfortante, forse pochi di voi sapranno che in questi giorni la Commissione UE e gli Stati Membri stanno discutendo l’entità degli stanziamenti per il “Fondo strutturale europeo 2014-2020”. Si tratta di un fondo previsto e distribuito su base pluriennale, che apporta una buona liquidità per tutti quei progetti regionali incentrati sulla crescita e sullo sviluppo di un determinato territorio. Una boccata d’ossigeno da non sottovalutare soprattutto in questo periodo, che tuttavia il nostro paese non sembra aver sfruttato al meglio negli anni passati. Andiamo con ordine.

I settori di intervento di ciascun fondo strutturale riguardano più ambiti:

FESR ( Fondo europeo sviluppo regionale) ha l’obiettivo di colmare le differenze strutturali, economiche, sociali ed allineare così le cosiddette regioni svantaggiate sullo stesso gradino di efficienza delle altre più produttive.

FSE ( Fondo strutturale europeo) si tratta di investimenti diretti alla formazione e all’istruzione al fine di incrementare le possibilità occupazionali in un determinato territorio, potenziandone le risorse umane ed eliminando le differenze di genere nelle possibilità occupazionali

FEAOG ( Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia) sono gli stanziamenti invece destinati allo sviluppo rurale e rivolti perciò alle aziende agricole e allo sviluppo integrato dei territori rurali.

SFOP (Strumento Finanziario di Orientamento alla Pesca) il fondo destinato alla pesca e all’acquacoltura.

Per fronteggiare tutte le possibili proposte create ad hoc per un paese ricco di risorse e di patrimonio come l’Italia, in cui le carenze infrastrutturali e la mancanza di pecunia sono endemiche, la Commissione Europea aveva stabilito un fondo di 28,7 miliardi di euro da ritirare e spendere tra il 2007e il 2013. Di questo stanziamento, la cifra effettivamente incassata dal nostro paese alla data del 1 giugno 2012 ammonta a 7 miliardi, ossia un quarto del massimo stabilito, meno del 25% del totale, a fronte di un tempo che scorre e che sta per scadere, dal momento che la data ultima per presentare i progetti è fissata a dicembre 2013. Questo ritardo e la conseguente inadempienza a sfruttare un bacino così proficuo di risorse, in un momento in cui risultano necessarie per la crescita strutturale del nostro Pil per ammortizzare la voragine del debito pubblico, non sembra essere passata inosservata. Nella regione Veneto ad esempio sono stati spesi solo il 30% del FESR previsto e un 41% del FSE.

Qual è l’intoppo che ferma il processo e dove si complica il passaggio per ottenere questi fondi? La risposta non è semplice, dal momento che l’iter per avere il diritto di usufruire di questi fondi non è molto agevolato. Tuttavia, si tratta pur sempre di fondi che vengono elargiti, in questo caso da un’autorità sovrana piuttosto attenta, quale è l’Unione Europea e pertanto nessun passaggio viene lasciato al caso. Il denaro viene stanziati dall’Unione Europea che fa riferimento ai diversi Stati membri, i quali a loro volta li distribuiscono a quei determinati progetti presentati dalle Regioni, che corrispondano ai criteri stabiliti per la partecipazione. Una volta approvato il progetto e pertanto sbloccato il fondo, l’acquisizione dei fondi non è univoca ma avviene in più tranche e di volta in volta è subordinata ad un controllo iniziale dei requisiti, ad uno intermedio per verificare le spese e uno finale per comprendere l’effettivo successo dell’iniziativa e ottenere una rendicontazione. Il tutto sotto la supervisione di due soggetti autonomi ma cooperanti che ne tengono sotto controllo la gestione e i costi e che non a caso sono ribattezzati Autorità di Gestione e Autorità di pagamento. Una regia serrata dunque, in cui piani strutturali, costi, obiettivi e risultati non sono né oscuri né vaghi ma ben determinati, controllati e controllabili. Una pratica di gestire il finanziamento pubblico a cui in Italia non siamo di certo avvezzi, ed è forse questa la prima causa di un’adesione così bassa da parte delle autorità concorrenti per ottenere questi fondi. Tuttavia sussistono anche altre ragioni che fanno sì che questi progetti stentino a decollare: spesso il finanziamento non è previsto per una copertura totale del progetto, ma prevede un cofinanziamento da parte del soggetto privato proponente sino ad un 30% dell’ammontare della cifra; inoltre la promozione di tale possibilità cui attingere per finanziare la propria idea non è così ampia. Sebbene siano allestiti siti internet e pagine dedicate con bandi da scaricare e notizie da reperire, manca una formazione adeguata soprattutto per il personale amministrativo o di quello all’interno delle aziende per comprendere le clausole di questi concorsi e parteciparvi. Nel documento di intenti che delinea i requisiti per il 2014-2020 non casualmente è stato dato spazio alla necessità di semplificare e ampliarne la diffusione il più possibile, prefiggendosi come obiettivo anche l’istituzione di un sito internet unico che funga da contenitore per tutte le iniziative a livello regionale. Questo per far in modo che la maggior parte dei fondi messi a disposizione vengano impegnati proficuamente da parte di coloro che ne necessitano e non rimangano inutilizzati, dal momento che, in caso di mancato ritiro, i fondi tornano nelle casse dell’Unione Europea. Perché sebbene manchino dei documenti chiari e semplici da cui trarre dati e conti corretti sull’effettiva destinazione, basta dare una rapida occhiata alle schede sui progetti divise per regione per accorgersi delle numerose caselle vuote alla voce “Contributo pubblico pagato”.