Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Durante la presentazione delle statistiche sull’attività di spettacolo relative ai primi sei mesi del 2013, il direttore generale della SIAE Gaetano Blandini ha colto l’occasione per parlare di diversi temi scottanti del settore, quali le conseguenze derivanti dalla legge di stabilità, il regolamento dell’Agcom contro la pirateria on line e, immancabile, la spinosa questione del Teatro Valle Occupato, ora trasformato in Fondazione. La SIAE come l’AGIS da sempre ritengono che nel palco capitolino permanga una “situazione di illegalità e di alterazione della concorrenza”, sebbene in molti, tra cui il nostro editorialista Gioacchino De Chirico, abbiano accolto la neonata Fondazione Teatro Valle Bene Comune come un importante traguardo.
Sul tema abbiamo voluto interpellare una voce super partes, rivolgendo alcune domande ad un esperto in materia di economia della cultura, qual è il Professore Michele Trimarchi. Questa la sua analisi sul “fenomeno Valle”.
E’ nata la Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Cosa è cambiato rispetto a prima?
Dalla fine del modello ETI alla nascita della Fondazione sono cambiate molte cose: lo spiazzamento, l’occupazione, una partecipazione intensa di artisti e di pubblico, un’inedita attenzione intellettuale. La prospettiva, tuttavia, è che le cose tornino più o meno com’erano prima, con un teatro che produce poco e distribuisce molto nell’ambito di un circuito commerciale sostenuto da fondi pubblici, e con processi decisionali che in poco tempo sostituiranno la condivisione assembleare e lo spontaneismo con dei protocolli convenzionali.
Ci saranno novità per il pubblico? Quali?
Per il pubblico le cose cambiano soltanto se cambia la varietà e la qualità della programmazione teatrale, e anche se agli spettacoli si associano sistematicamente ulteriori e più ampie opzioni artistiche. Si tratta di cose che vanno progettate con acutezza e che dipendono dalla capacità di coniugare le strategie gestionali e gli orientamenti artistici.
Ci indichi un aspetto positivo ed uno negativo presenti nello statuto della neonata Fondazione.
Lo Statuto è portatore di un indirizzo politico ben chiaro, e contiene molteplici vincoli e divieti. La sua effettiva caratura si potrà comprendere solo nel corso del tempo, quando cioè le attività di ogni giorno dovranno fare i conti con la rotazione obbligatoria delle cariche sociali, con l’unanimità indispensabile nelle prime due riunioni per ogni decisione, con l’equalizzazione delle posizioni, con il ruolo quasi ancillare delle attività teatrali rispetto alla vocazione politica. E’ uno Statuto ricco di principi molti belli e di intenzioni positive e trasparenti. Lo erano anche le Tavole della Legge.
SIAE e AGIS contestano l’illegalità del Valle. Hanno ragione? Perché?
L’occupazione di uno spazio da parte di persone diverse dai suoi proprietari non può essere definita legale. In momenti complessi come quello che stiamo attraversando lo scontro tra formalismi rigidi e spontaneismi che si giustificano da sé non può sorprendere. Quando le regole del gioco finiscono per mummificare un sistema il desiderio e il bisogno di superarne le strettoie emergono naturaliter. Di norma le rivoluzioni non generano un mondo migliore, ma solo un mondo diverso; ad alcuni appare irrinunciabile, ad altri nefasto, anche questo accade ogni volta.
Ritiene che questo “modello” sia sostenibile a lungo termine? Come?
Un modello non può essere sostenibile o fallimentare, la realtà sì. Lasciamo che la Fondazione cominci a funzionare, e si vedrà quali intuizioni risulteranno praticabili, e quali illusorie. Regole forti possono non piacere, ma se ben concepite possono arginare i problemi generati dalle dinamiche umane; il modello adottato dalla Fondazione combina processi di partecipazione che richiedono grande senso di responsabilità e griglie piuttosto rigide che probabilmente dovranno essere gestite con qualche flessibilità. Solo nel corso degli anni si potrà comprendere la sostenibilità del progetto.
E’ un esperimento replicabile? Se tutti gli spazi occupati seguissero il medesimo iter, cosa accadrebbe?
L’occupazione degli spazi in tutto il mondo è il risultato di molteplici ed eterogenee motivazioni, di solito condivisibili e in alcuni casi addirittura drammatiche. Ma quasi mai è assistita o originata (come sarebbe ragionevole) da una strategia orientata a costruire un reticolo di scelte e azioni che superino il passato evitandone fragilità e sbagli. Che molta comprensibile rabbia serpeggi e si diffonda è nella logica delle cose, dopo due secoli abbondanti di un paradigma aggressivo e frettoloso, la pars destruens è ben chiara.
Si è svolta il primo ottobre la prima “Giornata Europea dedicata alle Fondazioni e ai Donatori” promossa da DAFNE, il network che unisce 24 associazioni di fondazioni di diversi Paesi europei in rappresentanza di oltre 6 mila soggetti. Con eventi, incontri e appuntamenti, le fondazioni di ciascun paese hanno unito gli sforzi per promuovere presso il pubblico la conoscenza dell’impegno da loro assunto a beneficio dello sviluppo sociale, economico e culturale della popolazione.
Presenti in numero crescente in tutta Europa, questi soggetti, come messo in evidenza dall’Associazione Italiana Fondazioni e Enti di Erogazione (Assifero), spendono 83 miliardi l’anno per il bene comune, risorse queste che hanno continuato a riversarsi sul territorio anche in un periodo di crisi economica quale quello attuale.
In Italia, la presenza di questi soggetti si caratterizza per il forte radicamento territoriale e per una distribuzione geografica non omogenea, essendo concentrata la gran parte di essi al nord del paese, con la Lombardia a ospitare il maggior numero di soggetti erogatori.
Fonte: Dati in valore assoluto rilavati da Assifero
Se guardando alla forma giuridica appare evidente che, in termini assoluti, il peso delle fondazioni sia pari a poco più del 10%, non si può non mettere in luce come la capacità di erogazione di tali soggetti sia di notevole rilievo.
Per avere un’idea di quanto stiamo affermando, basterà fare riferimento in modo specifico alle fondazioni bancarie, pur non dimenticando il ruolo altrettanto significativo delle fondazioni d’impresa.
Guardando ai dati di bilancio per l’anno 2012 forniti dall’ACRI, l’Associazione che riunisce le Fondazioni bancarie e le Casse di Risparmio presenti sul territorio nazionale, appare immediato il consistente investimento di risorse a beneficio del territorio.
Fonte: Acri
965 milioni di euro che sono stati erogati nel solo 2012, andando a beneficiare in modo prioritario quattro settori d’intervento, ovvero “arte, attività e beni culturali”, ricerca e sviluppo, educazione, istruzione e formazione, assistenza sociale. Analizzando nel dettaglio i dati appare tuttavia chiaro che – ed è questo l’aspetto che ci preme porre in evidenza – un’attenzione particolare da parte delle fondazionibancarie è rivolta al settore della cultura, destinatario del 31% delle erogazioni totali. Il dato appare essere ancor più incisivo – 50% – se si assume un più ampio concetto di cultura, andando a ricomprendere anche i finanziamenti destinati all’istruzione e alla formazione.
Le fondazioni bancarie, dunque, investono risorse nella cultura, che è percepita non solo come un bene da tutelare, ma anche e soprattutto come uno strumento attraverso il quale riattivare l’economia del territorio, promuovere il talento e la creatività giovanile, l’occupazione e l’inclusione sociale.
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Il copione che ha rappresentato le vicende del Teatro Valle a Roma in questi ultimi due anni aveva tutte le caratteristiche per risultare banale, noioso e ripetitivo. E invece ha riservato una bella sorpresa.
Poteva essere solo il tristemente consueto racconto di un’amministrazione pubblica che non sa come comportarsi nel gestire uno dei teatri storici più belli, più antichi e importanti d’Italia. Poteva essere la storia di una protesta che, come in tanti altri luoghi della capitale e nel resto del paese, veniva abbandonata al proprio destino a far da testimonianza in una città distratta. Poteva essere “solo” l’ennesimo danno delle scelte politiche di un certo centro-destra che, nel nostro paese, vede la cultura esclusivamente come un costo (da tagliare) e mai come un investimento da programmare.
E invece non è andata così. Almeno non del tutto. Effettivamente la giunta Alemanno ha fatto di tutto per non affrontare seriamente la questione. Ma non gliene si può fare un torto. Per loro si trattava di ordine pubblico e non di politiche culturali. Nel frattempo però dall’Europa e dal mondo si sono moltiplicati gli attestati di solidarietà con gli occupanti. Grandi attori e grandi compagnie italiane e straniere hanno tenuto spettacoli e stage nel teatro che ha ospitato anche convegni, feste, proiezioni e seminari. Migliaia di euro ogni mese sono stati sottoscritti dai cittadini per sostenere questo sforzo. Centinaia di migliaia le persone che hanno partecipato agli eventi e assistito agli spettacoli. Migliaia gli attori coinvolti in una programmazione, spesso improvvisata, ma che ha segnato significativi e frequenti momenti di valore sia dal punto di vista delle novità che della qualità artistica. Ed è stato questo che ha risvegliato i cittadini dall’indifferenza. Non solo protesta ma soprattutto proposta. Non solo cultura “alta”, che a molti incute ancora qualche (sacrosanto) timore reverenziale, ma anche cultura popolare.
Naturalmente il teatro Valle è stato anche in parte il refugium peccattorum di chi, non riuscendo a prendere atto dei propri limiti, se la prendeva con i limiti degli altri. Ma questo è il (piccolo) prezzo da pagare quando si decide di aprirsi all’esterno non dovendo e non volendo selezionare. Insomma, l’occupazione del Teatro Valle è stato il periodo sabbatico dello spettacolo dal vivo: si sono rimescolate le carte e dalla protesta si è tentato di indicare una via d’uscita, in forma libera e autonoma. Tutto questo a due passi dal Pantheon e da piazza Navona, in un centro storico sempre più “gentrificato”, devoluto al turismo di massa nonostante sia di facile accesso anche per i cittadini romani.
Non era affatto scontato che succedesse: il teatro Valle rappresenta un’esperienza unica e preziosa che non può andare dispersa. Per questo va salutata positivamente la nascita della Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Una “nuova istituzione culturale”, come l’hanno definita i promotori, che è riuscita a garantirsi l’adesione di circa 5,000 soci e l’acquisizione di opere d’arte donate dagli artisti per raggiungere la quota di capitale sociale. Finalmente quell’esperienza esce dal cono d’ombra in cui non si poteva distinguere nettamente tra legalità delle norme e atti di forza, per quanto giusti e forse addirittura doverosi. Finalmente possono rasserenarsi gli sguardi corrucciati di chi vedeva il Valle riscuotere successo mentre loro stessi versavano in mille difficoltà per organizzare spettacoli dal vivo dovendosi sobbarcare utenze, costi di gestione, pagamento dei tributi, ecc.
E’ terminata una fase, il primo atto si è compiuto. I protagonisti ora sono inseriti in un nuovo contesto, quella della Giunta Marino, che si è dichiarata disposta al confronto e alla collaborazione, specialmente negli impegni presi formalmente dall’assessore Barca. Sarà efficace la formula della fondazione che molti ritengono essere troppo onerosa? Riusciranno i protagonisti a rendere il Teatro uno spazio veramente aperto, partecipato, attento alla formazione e alle produzioni contemporanee? Oppure si adageranno in una condizione consolatoria e autoreferenziale per l’utile effimero di pochi lontano dal Bene Comune che ha costituito l’obiettivo di una protesta e, per due anni, la pratica della proposta?
Ora non è dato sapere. Certamente le possibilità innovative e le prospettive virtuose non mancano, anche se i dubbi che ancora accompagnano questa esperienza non sono stati del tutto diradati.
Lasciamo fiduciosi che il sipario si alzi di nuovo per il secondo atto.
Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione
Il 19 agosto 2013 “Tafter” ha proposto alla propria comunità un approfondito dossier sul decreto legge “Valore Cultura”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto.
A distanza di una decina di giorni, proponiamo una qualche integrazione ed alcuni aggiornamenti. Il dossier IsICult / Tafter ha registrato diffusi apprezzamenti, in quanto tentativo finora unico di analisi accurata e complessiva del provvedimento: piace osservare che lo stesso Ministro Bray ha aggiunto ai suoi “preferiti”, poche ore dopo la sua pubblicazione, il Tweet con cui Tafter segnalava il dossier sul decreto legge.
Il Ministro però, ad oggi, non ha ancora ritenuto di rispondere ad alcuni quesiti che gli venivano posti, nell’economia complessiva dei commenti elaborati nel dossier.
Qualche risposta potrebbe emergere dall’iniziativa prevista nell’ambito del Festival di Venezia il 2 settembre prossimo. Non si ha più notizia degli “Stati Generali sul Cinema” che pure erano stati annunciati nell’ambito del Festival di Venezia: in effetti, l’organizzazione dell’iniziativa – secondo alcuni affrettata e soprattutto mal preparata (si segnala il caustico articolo di Stefano Pierpaoli, attivista del cinema indipendente italiano, pubblicato il 3 luglio sul blog “Consequenze Network di cultura partecipata”, dall’eloquente titolo “Il Mi(ni)stero delle Attività Culturali – Partite di giro e riunioni segrete”) – era stata frenata dagli annunci polemici “delle categorie” sul piede di guerra: i cinematografari tutti (dagli autori ai produttori) avrebbero disertato iniziative veneziane con presenza governativa, se non fosse stato prima ripristinato il tax credit.
Il 20 luglio, una ventina di associazioni del settore cinematografico italiano avevano diramato un comunicato di fuoco contro il Governo Letta, dal titolo netto e chiaro: “Il Governo impedisce l’approvazione del rifinanziamento del tax credit”, mentre tutto il Parlamento all’unanimità l’avrebbe approvato. Il presidente Letta ha detto: “Mai più tagli alla cultura, se dovesse avvenire mi dimetterei”. 45 milioni in meno al cinema, la più grande industria culturale del Paese: PRESIDENTE CHE FA?????? È incredibile! Si condanna il cinema italiano alla chiusura. Dopo che al Fus sono venuti a mancare circa 22 milioni di euro, ora si tagliano altri 45 milioni al Tax Credit, rendendo impossibile produrre cinema e audiovisivo in Italia”.
Il tono del comunicato era esasperato (incluso il maiuscolo sulla domanda retorica al premier ed i 6 punti interrogativi 6), ed aveva un sapore un po’ passatista: non sappiamo chi sia stato l’estensore della prima bozza, ma scommettiamo che abbia un passato da sindacalista. Si leggeva che la decisione assunta dal Governo avrebbe impedito “alle produzioni straniere di venire a produrre da noi, con gravissimi danni per esempio a Cinecittà, aprendo di nuovo la strada alla delocalizzazione delle produzioni italiane, mettendo a rischio di chiusura il 40 % delle sale cinematografiche, in prevalenza piccole e medie strutture, che non potranno digitalizzare gli impianti. Eppure il cinema e l’audiovisivo fatturano il doppio del trasporto aereo!!!”.
Non entriamo nel merito di queste simpatiche stime nasometriche sulle dimensioni del settore (3 punti esclamativi 3 inclusi), perché più volte abbiamo dimostrato, anche sulle colonne di “Tafter”, che una delle cause della crisi del sistema culturale italiano vada ricercata proprio nella fallacia delle analisi economiche, nel deficit del sistema informativo-statistico, e nella conseguente impossibilità di disegnare prospettive affidabili e efficaci strategie. Stile retrò a parte, il tono del comunicato era oggettivamente minaccioso. Si leggeva ancora: “Ma il Ministro dei Beni Culturali indice una assise a Venezia per parlare di cinema. Le associazioni tutte, ancora una volta unite e compatte, non parteciperanno ad alcun convegno veneziano, ritireranno immediatamente i propri rappresentanti dai tavoli preparatori degli “Stati Generali”, riterranno sgradita la presenza di chiunque del Governo voglia presenziare a manifestazioni veneziane, annunciando fin d’ora di uscire dalle sale di proiezione se questo accadesse, metteranno in campo da oggi le iniziative di lotta e mobilitazione più utili, efficaci, eclatanti, per far capire ai cittadini come l’Italia sarà più povera senza il proprio cinema”.
“Last minute”, dopo i tamburi di guerra, il 2 agosto, il tax credit è stato ripristinato, ma era effettivamente un po’ tardi per riprendere la organizzazione degli… “Stati Generali”. Il Presidente dei produttori dell’Anica Angelo Barbagallo, poco dopo la conferenza stampa di Letta e Bray, aveva espresso apprezzamento “per la svolta impressa dal Governo”, segnalando che “ora si potrà riprendere, a partire da Venezia, quel percorso di confronto e collaborazione con l’Esecutivo, essenziale per definire una politica cinematografica all’altezza dei tempi e inserita in una visione generale del ruolo della cultura nel Paese”. Ma il lavoro dei “tavoli preparatori” degli “Stati Generali del Cinema” era stato sospeso… Si è quindi deciso di procedere con… prudenza.
Il 28 agosto, l’ufficio stampa dell’Anica ha confermato quel che la Direzione Generale per il Cinema – Mibact, aveva annunciato il 22 agosto: “il Mibact, in collaborazione con Istituto Luce-Cinecittà, Anica e La Biennale di Venezia, promuove durante il Festival, per lunedì 2 settembre, un convegno intitolato “Il futuro del cinema: da settore assistito a industria culturale strategica. Dopo la stabilizzazione del tax credit e verso la Conferenza Nazionale”. Tra i relatori, vengono annunciati: Riccardo Tozzi (Presidente Anica), Angelo Barbagallo (Presidente Sezione Produttori Anica), Richard Borg (Presidente Sezione Distributori Anica), mentre l’Apt annuncia che sarà presente con Fabiano Fabiani (Presidente dell’Associazione dei Produttori Televisive)… Sono previste le conclusioni di Massimo Bray.
Il 30 agosto l’ufficio stampa del Mibac ha reso noto il programma completo del convegno: ci sembra si tratti di una semplice riproposizione di una “compagnia di giro” (le cui tesi sono note da anni), e francamente temiamo che il valore aggiunto che verrà prodotto dal convegno sarà quindi inevitabilmente molto modesto, anche per l’assenza di voci “fuori dal coro”. Da segnalare che sono previste, nell’ambito della kermesse veneziana, anche due altre iniziative convegnistiche (che forse risulteranno più vivaci rispetto alla passarella ministeriale), promosse dall’Anac, martedì 3 settembre e per mercoledì 4: la prima è intitolata “Cinema italiano oggi: Una visione strategica per i necessari provvedimenti di rianimazione” (la metafora è forte, ma efficace), e la seconda è intitolata “Rai e rinnovo conessione: Quale itinerario per un servizio pubblico?”. E vanno segnalate anche altre occasioni di dibattito, promosse dalla “triade” Mibac Dg Cinema/Istituto Luce-Cinecittà (che è ormai una sorta di “braccio operativo del Mibac, anzi quasi un ufficio interno del dicastero) / Anica (che è sovvenzionata dalla Dg Cinema del Mibac per queste attività): martedì 3 settembre (dalle 10 alle 12), presso il Mercato del Film-Venice Film Market, la presentazione del “Report attività Dg Cinema 2012”, e di “Focus su film d’interesse culturale e analisi dei sottostanti accordi di produzione”, a cura di Alberto Pasquale e Bruno Zambardino; mercoledì 4 settembre (dalle 10 alle 13), ancora presso il Mercato del Film-Venice Film Market, “Focus” sul consumo di cinema “Sala e salotto 2013: il sequel”, realizzato da Ergo Research, su iniziativa di Anica e Univideo, in collaborazione con Anec-Agis, a cura di Michele Casula; ed “Appeal e potenzialità del cinema italiano in Usa”, indagine Swg per Istituto Luce-Cinecittà, a cura di Rodrigo Cipriani Foresio e Adrio De Carolis; “L’industria dei contenuti alla prova degli Ott e delle Tlc”, a cura di Giandomenico Celata ed Enrico Menduni… Insomma, molti fuochi d’artificio.
Questa mattina è stata presentata un’altra ricerca ancora: “Schermi di Qualità tra crisi economica e rinnovamento”, curata Gianni Celata e a Rossella Gaudio. Lo studio ha messo in evidenza che gli schermi del Progetto “Schermi di Qualità” (fortemente sostenuto dal Mibac, realizzato dall’Agis, d’intesa con le associazioni dell’esercizio cinematografico Anec, Anem, Fice, Acec) concorrono in modo significativo al box office complessivo, registrando nel primo semestre 2013 un 18 % delle presenze ed il 16,5% degli incassi dell’intero mercato. La quota di mercato dei film italiani non è esaltante, rappresentando il 33 % del totale. Si segnala che il 76 % dei biglietti venduti in “SdQ” si realizza nei cinema da 1 a 4 schermi. Dati interessanti, ma, ancora una volta, manca una lettura organica, sistemica, critica: si rinnova il deficit di elaborazione strategica e di “policy” e “governance”. E… in fondo, cosa ne resterà, dopo Venezia, di tutte queste elucubrazioni e dibattimenti?! Si rinnova l’obiezione sul senso di queste iniziative convegnistiche all’interno di una kermesse come il Festival di Venezia: nella economia della macchina mediatica, la scollatura dell’attricetta di turno provoca cento volte più “appeal” del più stimolante dibattito. La domanda resta: che senso strategico ha organizzare iniziative di questo tipo, “a latere” di un festival?! Anche il dibattito più intrigante è destinato ad ottenere due righe sui quotidiani. I riflettori, in queste situazioni, sono puntati altrove.
Dai grandiosi ed ambiziosi “Stati Generali” ad una più prudente e modesta “Conferenza Nazionale”. Ah, ricchezza della lingua italiana! Ma qualcuno – non soltanto Brunetta ed i polemisti de “il Giornale” – obietterà certamente qualcosa, rispetto alla titolazione dell’iniziativa, che propone una netta dichiarazione di superamento dello status di settore “assistito”, per quanto riguarda il cinema… Sarà anche interessante ascoltare l’opinione di Fabiani, ovvero quella di un settore (la lobby debole, l’Apt) che è stato inopinatamente (cioè senza alcun criterio logico e mediologico e di politica culturale) escluso dai benefici del tax credit, avendo Bray innovato privilegiando il settore musicale… Innovazione e contraddizione.
Siamo lieti che il Ministro molto telematico abbia letto ed apprezzato il dossier IsICult, ma ci avrebbe fatto ancor più piacere ricevere un suo feedback.
Segnaliamo – en passant – la precisione comunicazionale di Bray (e della sua addetta stampa, Caterina Perniconi), che il 22 agosto ha diramato un testo come quello che segue, correlato all’ambizioso progetto di pedonalizzazione dei Fori Imperiali avviata dal Sindaco di Roma Ignazio Marino ed alla necessità di registrare il parere dell’opinione pubblica: “Mibac: precisazione in merito alle parole del Ministro Bray. In merito alle dichiarazioni del ministro Massimo Bray sui Fori Imperiali rilasciate a Radio Anch’io, si precisa che il riferimento a una consultazione dei cittadini era da attribuirsi al normale iter di coinvolgimento della popolazione le cui necessità devono essere ascoltate dagli addetti ai lavori in un processo come quello che vorrebbe la creazione del più grande parco archeologico del mondo”.
Che precisione, che accuratezza… E va notato che sempre il 22 agosto Bray ha segnalato sul proprio profilo Twitter che aveva “postato” una lunga risposta del Ministro alla “Lettera di un musicista al Ministro alla Cultura”, firmata da Anna sul suo blog Laflauta (l’anonima Anna si autodefinisce con ironia “veneziana, bionda, flautista, jazzista, maestrina di canto, amazzone, mamma… e blogger”). Bray dichiara tra l’altro che “sarebbe auspicabile un’eventuale defiscalizzazione totale dei contributi che privati o aziende conferiscono per l’organizzazione di eventi artistici”: eccellente, se si passerà dalla bella idea alla concreta norma. Si segnala che anche il Presidente della Siae, Gino Paoli, ha deciso di postare un suo commento sul blog Laflauta, innescando una interessante polemica sul ruolo della Società Italiana Autori Editori.
Abbiamo effettuato un’accurata ricerca su web, ed osserviamo che, complice forse l’agosto vacanziero e torrido, non sono molti – in verità – i commenti in relazione al decreto legge del 2 agosto.
La Confederazione Italiana Archeologi (ebbene sì, esiste anche questa… Cia!), sul proprio sito web, in un commento intitolato “L’urgenza non diventi fretta”, ha espresso “parziale soddisfazione per il decreto Valore Cultura, annunciato dal Governo e dal Ministro Bray, di cui ancora non sono chiari i particolari”, ma si tratta di un commento pubblicato il 7 agosto, prima che il testo venisse reso noto: “Accogliamo con favore il rinnovato interesse per Pompei – ha sostenuto Alessandro Pintucci, Presidente dell’associazione – ma non vorremmo che con l’istituzione di una Direzione Generale ad hoc per il sito si replicasse la situazione di commissariamento e gestione straordinaria, che tanti danni ha arrecato al centro vesuviano negli anni passati. Siamo, invece, preoccupati per le annunciate assunzioni annuali di 500 stagisti: il nostro settore ha bisogno di interventi strutturali, ci sono decine di società che stanno rischiando di chiudere a causa della crisi e centinaia di professionisti, molti più grandi degli under 35 interessati dal Decreto, che stanno pensando seriamente di cambiare lavoro o di trasferirsi in altri Paesi, con una perdita di conoscenze ed esperienze che francamente non ci possiamo più permettere (…). La sensazione è che l’urgenza del provvedimento, che pure condividiamo, sia stata tradotta in un’operazione condotta di fretta. Auspichiamo un ripensamento del Ministro su questi punti, prima del licenziamento definitivo del decreto”. Il Ministro non sembra però averci ripensato, alla luce del testo licenziato, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 9 agosto.
Alla presa di posizione critica – che abbiamo già segnalato nel dossier pubblicato il 19 agosto – da parte dei sindacati Cgil Slc, Cisl Fistel, Uilcom e Fials (resa nota il 7 agosto), ha fatto seguito la critica manifestata da un altro sindacato, Libersind-Confsal (che si autodefinisce Confederazione Generale Sindacati Autonomi Lavoratori) che ha scritto al Ministro l’8 agosto ed ha diramato il 12 agosto un comunicato stampa ripreso dall’agenzia Adnkronos: “Libersind-Confsal chiede a Bray di emendare il decreto “Valore Cultura” per quanto riguarda il collegamento tra accesso agli stanziamenti delle fondazioni lirico-sinfoniche e riduzione dell’organico delle stesse”, perché “non è assolutamente condivisibile l’impostazione per la quale ancora una volta a pagare i danni causati negli anni da amministrazioni “politiche” fallimentari di alcune Fondazioni debbano essere i lavoratori”. Ribadiamo che si prevede un “autunno caldo” per la lirica italiana…
Tra le questioni apparentemente meno importanti, e segnalate quasi da nessuno, va ricordato che il Decreto Legge, all’articolo 4, ha introdotto l’obbligo di prevedere la libera disponibilità online per i risultati delle ricerche finanziate almeno per il 50 % con fondi pubblici. In un intervento pubblicato sul blog Roars (Return On Academic ReSearch), Paola Galimberti si è chiesta come mai questo (apprezzabile) intervento sia stato emanato per iniziativa del Mibac e non di quello competente per l’università e la ricerca.
Gli risponde in modo accurato ed interessante l’esperto di biblioteconomia Giovanni Solimine, in un post del 27 agosto sul suo blog, intitolato “Dl cultura e accesso aperto”: “In effetti non c’è da sorprendersi, per almeno due motivi: in primo luogo, perché finora non sembra che il Miur stia esprimendo una “cultura di governo” capace di andare oltre l’emergenza e i provvedimenti urgenti, e poi perché il Dl Cultura, per quanto parziale e insufficiente, lascia intravedere un respiro piuttosto ampio, che va oltre il puro e semplice ambito dei “beni culturali” e che cerca di affrontare i temi dell’accesso alla cultura e alla conoscenza.
Attendiamo il governo – se, come c’è da augurarsi, durerà – e il parlamento a nuove e più impegnative prove: la prima è proprio la conversione in legge di questo decreto, che qualcuno potrebbe cercare di svuotare proprio per gli aspetti più profondamente innovativi. PS: senza volerci arrogare meriti che non abbiamo, mi permetto di ricordare che l’obbligo dell’accesso aperto per i risultati delle ricerche finanziate con danaro pubblico era presente tra i provvedimenti sollecitati dal Forum del libro in una lettera aperta ai candidati alle ultime elezioni politiche, che aveva trovato in Massimo Bray, poi divenuto titolare del Mibact, uno dei suoi più convinti sostenitori”. Solimine, in altri post del suo blog, manifesta giudizi complessivamente positivi sul decreto legge “Valore Cultura”, ritenendo il “bicchiere pieno al 75 %”.
Su altro fronte (cinema), sull’edizione del “Giornale dello Spettacolo” (il mensile dell’Agis) del 28 agosto, in distribuzione al Festival di Venezia, Enrico Di Mambro, riferendosi al ripristino del tax crediti a favore del cinema, scrive che “testimonia un metodo di lavoro nuovo, segnato da un concreto fattivo confronto tra le parti”. A noi sembra – in verità – l’ennesimo topolino partorito dalla montagna, ovvero dal tira-e-molla tra Governo e lobby varie, senza alcun disegno strategico di ampio respiro: un intervento utile, ma più palliativo di breve termine che cura di lungo periodo. Di Mambro enfatizza che la stabilizzazione permanente del budget di 90 milioni di euro l’anno è resa possibile dal sistema di adeguamento di copertura determinato dagli articoli 14 e 15 del decreto legge, ovvero dalle assise sui combustibili, gli alcool e sul prelievo fiscale sui prodotti da fumo. L’esponente dell’Agis lamenta che l’autorizzazione per i crediti di imposta riguarda l’attività di produzione, mentre è sospesa l’autorizzazione per il credito d’imposta per la digitalizzazione delle sale (e ne siamo lieti, dato che la “battaglia per il digitale” ci sembra benefici già abbastanza di sostegni regionali, grazie ai fondi europei: si legga l’intervento su “Tafter” del 7 agosto: “Sull’utilità della digitalizzazione delle sale cinematografiche”): “la misura, infatti, viene ancora oggi applicata in termini limitativi e penalizzanti mediante l’adozione della clausola ‘de minimis’”. Di Mambro segnala anche una corrigenda opportuna: non è stata riprodotta la norma tecnica in base alla quale eventuali “avanzi” rispetto al plafond dei 90 milioni di euro l’anno vengano destinati ad alimentari lo stanziamento della parte cinema del Fus. Forse si tratta di errori ed errorini determinati da una qual certa fretta.
In effetti, nel dossier realizzato da IsICult per Tafter, avevamo prestato poca attenzione agli articoli 14 e 15 del decreto, liquidandoli come norme tecniche di finanziamento degli interventi normativi, cioè per la cosiddetta “copertura”.
Filippo Cavazzoni, Direttore Editoriale del “think tank” liberista Istituto Bruno Leoni (Ibl), ci ha segnalato: “La maggior parte delle coperture si ottengono con l’inasprimento delle accise: questa volta non sui carburanti, ma sugli oli lubrificanti, la birra, gli aperitivi, i vini liquorosi, le grappe, i prodotti “da fumo”, ecc. Se è davvero così, mi pare davvero criticabile: perché un bevitore di birra deve finanziare il tax credit?”.
Temiamo che sia proprio così. Il quesito è saggio, ma richiederebbe un’analisi approfondita e quindi una revisione radicale del concetto stesso di “dare” ed “avere” nel bilancio dell’italico Stato, ed ovviamente non soltanto in materia di politica ed economia della cultura. Si prendi “a chi”, per dare “a chi”, con quale logica politica ed economica?! Nel caso in ispecie, le “stampelle” per il cinema (tax credit) così come il ripianamento dei debiti degli enti lirici (determinati da cattiva gestione) vengono “socializzati” a carico della fiscalità generale (qualcuno può evocare il cosiddetto “metodo Stammati”, dal nome dell’allora Ministro che, nel lontano 1977, decise che lo Stato doveva intervenire per ripianare i debiti contratti dagli enti locali con il sistema bancario: un meccanismo perverso che ha stimolato una continua espansione della spesa pubblica, le cui conseguenze stiamo ormai pagando). Ha un senso, tecnico e politico, una scelta di copertura di questo tipo?!
Sui quotidiani del 28 agosto, si leggeva che il Governo, per alimentare il fabbisogno derivante dall’abolizione (per il 2013) dell’Imu, avrebbe introdotto novelle tasse sugli alcolici (già fatto per il tax credit, appunto) e sui giochi, per garantire giustappunto adeguata copertura pro Imu. E subito s’ode il grido di allarme di Confindustria, ovvero della sua anima “ludica”: il Presidente di Confindustria Sistema Gioco Italia (che aderisce a Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici), Massimo Passamonti, ha dichiarato “che l’ultimo aumento sugli apparecchi da intrattenimento, effettuato nel 2012 per garantire una copertura di 150 milioni, ha in realtà causato una perdita di 300 milioni di minor gettito erariale” (si ricorda che il settore del gioco produce circa 8 miliardi e mezzo di euro l’anno di entrate erariali, e non ci sembra che lo Stato dedichi minima attenzione alla gravità del fenomeno della ludopatie…). Secondo Passamonti, si tratterebbe di una misura “demagogica” e “controproducente”. Chissà cosa ne pensa il Presidente di Confindustria Cultura, Marco Polillo…
In verità, riteniamo che debba invece proprio esistere un nesso logico (e finanche ideologico, quindi politico) tra le varie voci del bilancio dello Stato: che danari che alimentano il ricco e ozioso settore del gioco (e finanche del tabacco) vadano a sostenere il prezioso e delicato settore della cultura lo troviamo logico, naturale, sano (ed era, non a caso, una delle proposte che furono avanzate nel documento “Appunti e proposte per una Agenda della Cultura” elaborato dalla veltroniana Fondazione Democratica Scuola di Politica, su cui scrivemmo su queste colonne), così come sarebbe logico imporre anche al settore del telecomunicazioni, ai provider ed agli aggregatori di contenuto (Google in primis) una qualche forma di obbligo ad alimentare la filiera delle industrie creative, per stimolare la produzione di contenuti originali di qualità. Ah, modello francese che sempre invochiamo…
Non ripresa da nessuno, riportiamo anche la dichiarazione della ex Ministro Giorgia Meloni, resa nota il 2 agosto stesso (aveva già letto il testo del decreto legge?!), sul suo blog: “Il decreto legge ‘valore cultura’ del governo Letta presenta qualche luce e molte ombre. Se da un lato consideriamo positivo il rifinanziamento del tax credit per il settore cinematografico e l’apertura nei confronti degli operatori culturali privati, dall’altro prendiamo atto che il provvedimento non introduce interventi strutturali e organici per attuare veramente il principio di sussidiarietà previsto dalla Costituzione. Fratelli d’Italia, unica forza politica che ha dedicato ampio spazio alla cultura nel suo programma elettorale, è pronta ad intervenire alla Camera per modificare e migliorare il decreto”. Osserveremo con attenzione, onorevole Meloni.
Da segnalare anche un’interessante presa di posizione dell’eterodosso storico dell’arte Tomaso Montanari (autore – tra l’altro – dell’eccellente pamphlet “Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane”, Minimum Fax), che ha spiegato sulle colonne de “il Fatto Quotidiano”, il 18 agosto, perché ha deciso di accettare di far parte della (pletorica) Commissione ministeriale promossa dal Ministro Bray (ne scrivevamo anche nel dossier IsICult/Tafter) per la riforma del Ministero: “Come sanno i lettori di questo blog, non ero stato certo entusiasta del meccanismo politico che ha portato alla nomina di Bray: ma con la stessa onestà devo ammettere che, a distanza di tre mesi e mezzo, il bilancio è decisamente positivo. Bray sta rimettendo al loro posto i ras del Collegio Romano, sta rimotivando le soprintendenze, sta tenendo testa ai sindaci prepotenti (ha salvato il Maggio Musicale dalla irresponsabile liquidazione che avrebbe voluto Matteo Renzi). Ha imposto al Segretario Generale del Mibac di ritirare la pessima circolare sulla rotazione triennale dei direttori di museo e dei funzionari territoriali firmata da Ornaghi. Ha fatto anche ritirare lo stupidissimo e dannoso provvedimento sul noleggio delle opere nei depositi dei musei. Ha impedito che passasse l’idea (cara a Scelta Civica e alla sua sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni) di affidare Pompei ad una fondazione di diritto privato: e se il Parlamento non la stravolgerà (e soprattutto se il Direttore Generale sarà scelto tra i ranghi del Mibac), la struttura che il Decreto Valore Cultura prevede per Pompei ha tutte le carte in regola per funzionare”.
Ci auguriamo che la sua lettura dei fenomeni in atto non pecchi di ottimismo, ed auspichiamo soprattutto che Montanari mantenga alta la guardia. E, ancora, che la Commissione si dimostri veramente alacre, se deve concludere i propri lavori entro fine ottobre (2013). Anche se a budget zero.
Infine, ribadiamo (dopo attenta ri-verifica) che, curiosamente, il decreto legge (lanciato con il titolo-slogan “Valore Cultura”) si intitola, nella sua versione definitiva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 9 agosto, “Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo”, ma in verità non v’è 1 articolo uno dedicato al… turismo! In occasione della conferenza stampa del 2 agosto, Bray aveva effettivamente dedicato pochi secondi all’argomento, dichiarando: “C’è l’impegno a dedicare i prossimi sforzi a mettere insieme un pacchetto di importanti provvedimenti proprio sul turismo”. Ma intanto “il turismo” è rimasto nel titolo del provvedimento. Un refuso?! Una rimozione?! Un pre-annuncio?! Abbiamo già segnalato che sul suo blog la Sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni, il 2 agosto, aveva scritto: “Sono stati presi anche provvedimenti utili per il turismo, in particolare per rilanciare il turismo sostenibile e culturale”. Evidentemente, sono rimasti in “mente dei”, ovvero all’ultimo minuto s’è seccato l’inchiostro della penna ministeriale… Segnaliamo quel che scrive Luciano Arduino sul suo ipercritico “Tutto-sbagliato-tutto-da-rifare”, blog “di critiche costruttive sul turismo e sulla cultura”, nel post del 28 agosto “Il Decreto del Turismo di Massimo Bray, bypasserà ancora una volta il Parlamento?”, che rilancia quanto aveva già polemicamente scritto il 3 agosto “Eilturismo?”.
Ed attendiamo che la Sottosegretaria delegata, Simonetta Giordani, si manifesti.
Anche perché sempre più si diffonde il novello (orribile) acronimo del dicastero: “Mibact”, con quella graziosa “t” finale. Mentre le politiche del turismo italiano continuano ad essere abbandonate a se stesse. Ed Andrea Babbi, Direttore Generale dell’Enit dichiara (intervista al blog “Terra Nostra” di Nicola Dante Basile su “Il Sole 24 Ore”, il 27 agosto) che, su un budget di 18 milioni di euro l’anno di risorse statali, l’ente spende 17 milioni per la gestione (200 dipendenti, 80 italiani e 120 esteri), ed ha quindi a disposizione soltanto 1 milione di euro per promuovere l’Italia nel mondo. E lo stesso Babbi evidenzia la contraddizione interna, tra livello Stato centrale e livello Regioni: l’Apt Emilia Romagna ha un budget di 12 milioni di euro, il Trentino 25 milioni, 28 milioni la Sicilia. Per non dire dei 44 milioni che il governo svizzero affida al proprio ente turistico…
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Scarica qui il testo del decreto legge “Valore Cultura” dell’8 agosto 2013, nella sua versione in formato Pdf pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 agosto 2013.
Scoppia la polemica per “Un ballo in maschera” trasformato dal regista Michieletto in festa elettorale con tanto di prostitute e faccendiere. Volano insulti tra le fazioni e cresce la tentazione di bandire le messe in scena innovative. Che fare?
Non è compito di queste poche righe giudicare una regia d’opera o darsi al delicato mestiere della critica musicale. Ma quando le dispute da loggione finiscono sulla stampa per la loro insolita veemenza, forse qualche pensiero può emergere. L’opera è teatro musicale, si può reggere soltanto se la musica, la parola e il gesto camminano insieme e si rafforzano a vicenda.
E’ vero che, nel sistema tendenzialmente mummificato della lirica italiana sulle cui sorti pesano le barriere sindacali, gli interessi delle agenzie, l’ignavia del legislatore, la compiacenza del governo e ogni tanto la nostalgia dei loggionisti, si finisce spesso per preferire interpretazioni musicali e messe in scena piuttosto obsolete e ogni tanto anche carnevalesche; è altrettanto vero che la risposta a questa lettura gozzaniana tende spesso a esplorare le aree scomposte e patetiche dell’eccesso, tentando di épater le bourgeois con mezzucci da avanspettacolo, dalla Harley Davidson di Compare Turiddu (un bel po’ di anni fa a Taormina) agli abiti da escort stradale della povera Amelia (qualche giorno fa alla Scala).
Il punto dolente non risiede nella scelta di ambientare un’opera in tempi diversi dall’originale, sono per fortuna molti i casi – pur discussi e contestati – in cui il regista e il direttore si parlano e costruiscono insieme una lettura strategica dell’opera: “Così fan tutte” diretta da Harding e messa in scena da Chéreau a Aix-en-Provence qualche anno fa sceglie una rarefazione elegante, sottrae spazio agli orpelli scenici e mette l’accento sulle dinamiche sentimentali, tanto nello spartito quanto sulle tavole del palcoscenico. Così va bene. Può piacere o meno, ma è il frutto di una scelta circostanziata e poco interessata agli effetti speciali. “Die Zauberflöte” messa in scena da Peter Brook, così come “La Bohème” a Vigliena firmata da Francesco Saponaro riducono l’organico a un pianoforte, ma lasciano che voci, gesti ed espressioni rispettino del tutto l’intenzione del compositore.
Sono decine gli esempi di regie non convenzionali e al tempo stesso intelligenti e pertinenti. Dario Fo fa giocare Figaro e Almaviva con una carriola di giocattoli, Ugo Gregoretti trasforma Belcore in un vigilante rissoso, Claudio Desderi (baritono e direttore) mette in scena “Le nozze di Figaro” con due poltrone e basta. E la cosa funziona magnificamente. Certo, bisogna evitare effetti a buon mercato, a questo penseranno sovrintendenti e direttori artistici. Ma connettere l’opera con la società contemporanea aiuta a pensare, toccando i nostri nervi scoperti e mostrando quanto l’opera sia attuale e feroce, nonostante la musealizzazione che la aggredisce quotidianamente.
Il morbo è sempre quello: pensare che il pubblico sia in fondo ignorante e passivo, quindi, o lo si addormenta con messe in scena soporifere e già previste, o lo si elettrizza con lenoni, barattieri e femine da conio (come avrebbe detto il padre Dante). Il fatto è che mentre si litiga tra loggione e proscenio, ci si continua a dividere in guelfi e ghibellini anche sulle sublimi finzioni dell’opera, combattendo la solita guerra scema tra culture e nazioni, l’opera lirica sta per esalare l’ultimo respiro, melodrammaticamente. Gli effetti speciali servono a poco; forse basterebbe rileggere le partiture per comprenderne a fondo la potenza: orchestre asciutte, cantanti giovani e capaci di recitare davvero, direttori curiosi e registi acuti non mancano. Sono le fondazioni a dover diventare adulte.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro
42 Kg. Questa è la stima del peso del superfluo. È quello che ogni italiano, in un anno, etichetta come “spazzatura”, malgrado sia commestibile, utile e, per alcuni, risorsa preziosa.
Tradotto in risultati aggregati, significa una stima di 15 miliardi di euro persi (buttati) ogni anno in Italia cui vanno aggiunte le perdite che avvengono durante la fase di trasformazione: 3,5 miliardi. Altro che IMU: questa sarebbe la popolare gallina dalle uova d’oro se, volendo sovvertire un altro estratto di luoghi comuni, esordissimo dicendo che non tutto l’oro luccica, e anzi, a volte, ha qualche macchia. È da questi dati che hanno preso le mosse i relatori della tavola rotonda organizzata dalla Fondazione Bracco il 28 maggio presso la raffinata cornice del Teatrino di via Cino del Duca a Milano. L’incontro dal titolo “Lo spreco diventa risorsa? Consumo responsabile e nuovo valore del cibo”, che fa parte della programmazione del vasto palinsesto rappresentato dagli Expo Days, ha visto come protagonisti Andrea Segrè, presidente di Last Minute Market, e Andrea Giussani, presidente della Fondazione Banco Alimentare Onlus. “In un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo”, sottolineano i relatori, “abbassare i costi inutili dovrebbe essere una priorità”.
Trasformare questa riflessione, sicuramente vera, in una serie di attività che la rendano concreta, non è tuttavia così facile. Il problema è che, come appare sempre più evidente, bisogna pensare ad un nuovo sistema produttivo, perché in quello attuale non si presta molta attenzione ai limiti fisici di disponibilità delle risorse, mentre in realtà non solo esistono, ma hanno assunto dimensioni tali che ignorarli è sintomo di incoscienza. Per fortuna, quando emergono difficoltà, si aguzza l’ingegno e con esso vengono stimolate le innovazioni, che propongono processi efficaci volti a ridurre le inefficienze di mercato.
Tra queste soluzioni figurano le esperienze delle organizzazioni che i relatori presiedono rispettivamente.
Last Minute Market incentra la propria attività su ciò che potrebbe essere definita un’“economia del dono”, fondata su azioni di recupero delle eccedenze alimentari. “In un’Italia, che presenta crescite a due binari, il lavoro di Last Minute Market mette in relazione il binario di ciò che viene perduto con quello di coloro “temporaneamente senza potere d’acquisto,” afferma Segrè. Ma i due binari non possono essere solo tenuti insieme da una pensilina: è importante che a un certo punto convergano. Per questo motivo accanto al lavoro di ricerca, Last Minute Market ha avviato da tempo un’attività di coinvolgimento delle istituzioni, giocando un ruolo importante nella promozione della legge 244/2007, la cosiddetta legge “antisprechi”. Sprecare è immorale e bisogna trovare una soluzione. E l’intervento di Nunzia De Girolamo, ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, sul Corriere della Sera del 14 maggio scorso, mostra come quest’argomento rientri nell’ordine di lavoro dell’attuale classe politica.
Se Last Minute Market si costituisce come un sistema professionale di riutilizzo dei beni invenduti dalla grande distribuzione alimentare, non agendo direttamente nell’azione di recupero, ma permettendo l’incontro tra domanda ed offerta, Banco Alimentare Onlus, interviene invece sul campo, agendo come un vero e proprio “spin-off” della grande distribuzione: 1.650 volontari e 21 magazzini in grado di raccogliere e distribuire alimenti commestibili, ma non commercializzati, ad associazioni caritative. Con un sistema che garantisce al donatore la tracciabilità dei prodotti offerti, il Banco Alimentare ha creato nei suoi 25 anni di attività una rete di partnership davvero imponente, che solo nel 2012 ha recuperato più di 61000 tonnellate di eccedenze alimentari, distribuite successivamente a circa 9.000 associazioni caritative, che, a loro volta, hanno potuto fornire assistenza alimentare a più di 1.800.000 persone.
Se “consumare di più, sprecare di meno” sembra un ossimoro, implementare una politica di educazione del singolo e di recupero dalle grandi distribuzioni migliorerebbe sicuramente l’efficienza del nostro sistema Paese, in cui, è bene ricordarlo, sono 4 milioni le persone a rischio di povertà alimentare. La speranza è che l’attività di queste organizzazioni non si limiti ad essere una generica best practice isolata, ma che presto diventi lo stimolo per la creazione di iniziative analoghe. Perché purtroppo, e i dati lo dimostrano, ce n’è ancora bisogno.
L’utilizzo delle buone pratiche di Corporate Social Responsibility si sta progressivamente diffondendo anche nel nostro Paese e un caso interessante nel panorama culturale è sicuramente quello del Teatro delle Muse di Ancona.
Lo spazio è stato riaperto nel 2002, dopo un grande intervento di restauro che ha voluto restituire la struttura alla città e l’istituzione è attualmente retta da una fondazione, di cui il Comune è socio promotore.
Il Teatro delle Muse è il più grande teatro delle Marche. Il suo impegno per un posizionamento di livello nel panorama lirico italiano ne fa uno dei grandi attori nazionali di riferimento e la sua attività è stata premiata dal Mibac con il contributo più alto assegnato per la “lirica ordinaria”.
All’impegno artistico e culturale questa istituzione affianca un grande lavoro di responsabilità sociale, onere che la fondazione ha deciso di assumersi e che certifica alla comunità e agli stakeholder attraverso lo strumento del Bilancio Sociale. L’impatto economico, sociale e culturale del Teatro delle Muse viene così, di anno in anno, rendicontato, studiato e comunicato all’esterno, quale testimonianza dell’impegno etico, oltre che artistico, assunto nei confronti del territorio.
Ad emergere con particolare rilevanza dall’analisi dei dati di bilancio è la positiva inversione di tendenza nel rapporto fra costi e ricavi registrata a partire dal 2011. Dopo la massima flessione rilevata nel 2006, anno in cui l’esercizio ha chiuso con una perdita di oltre 720 mila euro, il teatro ha saputo ridurre progressivamente il suo debito patrimoniale fino a raggiungere un utile di più di 109 mila euro nel 2011 e di quasi 108 mila euro nel 2012.
I risultati conseguiti diventano ancor più ammirevoli se si considera che negli ultimi dieci anni di attività i contributi pubblici hanno subito una riduzione del 50%. Come ha fatto, quindi, la fondazione ad invertire la tendenza senza intaccare la funzionalità generale del teatro?
La strategia perseguita, confermata dai dati resi disponibili, ha previsto una profonda razionalizzazione e contrazione dei costi, in aggiunta ad un monitoraggio costante del bilancio e ad un approccio di flessibilità gestionale.
La fondazione ha mantenuto la doppia funzione della struttura, ente di produzione lirica da un lato e soggetto al servizio del territorio dall’altro, ma è stato operato un taglio delle spese relative alla stagione artistica, che negli ultimi tre anni hanno subito una riduzione di più del 7%. La scelta intrapresa, però, non ha intaccato spropositatamente il calendario della attività, che ha comunque saputo offrire diverse proposta di alta qualità, dalla rappresentazione de Le nozze di Figaro di Mozart, al Lago dei Cigni, alle celebrazioni per i dieci anni di attività lirica del teatro.
Dall’analisi dei ricavi si osserva però quello che può essere considerato un fattore di rischio, il contributo pubblico, infatti, persiste nel costituire la principale fonte d’entrata: nel triennio 2010-2012 è salito dal 43% al 48%, contro un apporto marginale delle entrate provenienti da privati (il 16% nel 2012), delle attività commerciali (il 26%) e dei contributi dei soci fondatori (il 16%).
La ricerca e lo sviluppo di nuove forme di autofinanziamento è di fatto tanto importante quanto il rigido controllo dei costi, in particolare se si considera il continuo alleggerimento del sostegno pubblico, già avviato con forza nell’ultimo decennio. I recenti investimenti nell’ottimizzazione degli spazi e nel perfezionamento dei servizi offerti costituiscono le basi su cui sviluppare la sostenibilità futura del teatro, la strada sulla quale insistere per ridefinire gli equilibri di bilancio.
Dal punto di vista dell’offerta culturale, il Teatro delle Muse è impegnato in una vasta gamma di attività, condotte molto spesso in dialogo e collaborazione con gli altri attori culturali del territorio. Dalla stagione lirica, articolata in opera e danza, al teatro di prosa, proposto in collaborazione con il Teatro Stabile delle Marche; dalla stagione concertistica, realizzata in collaborazione con l’Associazione Amici della Musica Guido Michelli alla rassegna Muse x la città, che comprende tutte le attività di sensibilizzazione e avvicinamento all’arte e alla musica, il teatro è diventato un catalizzatore e un punto di riferimento per la vita culturale del territorio.
Complessivamente nel 2012 sono stati proposti 182 titoli, per un totale di 262 rappresentazioni e più di 96 mila spettatori. Fra i vari generi proposti, è stata la prosa a riscuotere i maggiori successi di pubblico (41%) e la percentuale più alta di incassi (44%).
Oltre al Teatro Stabile delle Marche, all’Associazione Amici della Musica Guido Michelli la fondazione ha costruito relazioni importanti anche con l’Orchestra Regionale Marchigiana, il Coro Bellini e la Cooperativa del Canguro.
Anche il rapporto con gli sponsor può considerarsi solido, la quasi totalità delle aziende ha riconfermato il rapporto nell’ultimo anno e la grande maggioranza di queste ha sede sul territorio.
Per quanto riguarda l’occupazione, a partire dal 2011 è stato avviato un processo di riorganizzazione generale nei comparti amministrativo, organizzativo e tecnico, che ha portato alla riattribuzione di responsabilità e funzioni.
Nell’ultimo anno sono stati 366 i lavoratori retribuiti che hanno prestato la loro opera alla fondazione, dato che segna un aumento del 4% rispetto al 2011. Le giornate lavorative complessive sono state 12.738, di cui 2.120 relative alla stagione lirica.
Il personale di staff e tecnico, nel corso del triennio 2010-2012 è stato ampliato di oltre 1.700 risorse a fronte di una riduzione proporzionale nel personale lirico.
La razionalizzazione dei servizi ha investito anche l’area tecnica, diverse collaborazioni sono state ricontrattate e la dotazione tecnologica della struttura è stata riqualificata, perseguendo una politica di riduzione dei costi e di basso consumo energetico.
L’impegno nella responsabilità sociale della Fondazione Teatro delle Muse spazia dall’attenzione per la sicurezza sul posto di lavoro e la trasparenza amministrativo-contabile alla tutela dell’ambiente, con la riduzione dei consumi e delle emissioni di CO2.
Da questo caso italiano di eccellenza c’è molto da imparare, la grande attenzione per la razionalizzazione dei costi, l’ottimizzazione dei servizi e il continuo monitoraggio delle attività le hanno consentito di saldare il debito patrimoniale e chiudere con un utile superiore ai cento mila euro in un periodo storico difficile, contrassegnato dalla progressiva riduzione del sostegno pubblico alla cultura e da una crisi economica di vasta portata.
Queste performance di controllo dei costi devono però rappresentare solo un punto di partenza. Il contributo pubblico alla cultura sarà sempre più incerto negli anni a venire ed è sull’autofinanzimento, le attività commerciali e il fundraising che si giocherà la sostenibilità delle organizzazioni culturali.
Il Teatro delle Muse, dalla sua riapertura del 2002, ha saputo costruirsi un ruolo da protagonista sul territorio. L’ampia e variegata offerta di attività culturali ed educative di alta qualità, l’attenzione a diverse fasce di pubblico, la collaborazione con gli attori culturali ed economici del territorio, i grandi numeri sul piano dell’occupazione e l’impegno etico nella responsabilità sociale sono tutti fattori che concorrono nel farne uno del Enti culturali più rilevanti dell’intero territorio regionale.
Lecce fu definita città-chiesa, per l’infinito numero di edifici di culto che nella gloriosa età barocca hanno contrassegnato il suo profilo urbanistico.
Oggi molti conventi e monasteri sono stati riconvertiti a spazi museali, sedi universitarie e centri culturali.
Tra questi l’ex convento di Santa Chiara, che da poco più di un anno è diventato MUST, museo storico della città , uno spazio che si è subito caratterizzato per un ampio ventaglio di proposte e servizi in via di definizione. Oltre al percorso permanente dedicato alla scultura di Cosimo Carlucci (1919-1987) – artista salentino di nascita e romano d’adozione, che nel corso del suo lungo percorso riscosse consensi notevoli di critica da parte di Argan, per esempio – con opere da lui stesso donate, prima della morte, al Comune di Lecce, nelle ultime settimane è stato possibile inoltrarsi nel primo step del progetto Mustinart. Generazioni a confronto.
Nelle intenzioni di Nicola Elia, il direttore del museo, questo nuovo format vuole essere un contenitore multidisciplinare – dalle arti visive al design, dall’architettura alla didattica e alla musica – che guarda anzitutto al territorio di riferimento, ma che prevede, per tutto il 2013, anche interventi di artisti e operatori di altre aree. Si è appena conclusa una mostra dedicata alla collezione dell’Istituto statale d’arte Giuseppe Pellegrino della città, con opere di diverse epoche e orientamenti che hanno definito un percorso anzitutto didattico. Dalla scultura di Antonio Bortone (1844-1938), autore, tra gli altri, del monumento a Gino Capponi in Santa Croce a Firenze, e Gaetano Martinez (1892-1951), altro scultore meridionale che ebbe una straordinaria fortuna lontano dalla sua terra, in questo caso a Roma, per giungere a un itinerario di opere concepite dagli “allievi” che negli anni Cinquanta hanno rivitalizzato il clima dell’istituto, tra cui Fernando De Filippi e Salvatore Esposito, ma con lavori della produzione recente dei due artisti. E se nei prossimi giorni inizierà un nuovo ciclo, questa volta legato ad alcuni artisti under 30, con il coordinamento curatoriale di Toti Carpentieri, a conferma anche dell’ampio spettro di proposte per questo nuovo corso del museo, proseguono negli ambienti al piano terra del museo i laboratori didattici curati dall’associazione Leda, che ogni settimana coinvolgono i più piccoli per un percorso ad ampio raggio sull’arte e gli artisti del nostro tempo, e non solo.
Quello dei servizi aggiuntivi è uno dei punti di forza del nuovo spazio, il primo in Puglia a dotarsi ad esempio di una caffetteria attrezzata (ospitata tra l’altro in un ambiente fascinoso), mentre sono in cantiere diversi programmi per il bookshop, che è comunque già operativo da qualche mese.
Ma se un sistema strutturato dell’arte contemporanea a Lecce e in Salento stenta in ogni caso a svilupparsi, anche per via della mancanza di un collezionismo dinamico e di un’operatività continuativa da parte delle pochissime gallerie attive sul territorio, risulta abbastanza vitale quella delle associazioni e degli spazi “alternativi”, che sono poi la linfa vitale di molte città del sud, come conferma anche il coinvolgimento di alcune per la definizione del programma, naturalmente coordinato dal Comune, che sarà presentato nei prossimi mesi per la candidatura della città a capitale europea della cultura per il 2019.
Tra questi in prima linea vi è sicuramente Ammirato Culture House, ospitata in quella che fu la dimora dell’umanista Scipione Ammirato, che grazie a un accordo tra Comune di Lecce, l’associazione culturale Loop House e Musagetes Foundation, la fondazione canadese che sostiene il cambiamento sociale attraverso pratiche artistiche multidisciplinari, propone workshop e dialoghi tra artisti di diversi orientamenti, caratterizzando positivamente la programmazione di questo spazio, che ultimamente si avvale anche dell’associazione Damage Good, molto attenta sui territori della fotografia e della videoarte. Una lunga storia culturale “impegnata” è anche quella dei Cantieri teatrali Koreja, teatro sperimentale ospitato in un grande capannone industriale nella periferia della città, che negli ultimi quattro anni ha proposto Senso plurimo, un progetto curatoriale di Marinilde Giannandrea destinato a un’indagine sulle differenti ricerche dei giovani artisti di area meridionale, mediante una mappatura che ha coinvolto spesso anche altri critici e curatori.
Altro spazio dinamico sono le Manifatture Knos, il classico luogo di archeologia industriale riconvertito per finalità culturali. Oltre al Cineporto dell’Apulia Film Commission, ospita laboratori creativi, spazi espositivi e numerose attività che vanno dalla musica al teatro, dalla didattica dell’arte alle residenze artistiche. Qui due anni fa fu ospitato Default, il progetto che sarà riproposto dal settembre prossimo con diciotto artisti (metà europei e metà asiatici), selezionati con un bando internazionale, che dialogheranno in città con diversi partners internazionali (info ramdom.net).
Ma il fermento è anche frutto di operazioni silenziose, lunghe militanze da parte degli operatori di settore, che hanno sfornato in questi anni – complici anche i finanziamenti destinati dalla Regione Puglia alla giovane creatività e alla nuova imprenditoria culturale – appuntamenti legati ai più svariati ambiti dell’arte. Per non parlare delle aree limitrofe, il chiacchierato Salento, palestra in divenire di numerose esperienze di recupero della tradizione, con prospettive talvolta sostenibili. Impossibile sintetizzare orientamenti e umori di questa sorta di rinascita, anche perché la quantità delle proposte è notevole, non sempre di estrema qualità però, bisogna riconoscerlo. Nonostante la bellezza delle strutture – masserie, castelli, conventi, chiese sconsacrate –, la programmazione non continuativa di alcune realtà rischia infatti di non qualificare fino in fondo un territorio che invece negli ultimi anni brilla per visibilità e affluenze turistiche.
Foto di Jenny Okun
… non può bastare la voce di una canzone per lasciarsi andare.
La musica c’è tutta, ma la scatola che la contiene vacilla sempre di più. Certe piccole voci, che a volte vanno al cuore, insistono sui due soliti fronti: i guelfi difendono l’esistente senza volerlo mettere in discussione, come se l’opera fosse l’ennesimo dogma; i ghibellini vorrebbero smantellare il sistema della lirica, al grido ormai meccanico di ‘tutti a casa’. Che fare?
Quando il tempo va in fretta occorre ragionare con flemma, fingendo di avere davanti l’eternità; sennò si rischia la solita deriva italiana dell’emergenza permanente. Intanto, evitiamo la caccia al colpevole; per quanto le scelte si possano adottare in tanti modi diversi alcuni dei quali possono rivelarsi imperfetti, le tare gestionali e finanziarie della lirica italiana risalgono a vari snodi legislativi (e alle tante prassi autolesionistiche che ne sono conseguite): quando le regole sono sbagliate anche il più volenteroso tra i gestori si trova impigliato in una gabbia paludosa e asfissiante. Il Maggio Musicale è in buona compagnia; commissariato qualche anno fa come il San Carlo prima e il Petruzzelli dopo, fonte e vittima di dispute feudali come nel corso degli anni il Comunale di Bologna, il Massimo di Palermo e il Lirico di Cagliari, paga lo scotto di una visione obsoleta e dilatoria del sistema operistico italiano.
E’ il caso di buttare l’acqua sporca con tutto il bambino? Forse bisognerebbe porsi le domande giuste, magari spostando l’attenzione dalle dimensioni della forza-lavoro alle sue modalità d’impiego, dalla rincorsa dello star-system d’agenzia all’autonomia imprenditoriale delle masse (orchestra e coro), dalla museificazione di un repertorio tendenzialmente mainstream alle opportunità connesse con i nuovi mercati della cultura, dal consolidamento degli abbonati alla ricerca di nuovi e più fertili pubblici. Al contrario, al Maggio come in altri teatri lirici si rischia di elaborare l’ennesimo palliativo che serve solo a rinviare il momento della verità: la lirica italiana, così com’è, non è sostenibile. E non si tratta di ridurre il finanziamento pubblico o di confidare in modo wishful (e wasteful) sugli sponsor, ma di riscrivere le regole del gioco, complessivamente e radicalmente.
Il mondo è davvero cambiato; che se ne sia accorta anche la Chiesa Cattolica – per sua natura abituata a tempi epocali – e faccia finta di niente il sistema culturale ci può solo preoccupare. Salvo che non si aspetti il fallimento di qualche istituzione culturale per avere il coraggio di ristrutturare un mondo creativo, produttivo e di scambio e condivisione che non può essere imitato o clonato. Infungibile per sua natura, la cultura merita un legislatore decente.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro
Il rapporto pubblicato dalla ECCIA (European Cultural and Creative Industries Alliance) sul contributo del settore del lusso all’economia europea parla chiaro: l’industria del lusso, con un fatturato pari al 3% del PIL europeo, ha un margine di crescita tra il 7% e il 9% entro il 2014 in un contesto macroeconomico che, al contrario, cede sotto i colpi della crisi. Considerato settore chiave in termini di occupazione, di garanzia della qualità e di creazione di un indotto, soprattutto in termini turistici, il lusso salverà, secondo lo studio, l’Europa dalla crisi. Ma si può dire altrettanto della cultura?
Il mercato dell’abbondanza trova un connubio proficuo con il settore culturale, là dove questo costituisce una fonte inesauribile di prestigio e una risorsa strategica. L’impegno delle Fondazioni a tutela delle espressioni artistiche è solo l’esempio più noto delle possibilità di sinergia tra settori. D’altro canto, creatività e innovazione sono concetti comuni che ricorrono nel descrivere sia il mercato del lusso, sia quello culturale. Lo spettro delle saldature possibili descrive un quadro di sperimentazione che varia da un massimo di ricerca del profitto economico, come nel caso delle collaborazioni di prodotto, fino ad un massimo di mecenatismo e filantropia, come per la politica aziendale della casa tedesca Dornbracht.
Questa azienda di lusso nel settore della rubinetteria, è sponsor di eventi che gravitano attorno al mondo della cultura per vocazione e passione familiare. Numerose sono le strategie usate dall’azienda nel confronto con il mercato culturale: dalle mostre in spazi espositivi come la Serpentine Gallery di Londra o il PS1 di New York, alle “Dornbracht Conversations”, dibattiti in cui gli interessi dell’azienda vengono incrociati con quelli dell’arte, dell’architettura e del design, al Megalog, un periodico in cui agli aggiornamenti di prodotto l’azienda affianca interventi sul mercato della cultura, conformemente agli impegni presi in quest’ambito.
La collaborazione azienda-artista è un esempio di massimo rendimento economico. È celebre a tal proposito la sinergia nata anche tra Maison Vuitton e l’artistar giapponese Yayoi Kusama per la creazione di una collezione ibrida in cui i pois, marca di stile dell’artista, hanno contaminato gli oggetti-feticcio della griffe francese. Visibilità e successo per entrambi, ma anche riscoperta di una manualità che fa parte tanto dell’oggetto di lusso quanto di quello d’arte. E poi contaminazione tra i due sistemi, sia nell’appeal dell’edizione limitata, sia nella trasformazione della vetrina e dello showroom da spazio commerciale per pochi a luogo espositivo per il pubblico.
Se tra cultura e lusso la collaborazione di prodotto è la strategia di più evidente beneficio economico a vantaggio delle parti, la partnership pubblico-privato sembrerebbe invece meno votata ad un ritorno sotto questo profilo. Pur nella diversità dei casi, è evidente che in queste logiche vi siano un impianto strategico e benefici per entrambe le parti. Comune è infatti la volontà di ricevere dal mondo della cultura plusvalore in termini di innovazione e dinamismo, di migliorare il posizionamento e aumentare il proprio prestigio. Anche se il brand di lusso non mira ad ampliare il proprio bacino di acquirenti su scala di massa, le iniziative culturali creano esternalità e benefici per un pubblico più vasto. Sia nelle partnership, sia nelle collaborazioni più commerciali, il mondo della cultura e dell’arte amplia a sua volta i propri scambi e rapporti e crea valore per sé e per i fruitori.
Perchè questo rapporto sia possibile con questa simmetria, è però necessario sradicare la convinzione per cui il mondo della cultura sia il solo beneficiario di tali sinergie. Solo pensandosi come mercato, in termini competitivi e di profitto, esso potrà riconoscere che con il lusso non vi è un rapporto di mero salvataggio, ma di scambio reciproco.
Avete mai provato a spulciare il bilancio di una Fondazione? Provateci e vi accorgerete che trovare documenti chiari, concisi e di facile lettura, sarà molto più arduo di quanto pensiate. Probabilmente vi troverete impanati su dati, numeri e percentuali che poco vi illustreranno la situazione economica di questi istituti, nati da più di vent’anni con lo scopo di scorporare le funzioni imprenditoriali da quelle di diritto pubblico. Obiettivo allora era quello di portare così alla separazione delle fondazioni dalle banche che da pubbliche sono state privatizzate in s.p.a appetibili per il mercato. Tuttavia ad oggi al di là di quali siano le loro erogazioni e in quali settori queste ricadono, il fine del proprio operato, da nessuna parte viene spiegato in maniera esaustiva dove questi fondi per operare vengono raccolti.
Ma andiamo con ordine per fare luce sulla genesi e su quali sono queste leggi che regolano questo mostro giuridico, come definito dallo stesso padre si queste istituzioni, il prof. Giuliano Amato:
– tutto inizia nel 1990 con la legge n 218/90 e Dlgs n 365/90 attraverso i quali viene avviato il processo di ristrutturazione del sistema bancario nazionale a seguito del quale le Casse di Risparmio (depositi di risparmio privato)e gli Istituti di Credito di Diritto pubblico venivano convertiti in società per azioni
– legge 494/94 e direttiva Dini del novembre 94: si cerca di dismettere quanto più possibile il controllo pubblico delle banche e a tal fine venivano introdotti degli incentivi fiscali in favore di quegli enti che avrebbero compiuto questa privatizzazione nei cinque anni successivi (94/99)
– legge Ciampi 1999 la quale ha delineato e riconosciuto la natura giuridica privata e la piena autonomia statutaria e gestionali delle Fondazioni.
– Legge Tremonti 2001 che ha riorganizzato e limitato i settori di intervento, al fine di impedire l’uso dei finanziamenti a pioggia per i progetti da realizzare, ma delineandone un piano di gestione triennale e i settori interessati
– Finanziaria del 2004 che elegge le incompatibilità per coloro che rivestono cariche di controllo e amministrazione all’interno delle Fondazioni
– Decreto legge del 2010 che introduce un’autorità di vigilanza che deve relazionare entro il 30 giugno di ogni anno sull’attività della Fondazione
Queste le linee generali, ma nella pratica l’iter di separazione delle ingerenze politiche dalle banche ormai quotate in borsa e quindi passibili di dividendi e ricavi, non è mai avvenuto completamente. Ad oggi, infatti attraverso l’istituto della Fondazione Bancaria i componenti dei consigli d’amministrazione si trovano a possedere percentuali di maggioranza (in genere in capitale azionario) delle banche, da cui originariamente erano state scorporate. Capitale azionario equivale non solo quindi a remunerazione di dividendi, ma inoltre, come nel caso ben noto della Monte dei Paschi di Siena, è sinonimo di controllo nelle decisioni prese durante le assemblee ordinarie e straordinarie negli istituti di credito. Tuttavia, il patrimonio delle fondazioni non si limita alle quote bancarie. Sebbene sia difficile dai siti istituzionali risalire ad un quadro chiaro delle partecipazioni in società private, ecco qualche dato sul giro d’affari delle nostre fondazioni:
il patrimonio totale delle 88 fondazioni bancarie presenti nel nostro paese ( di cui una maggioranza cospicua hanno sede al nord piuttosto che al sud, perché originariamente la casse di risparmio erano lì situate) ammonta a 43,034 miliardi di euro, così suddivisi:
Fondazione Cariplo, nata dalla ex banca Cariplo che una volta fusa con il Banco Ambrosiano ha dato vita a Banca Intesa, è presieduta dal 1997 da Giuseppe Guzzetti, 78 anni (ex democrazia cristiana) e possiede un patrimonio di 5,3 miliardi di euro, gestiti dalla Polaris Investimenti. Oltre a quasi il 5% di Banca Intesa San Paolo, la Fondazione ha investito 476 milioni di euro in Generali, Mediaset, A2A, Fiera Milano, Acsm. Patrimonio totale 6,449 miliardi
Compagnia di San Paolo, il cui presidente è l’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino, detiene quasi il 10% di Intesa San Paolo, il 4,2% di fondi azionari, 30% di obbligazioni e il 6% di fondi monetari investiti attraverso la Fondaco sgr. Patrimonio totale 5,559 miliardi
Fondazione cassa di risparmio Verona o Cariverona, presieduta da Paolo Biasi (74 anni) uno degli uomini più importanti della finanza italiana. Possiede il 3,50% di Unicredit e quasi il 2% di Mediobanca. Ha inoltre investito 767,5 milioni in obbligazioni. Le sue partecipazioni in borsa gli hanno fruttato 55,7 milioni di dividendi. Patrimonio totale 2,647 miliardi.
La Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, il cui presidente in scadenza è Antonio Maria Marocco, in carica dal 2009 e proveniente dal consiglio d’amministrazione di Unicredit. Anche in questo caso non sono esigue le quote bancarie in mano alla Fondazione: 2,5 % di Unicredit insieme a partecipazioni nel Banco Sabadell, Mediobanca e Société Générale. A questo si aggiunge il 6% di Atlantia e l’1% di Cassa Depositi e Prestiti per un patrimonio totale che ammonta a 1,914 miliardi.
Antonio Finotti a 84 anni gestisce invece 1,733 miliardi della Fondazione Cassa di risparmio Padova e Rovigo: il 4,7% è la quota di Intesa San Paolo, 1,03% della Cassa Depositi e Prestiti, l’1,6% del Fondi italiani infrastrutture (il cui amministratore delegato Vito Gamberale ha appena acquisito il 44% degli aeroporti di Milano), il 23,37% di Fondaco Sgr, 35%di Gradiente Sgr. 11,4 milioni della Fondazione sono stati investiti in Fondazione per il Sud, 6,7 milioni in Sinloc Spa e 7 milioni in Banca Prossima.
Dello scandalo scoppiato della Mps forse non è mai stato sottolineato quali sono le partecipazioni effettive della Fondazione: oltre al 34,94% dell’omonima banca, di cui a seguito delle indagini tuttavia cederà un 10%, possiede 100% di Siena Biotech, 1% di Sator, 1% di Treccani spa, 30 % di Finanziaria Senese Sviluppo, e 34,6 milioni dei suoi fondi sono investiti in Fondazione per il Sud. Il suo presidente Gabriello Mancini ha iniziato la sua carriera politica nella Dc per continuare nel Pd e ad oggi gestisce un patrimonio di 1,283 miliardi
Poco di più, intorno ai 1,294 miliardi invece amministra Iacopo Mazzei, ex manager Fingen, che con i suoi 58 anni è a capo di Ente Carifirenze, che possiede il 3,32% di Intesa San Paolo, 1% di Cassa Depositi e Prestiti, il 17,5% dell’aeroporto di Firenze, 40 milioni di obbligazioni Unicredit, 6,5 milioni in Generali, 46 milioni in azioni Enel.
Infine la Fondazione Roma di Emmanele Emanuele, discendente di una nobile famiglia spagnola, si ritrova a gestire tuttavia un patrimonio più esiguo, 1,432 miliardi. Questo probabilmente perché è l’unica fondazione ad essere quasi completamente uscita dal controllo bancario: detiene solo lo 0,48% di Unicredit, 4,25% di Esi, 0,1% di Banca Nuova Terra, 2,17% di Sator e 1,71% della Fondazione per il sud.
Alla luce di queste ripartizioni due sono le considerazioni su cui riflettere:
l’ammontare di denaro gestito dalla Fondazioni è piuttosto rilevante e, nella maggior parte dei casi, la separazione tra fondazione e banca conferitaria non è mai stato portato a termine. Se a questo aggiungiamo il particolare che i fondi derivano dalla ex Casse di Risparmio (e quindi si tratta di risparmi privati) e non da ultimo che tutte 88 insieme detengono una partecipazione del 30% su Cassa Depositi e Prestiti che equivale a dire gestire i risparmi dei libretti postali degli italiani, capire da dove provengono tutti quei miliardi che le fondazioni sono in grado di gestire, non è difficile.
La seconda è che, pur essendo riconosciute come enti di diritto privato, in realtà le fondazioni sembrano rivestire, in modo molto incisivo, il ruolo di un autentico rifugio per coloro che le presiedono: si tratta, infatti, di personalità con alle spalle una lunga carriera politica destinata a finire proprio con il premio di una poltrona ai vertici di questi istituti per presiederne l’organizzazione e gestione finanziaria.
A grandi linee quale fosse il problema fondamentale che prima o poi avrebbe portato alla rottura del sistema lo sapevano tutti: nonostante sia stata approvata una legge che lo vieti, come fa una fondazione a detenere ancora la maggioranza azionaria di una banca? E non si tratta di un caso limitato alla sola Fondazione Monte dei Paschi, la cui partecipazione alla Banca Monte dei Paschi sino allo scorso anno raggiungeva quota 45%, per scendere all’odierno 33 %, perché il sistema delle Fondazioni bancarie, sebbene ci sai stato un tentativo di blocco nel 1999, continua a proliferale in un contesto in cui l’unico ente adibito al controllo è il Ministero dell’Economia e non un’Authority dedicata di cui si auspica l’avvento da sempre.
Probabilmente se non fosse stato reso noto il buco di bilancio maturato dall’istituto bancario toscano nel lontano 2005/2006, quando il presidente era Giusepe Mussari, appena dimessosi dalla presidenza dell’Abi (Associazione Bancaria Italiana) e alla guida della Banca d’Italia c’era invece Mario Draghi, l’indissolubile e problematico intreccio tra banche e fondazioni non sarebbe mai tornato alla cronaca. I fatti piuttosto noti che stanno monopolizzando il dibattito elettorale in questi giorni sono noti:
1)Mps ha acquistato Antonveneta pagandola più del prezzo di mercato, per un ammontare di 9 miliardi, gravando in questo modo sul proprio bilancio e contribuendo così alla creazione del passivo (non era stata effettuata infatti una due diligence preventiva adeguata per accertare la possibilità effettiva del patrimonio bancario di poter fare questa acquisizione)
2)Per mascherare le perdite di 220 milioni di euro Mps si affida alla banca giapponese Nomura che acconsente a comprare la perdita, chiedendo i cambio però che l’istituto senese investisse in un operazione rischiosa, l’acquisto di Btp italiani a termine trentennale.
Nel pieno della bufera che sta investendo i vertici dell’istituto, la Fondazione non è rimasta illesa: il coinvolgimento del consiglio d’amministrazione dell’istituzione no profit nel deficit bancario difatti è piuttosto evidente, dal momento che la principale detentrice delle azioni bancarie era proprio la suddetta Fondazione, attraverso i componenti del suo consiglio d’amministrazione (come da statuto infatti questo è l’unico organo che può dirigerla, essendo l’assemblea di controllo non prevista).
Il rapporto reciproco do ut des tra istituto bancario e fondazione all’interno del territorio senese era piuttosto noto e mai tenuto nascosto. La fondazione Monte Paschi, infatti, oltre a detenere le azioni di uno degli istituti bancari più antichi al mondo e esserne imprescindibilmente legata da un rapporto di simbiosi dalla sua nascita, è tecnicamente una fondazione di erogazione: non solo gestisce la propria amministrazione, ma finanzia inoltre enti esterni che perseguono il suo stesso fine. L’elenco degli enti sovvenzionati dalla fondazione senese è piuttosto cospicuo e comprende enti, associazioni, biblioteche, circoli, tutti situati nel territorio di Siena a Provincia. Non solo: la Fondazione ha da sempre ricoperto un ruolo di primo piano, attraverso Mps, per il sovvenzionamento del celebre e tradizionale Palio della città (255 mila euro l’anno), confermando il suo radicamento molto forte per l’economia e l’organizzazione culturale del territorio circostante.
Non a caso, dunque, il crack bancario sta travolgendo l’intera città di Siena con tutte le strutture che dipendevano dal connubio banca- fondazione. Con il suo ferreo controllo inoltre nelle fila e nella gestione della banca, non cedendo in alcun caso il suo capitale azionario da poter rivendere ai privati, la Fondazione in questi anni ha praticamente impedito la ricapitalizzazione del patrimonio bancario, impedendone così il rientro del debito: mantenendo il 33% dell’azionariato infatti, questa ha mantenuto il controllo delle assemblee straordinarie. Eppure in questi giorni il consiglio d’amministrazione dell’ente no profit sembra intenzionato a tornare sui suoi passi e probabilmente non è un caso: ormai la ricapitalizzazione della banca è ritenuta una via d’uscita necessaria, alla luce dei gravi dissesti emersi dall’inchiesta in corso, e la Fondazione si è addirittura offerta a cedere il 10% delle proprie azioni. Probabilmente non solo per permettere l’aumento di capitale, ma evidentemente anche per allontanare il sospetto delle dirette responsabilità ricoperte in questa vicenda.
Quale sarà quindi il destino della Fondazione non è dato saperlo e chissà se questi ultimi avvenimenti abbiano definitivamente spianato la strada ad una riforma vera e propria che porti alla separazione dei rapporti tra fondazioni ed istituti bancari, come auspicato da tempo. Perduto il controllo nella gestione dell’istituto bancario, attraverso quali mezzi la fondazione continuerà a finanziare i suoi numerosi progetti e a concedere erogazioni? Intanto a risanare le casse della banca Monte dei Paschi ci sta pensando lo Stato italiano, attraverso l’emanazione di 3.9 miliardi di Monti Bond, fondi solo prestati come ha tenuto a precisare il ministro dell’Economia Vittorio Grilli, che dovranno essere restituiti con un tasso d’interesse del 9% il primo anno sino ad aumentare dello 0,5% negli anni successivi, sino ad un massimo del 15%. Ma come potrà una banca così indebitata ripagare i suoi passivi con interessi così onerosi? La Fondazione si sta ritirando nel momento opportuno, per non finire forse la sua gloriosa storia insieme alla banca di cui ha mantenuto le redini, ma d’altra parte troppo in ritardo, perché uscendo prima di scena avrebbe attenuato la propria sfera d’influenza e consentito un futuro diverso all’istituto di credito, che non meno di due anni fa, prima di acquisire Antonveneta, stava per fondersi con Bnl.
TAFTER, in qualità di partner del bando Che Fare, vi fa conoscere da vicino i 6 finalisti del premio dedicato all’innovazione sociale. Fino a sabato 26 gennaio, uno per uno, i responsabili dei progetti finalisti ci mostrano i loro obiettivi, i loro sacrifici e le loro ambizioni nel caso risultassero tra i favoriti della Giuria. La votazione finale, si svolgerà il 27 gennaio.
Verrà data comunicazione ufficiale del vincitore martedì 29 gennaio. Siete pronti a scommettere sul vincitore?
Parliamo di Crisi 2.0 con i portavoce del Teatro Valle Occupato, dove il progetto è stato ideato
Siete tra i 6 finalisti del premio Che Fare. Come è nato il vostro progetto?
Il progetto Crisi 2.0 nasce all’interno del percorso del Teatro Valle Occupato. Dal 14 giugno 2011 al Valle si è innescato un processo costituente per la creazione di una istituzione nuova, creata dal basso, a partire dai desideri degli artisti e raccogliendo le proposte dei cittadini. In questi mesi abbiamo scritto lo statuto di una Fondazione Bene Comune come messa a punto di un sistema giuridico ed economico radicalmente innovativo. All’interno di un dibattito pubblico e partecipato è emersa la volontà di trasformare il Teatro Valle in un luogo dedicato alla scrittura teatrale con vocazione alla produzione, alla promozione, alla formazione. Il desiderio di fare del Valle una casa per le drammaturgie contemporanee risponde all’esigenza di riaprire un processo di narrazione e rappresentazione della realtà, che nell’ultimo mezzo secolo della vita del nostro paese ha subito un’involuzione, un congelamento. CRISI è il progetto pilota che realizzerà il nucleo essenziale della vocazione artistica della Fondazione Teatro Valle, prima istituzione Bene Comune in Italia.
Perché il vostro progetto è innovativo?
Il progetto presenta diversi punti di novità. -Lo studente è considerato a tutti gli effetti un lavoratore. Lo Statuto sociale europeo degli artisti sottolinea che “occorre prendere in considerazione la natura atipica e precaria di tutte le professioni sceniche” e che “tutti gli artisti esercitano la loro attività in modo permanente, non limitandosi alle ore di prestazione artistica”. Incoraggia “a sviluppare la definizione di contratti di formazione/qualificazione nelle professioni artistiche”. Il progetto introduce in Italia il concetto che le ore di formazione sono ore di lavoro a tutti gli effetti. -Il pubblico che lo voglia è parte integrante del processo creativo: è presente, consultabile e consultato. Lo spettatore non è trattato come un acquirente di biglietti (il laboratorio è accessibile gratuitamente agli uditori) e partecipa attivamente alla scrittura dello spettacolo a cui vorrebbe assistere. Tutti i teatri europei sono naturali centri di aggregazione e di confronto tra artisti e artisti e pubblico. Crisi 2.0 aiuta a superare l’idea di Teatro come luogo dove si entra, si vede lo spettacolo e si va a casa. -Il passaggio dalla formazione alla produzione è graduale: lo studio è finalizzato alla produzione di drammaturgie e quindi alla condivisione, la produzione a sua volta è la naturale conseguenza di uno studio e di un percorso condiviso, non un generico fare business.
-L’impegno a rafforzare i rapporti e la collaborazione con diversi Teatri europei una maggior diffusione della scrittura italiana – sempre più ai margini della contemporaneità. Nell’ambito del progetto CRISI 2.0 saranno invitati a partecipare drammaturghi di altri Paesi, dando vita ad un’esperienza di lavoro fondata su confronto, collaborazione e scambio di saperi.
In che modo riuscirete a rendere economicamente sostenibile la vostra idea?
“Crisi 2.0” sarà sostenibile economicamente attraverso diverse fonti. Una di esse immaginiamo sia la produzione di contenuti audiovisivi per canali Tv tematici satellitari o generalisti che abbiano programmazioni culturali diversificate, oppure per Web Tv di portali di rilievo nazionale che possano valorizzare su importanti audience questo innovativo progetto formativo e creativo. Il percorso formativo prevede anche la produzione di occasioni di presentazione –spettacolo per ogni settimana di lavori. Contiamo molto sulla partecipazione della cittadinanza che in questo anno e mezzo di lavoro è stata protagonista di questo luogo e soprattutto di ciò che vi è stato creato. Attraverso la condivisione web di parte dei materiali audiovideo del laboratorio, e soprattutto di quelli testuali sulla piattaforma “eMend” di scrittura/revisione open-source, si svilupperanno canali di coinvolgimento della comunità anche a livello di crowdfunding. Anche un’attività di fundraising sarà sviluppata. E poi c’è l’idea di fare un libro in co-edizione. Una nostra piccola pubblicazione sta già ricevendo un appassionato interesse dalla cittadinanza. Le attività di formazione infine sono sempre più al centro di programmi di finanziamento europei e i progetti culturali saranno fondamentali nella nuova programmazione dei prossimi anni. “Crisi 2.0”, con i suoi sviluppi, come progetto culturale e formativo con al centro un forte componente di partecipazione della collettività e in virtù della sua vocazione internazionale costituirà un importante modo con cui la costituenda Fondazione Teatro Valle Bene Comune potrà accedere a tali finanziamenti.
Che obiettivi vi siete posti?
Trasformare il Teatro Valle nel nuovo polo per le scritture contemporanee all’altezza dei grandi Teatri europei. Il Teatro Valle deve diventare un centro permanente di riferimento per le drammaturgie, colmando un vuoto del nostro Paese e fornendo agli autori formazione, possibilità di incontri, opportunità di lavoro e agli addetti ai lavori e al pubblico la possibilità di conoscere le drammaturgie partecipando al processo di creazione.
Dateci 3 motivi per i quali la giuria dovrebbe votare per voi.
Crisi 2.0 rappresenta una concreta opportunità di confronto tra pubblico e palco, artisti e autori, accorcia la distanza tra spettatore e scena, idee e creazioni. Crea uno spazio di partecipazione per ricreare una vera e propria comunità intorno al teatro e consente di sviluppare il concetto di cultura come bene comune È fondamentale la nascita di un teatro dedicato alla scrittura teatrale, attento alla formazione e capace di interloquire alla pari con i suoi omologhi esistenti e operanti all’estero: il Royal Court Theatre di Londra, il Théâtre de la Colline di Parigi, la Schaubuhne di Berlino. Il progetto Crisi 2.0 non è solo un progetto. É la risposta concreta al desiderio di migliaia di persone che in questo anno e mezzo hanno creduto nella visione del Teatro Valle Occupato. Una visione che ha come missione la diffusione indiscriminata, aperta, inventiva, condivisa della cultura e dell’arte. Una visione che non prevede il male minore, che non insiste sulla difesa. Una visione performativa sull’esistente e sul presente che incarna l’imprudenza. Perché il ruolo dell’artista è di rendere la rivoluzione irresistibile.
La scheda di Crisi 2.0 su Che Fare
Leggi le interviste agli altri progetti finalisti su TAFTER
TAFTER, in qualità di partner del bando Che Fare, vi fa conoscere da vicino i 6 finalisti del premio dedicato all’innovazione sociale. Fino a sabato 26 gennaio, uno per uno, i responsabili dei progetti finalisti ci mostrano i loro obiettivi, i loro sacrifici e le loro ambizioni nel caso risultassero tra i favoriti della Giuria. La votazione finale, si svolgerà il 27 gennaio.
Verrà data comunicazione ufficiale del vincitore martedì 29 gennaio. Siete pronti a scommettere sul vincitore?
Parliamo della Fondazione di Comunità Locale Rione Sanità con L’Altra Napoli Onlus, promotrice del progetto
Siete tra i 6 finalisti del premio Che Fare. Come è nato il vostro progetto?
Il progetto di costituzione della Fondazione di Comunità Locale Rione Sanità, nasce dall’importante esperienza vissuta dal 2006 da un gruppo di soggetti no-profit al Rione Sanità di Napoli. Il Rione Sanità è senz’altro conosciuto per le notizie di cronaca nera e per i dati che lo rendono una periferia nel centro storico di Napoli: un quartiere con enormi tradizioni culturali, dove convivono oltre 32mila persone in poco più di 2 kmq, con un elevato tasso di microcriminalità e di disoccupazione giovanile (oltre il 60%). Una comunità locale fragile, un ghetto, che nonostante ciò conserva uno straordinario capitale umano e un inestimabile patrimonio storico-artistico.
Dal 2006 una rete composta da cittadini, associazioni no-profit – tra cui L’Altra Napoli Onlus – cooperative sociali, coop. di produzione lavoro, parrocchie e piccole fondazioni, portano avanti nel quartiere un intenso lavoro di recupero del territorio, attraverso progetti di riqualificazione ambientale, riapertura e valorizzazione dei beni storico-artistici affidati ai giovani del quartiere, promozione di imprese sociali, assistenza ai minori a rischio attraverso iniziative dal forte impatto culturale.
Questo network del terzo settore è riuscito in soli sei anni a realizzare oltre 15 progetti – raccogliendo circa 4,5 milioni di euro esclusivamente da finanziatori privati – che stanno cambiando in maniera significativa l’immagine e la realtà del quartiere. Grazie alle tante iniziative affidate ai cittadini ed in particolare ai giovani, oggi oltre 70 persone lavorano in questo circuito virtuoso fatto di orchestre giovanili, accademie di teatro, Basiliche e Catacombe paleocristiane, case di accoglienza per minori, aree verdi restituiti al quartiere.
Sono esempi di tutto ciò, progetti come la riapertura delle Catacombe di San Gennaro affidate ad una cooperativa di giovani del quartiere che, dopo un periodo di formazione e di start-up, sono riusciti ad aumentare in un solo anno gli ingressi delle catacombe del 300%, oppure l’Orchestra Giovanile Sanitansamble, un’orchestra sinfonica formata da 46 bambini del Rione Sanità che da cinque anni studiano assieme ai loro maestri ed è arrivata ad esibirsi in teatri importanti come il San Carlo e suonare l’inno nazionale per il Presidente Giorgio Napolitano.
Oggi questa rete mira alla costituzione di una Fondazione di Comunità Locale con la duplice mission di fundraising e grantmaking.
Perché il vostro progetto è innovativo?
Il progetto di Fondazione di Comunità Locale Rione Sanità intende dotare le realtà locali del quartiere di una infrastruttura sociale – un organismo basato sull’aggregazione e sulla collaborazione dei soggetti appartenenti della comunità di riferimento – in grado di attrarre risorse, di valorizzarle attraverso una oculata gestione patrimoniale e di investirle localmente in progetti di carattere sociale.
La Fondazione di Comunità Locale Rione Sanità sarà a tutti gli effetti un organismo nato dal basso, quale espressione dalla comunità locale che si organizza e si attiva per lo sviluppo del proprio territorio.
L’elemento più significativo è rappresentato dalla possibilità data alla collettività di investire nel proprio futuro, attivando risorse proprie per realizzare interventi in favore del recupero e dello sviluppo del proprio territorio.
In questi termini, significa che la Fondazione sarà un ente capace di leggere e comprendere i bisogni e le esigenze espresse dal territorio, coinvolgere i suoi cittadini nel processo di valorizzazione, diffondere una cultura del “bene comune”, immaginare e realizzare nuove iniziative di sviluppo territoriale – con particolare attenzione verso l’arte e la cultura, attrarre risorse dall’esterno.
La Fondazione promuoverà inoltre la sperimentazione di piattaforme web orientate alla costituzione di comunità partecipate. Le piattaforme civiche, infatti, consentono una diretta partecipazione delle persone alla vita civica delle proprie comunità, fornendo loro strumenti tipici dei media sociali, che incentivano e rafforzano i legami sociali a livello locale.
In che modo riuscirete a rendere economicamente sostenibile la vostra idea?
Il patrimonio della Fondazione sarà costituito dalle donazioni raccolte in tre differenti fasi. Una prima fase riguarderà la fidelizzazione dei finanziatori che hanno sostenuto i progetti finora realizzati e le donazioni dei singoli cittadini. Con l’eventuale aggiudicazione del premio Che Fare, sarà possibile raggiungere la cifra di 500.000 €, e presentare il progetto della Fondazione alla Fondazione con il Sud che, dopo un processo di valutazione, provvederebbe al raddoppio del patrimonio.
Raggiunto il capitale iniziale di 1 milione di euro, si programmerà una strategia di fund raising che avrà l’obiettivo di raccogliere in un arco di tempo di 7 anni, altri fondi per circa 1,5 milioni che, anche in questo caso, la Fondazione con il Sud raddoppierà per costituire un patrimonio di 5 milioni di euro.
Che obiettivi vi siete posti?
La Fondazione – attraverso una logica di economia solidale e di coworking – sarà in grado di promuovere l’intrapresa giovanile, investendo sulla formazione e sullo lo scambio di risorse e competenze, a tutela anche dell’identità culturale del territorio.
Essa ha pertanto come obiettivo iniziale quello di raccogliere e costituire un patrimonio la cui redditività sarà permanentemente destinata al finanziamento delle attività di promozione e di sviluppo socio-culturale del territorio: maggiore l’incremento del patrimonio, maggiori gli investimenti sociali in tale direzione.
I principi costitutivi della Fondazione saranno orientati verso la nascita di un’istituzione comunitaria partecipata, indipendente ed autonoma, mirata al raggiungimento di risultati e obiettivi concreti e localmente rilevanti.
Con l’approvazione del Bando Che Fare, sarà inoltre istituito dalla Fondazione un fondo dedicato: “Che Fare_qui”, rivolto al sostegno di interventi di social innovation.
Dateci 3 motivi per i quali la giuria dovrebbe votare per voi.
Il progetto è fondato su tre assi:
– reale partecipazione e coinvolgimento diretto dei cittadini: far partecipare attivamente i residenti è fondamentale per ottenere risultati duraturi; sono i cittadini a pianificare il proprio futuro.
– indipendenza e autonomia da istituzioni pubbliche o private: dopo una storia di 6 anni fatta di risultati e ricadute importanti per il Rione Sanità, tanto da farne un caso nazionale di recupero territoriale attraverso l’arte e la cultura, non vi era altra alternativa che guardare al futuro e puntare le basi per la propria auto sostenibilità.
– riproducibilità e replicabilità futura: il progetto vuole mettersi in rete e rendere disponibile le sue esperienze per tutti coloro che volessero gemmare un’esperienza simile in altri territori.
La scheda della Fondazione di Comunità Locale Rione Sanità su Che Fare
Leggi le interviste agli altri progetti finalisti su TAFTER
Dell’anno che sta per finire non c’è molto da ricordare. Purtroppo non c’è granché che possa valer la pena dimenticare. Ci siamo mai accorti dell’evanescenza di un ministro? O della palude in cui si dibatte la lirica? O delle occupazioni senza progetto? La cultura italiana continua a mantenersi in bilico tra istituzioni sotto la tenda a ossigeno e fermenti silenziosi che sfidano diffidenza e supponenza. Che cosa ci lascia il 2012? Poca roba, se mettiamo da parte le dispute tardo-feudali, i pettegolezzi sulle nomine, le mostre per turisti disorientati.
Le presunte eccellenze del Paese languiscono nelle teche del pregiudizio e non hanno più orgoglio: Pompei crolla a puntate e viene sistematicamente snobbata; Brera annaspa tra le etichette formali senza elaborare alcuna strategia; il MAXXI non ha ancora diritto alla I del ventunesimo secolo, e rimane un contenitore magnifico e amorfo di cose ormai classiche; molte fondazioni liriche sarebbero già tecnicamente fallite e galleggiano grazie ad artifici contabili; l’arte contemporanea viene creata e scambiata altrove; design e moda sono un tenero ricordo.
Del futuro rimane ben poco. Ci salva il vino che si è preso sul serio e si comporta da cosmopolita: nei prossimi anni il vitigno di brand sarà il Nerello Mascalese che sulla lava etnea forgia la propria unicità ma sa muoversi per le vie del mondo come i mercanti del Rinascimento. L’Expo 2015 rimane una gigantesca incognita e rischia l’epicfail per sicumera a buon mercato. Le capitali europee del 2019, una volta finita la rissa per il titolo, dovranno fare i conti con l’assenza di vera strategia, altro che smart cities.
E spiace che anche l’agenda Monti, sulla quale gli archeologi del quarto millennio cercheranno di capire che cos’era l’Italia degli anni Dieci, abbia deposto la cultura nello scaffale dell’ovvio: pubblico e privato, senza dire perché e come; turismo internazionale, come se non bastassero i danni già prodotti. Non una riga di conforto sull’impresa, sulla libertà d’azione, sulla leggerezza delle regole, sulla valutazione della performance gestionale, sulla facilitazione dell’accesso ai mercati, sulla fiscalità incentivante.
Ah, inutile dire che la società italiana è ben più avanti dei suoi esegeti: la domanda di cultura continua a crescere, la potenza cognitiva del web si innerva in una comunità sempre più multiculturale, la creatività informale vede la luce in ecosistemi ostili; emergono con forza idee sperimentali che sanno coniugare urgenze estetiche e acutezze gestionali (qualche esempio? il Teatro delle Albe, Virgilio Sieni, il laboratorio del San Carlo, alcuni musei civici capaci di dialogare con i visitatori).
Tanto a casa quanto oltre frontiera le nostre qualità si affermano e convincono, dall’arte digitale alla ricerca medica, dalla creatività alla fisica nucleare. Ma il sistema cultura fa acqua, più o meno come tutti i comparti del sistema Paese. Gli Italiani sono (ben) fatti. Prima o poi bisognerà pur fare l’Italia.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro
Un imbarazzante spettacolo è stato messo in scena al Teatro Eliseo di Roma nella giornata di ieri in cui ci si è resi conto che chi gestisce il nostro più grande bene non ha visioni a lungo spettro e nessun tipo di scenario.
La giornata, organizzata anche in modo approssimativo, avrebbe meritato sicuramente una location più idonea ma la cosa che più ha fatto tristezza è stato quello che abbiamo visto alle 18 in punto.
Lo smontaggio frettoloso dell’impalcatura che era servita a sorreggere questo spettacolo perché il Teatro – sempre affascinante- doveva mettere in scena il suo spettacolo serale e la levata a gambe di tutti i protagonisti della giornata.
Così ci siamo ridotti a raccontare il futuro della cultura e della sua produzione culturale, chiedendo in prestito gratuito un Teatro, che racconta un grande e glorioso passato, ma non può interpretare e raccontare il futuro.
In una giornata lunga e tediosa si sono accavallate tante persone per lo più incapaci di parlare del futuro che sempre ripropongono i cavillosi temi del passato( mancano fondi, come è stato ridistribuito il FUS, etc).
Dai loggioni hanno gridato, inveito contro quasi tutti gli interventi: hanno chiesto visioni, opportunità, quelle che in tanti avevano sperato potessero arrivare da un Manifesto urlato a gran voce sul quotidiano economico nazionale e che purtroppo ha invece messo in luce le sue effimere debolezze.
I proclami di quest’ultimo anno avevano in tutti noi dato il coraggio di pensare che qualcosa sarebbe successo. Ed invece, la zattera del Manifesto per la Cultura, su cui tanti sono saliti nell’ultimo anno, è affondata: perché era stata costruita male, perché nessuno di quelli saliti a bordo era carpentiere o maestro d’ascia ma tutti inguaribili comandanti che discutevano da dove soffiava il vento mentre il fasciame delle murate si sgretolava sotto i loro piedi.
Ieri l’acqua fredda l’hanno sentita alle caviglie e anche gli stessi politici, chiamati alla messa in scena hanno tentato di portare la zattera sulla terra dell’equilibrio e del dialogo.
Come non citare l’ultimo intervento del ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera che, in modo quasi imbarazzante, ha ricordato che la cultura è il motore del paese; peccato che si sia dimenticato di accennarlo e scriverlo nel suo ultimo decreto Sviluppo.
Cos’altro dire: l’Italia ha bisogno di persone che sappiano sporcarsi le mani, che lavorino nell’industria culturale lottando affinché si produca profitto e non elemosinando fondi.
Di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati e navigatori il nostro Paese ne ha piene le tasche: servono uomini che sappiano prendersi le proprie responsabilità ragionando in un’ottica di raggiungimento di obiettivi concreti, anche di fatturato.
A Fabrizio Barca, Gabriella Belli, Antonio Cognata, Walter Santagata e agli altri chiediamo di partecipare realmente a questa accelerata. Chi ostacolerà, ostacolerà solo se stesso.
Stefano Monti è direttore editoriale di Tafter.it
E’ in corso dal 5 ottobre scorso ArtealCentro di una trasformazione sociale responsabile 2012, quindicesima edizione della rassegna organizzata annualmente da Cittadellarte – Fondazione Pistoletto, per promuovere cambiamenti sostenibili nella società, attraverso idee e progetti creativi.
Fino al 5 dicembre 2012, a Biella negli spazi dell’ex Lanificio Trombetta e a Graz presso il museo d’arte Kunsthaus Graz, ArtealCentro presenta quest’anno una serie di mostre per approfondire il tema del rapporto tra arte e trasformazione urbana.
Un gruppo di architetti incoraggia la partecipazione degli abitanti all’autogestione di spazi urbani in disuso per sviluppare una cultura di collaborazione e condivisione dal basso.
Leggi l’articolo completo su Culture in Social Responsibility
In effetti non ci sarebbero parole per raccontare questa mostra incredibile di Sissi alla Fondazione VOLUME di Roma, ma possiamo provare a condividere con i lettori un’emozione intelligente; che però dopo andrà vista. È un’esperienza, come tutte le mostre di arte contemporanea evoluta e colta dovrebbero essere dagli anni Venti in avanti. Per cui va fatta dal vivo.
Ed è un’esperienza toccante come tutte le cose che fa VOLUME, Fondazione no profit fondata da Franco e Daniela Nucci. Lui un neurochirurgo di fama internazionale, collezionista dalla nascita, appassionato di arte vera – cioè vissuta insieme agli artisti – tanto da spendere tutto quello che guadagna nella sua Fondazione, con progetti magnifici prodotti dai migliori artisti del mondo che hanno esposto a VOLUME dal 1997. Lei una Dea protettrice dell’arte: insieme ai figli e al genero progettano e organizzano cose molto ambiziose, come il Parco Nomade al Corviale di cui in questi giorni si è parlato in una inconsueta no stop tecnocratica al Ministero dei Beni Culturali. In effetti è un progetto di inclusione sociale attraverso le modalità dell’arte che poche volte ha visto la luce in Italia: informazioni al riguardo si possono reperire in rete oppure al Corviale stesso, il famigerato quartiere dormitorio di Roma, detto il Serpentone.
Sissi invece, bolognese di nascita e spirito, è una delle artiste più illuminate e interessanti dell’intero panorama mondiale e, come da richiesta di Nucci & Co. ha prodotto un evento–mostra–performance fatto di vera verità, alchimia autentica, arte profonda e toccante. Artista genuina, folle come un’auto lanciata a 200 km orari per le strade di Parigi. Da perdere la Senna… La performance è stata un fiume di parole sensate che rompono lo schema di vecchie verbosità accademiche, filtrate dai vocabolari noiosi e ottocenteschi che hanno passato il timbro della censura. Una cascata verso l’alto, diamanti dialettici per dormienti narcolettici. Un risveglio del senso e dei sensi, poesia ruggente, struggente e stridente di una donna davvero intelligente.
Le opere provengono da uno studio iniziato con la sua tesi di laurea conseguita all’Accademia delle Belle Arti a Bologna e poi evolutosi in un libro d’artista vero e proprio che Sissi sta riproducendo ora a mano in 6 copie uniche. Pagine riprodotte in formato gigante, rimesse insieme in un collage creato con interventi manuali, pittorici e grafici sulle immagini, completamente riscritte per esprimere le reazioni interne e interiori del corpo alle sollecitazioni morali esterne. Per esempio, come reagisce un corpo alla crisi, alle atmosfere pesanti di questo momento, alle disgrazie o alle buone notizie?
La scienza non potrebbe spiegarlo; Sissi ha trovato invece un modo culturale che, spostando i neuroni alla ricerca di una interiorità invisibile, coniuga esterno e interno in una sola, profondissima interiorità fisica e metafisica. Non solo: l’utero all’interno del quale Volume accoglie i suoi amici è stato vestito da Sissi in maniera magica, come solo una donna può fare. Per cui la mostra si trasforma nell’esperienza di tornare in grembo accompagnati da visioni traslucide come fosse un nuovo codice atlantico del corpo interiore.
Chi l’ha vista non ha ringraziato dal più profondo del cuore ma dal cuore più profondo. Che pensava di aver perso.
Mecenatismo e filantropia, due concetti che rimandano col pensiero a quei settori dell’economia e della società che necessitano di interventi di sostegno e incentivazione per alimentarsi e fiorire. E’ fra questi che si annovera la cultura.
Una delle voci più interessanti del dibattito attuale è l’economista Stefano Zamagni, il quale sottolinea la profonda differenza fra i due concetti. In vista del raggiungimento di un fine meritorio, il mecenatismo non presuppone la sola messa a disposizione di risorse, ma vuole fornire anche il know how e la creatività adeguati per realizzare l’obiettivo. Diversamente, la pratica filantropica si limita ad assegnare risorse, mancando di una effettiva condivisione dei processi. La differenza alla base è quella fra asset building e redistribuzione del reddito. Per consentire al settore artistico culturale di svilupparsi in modo duraturo è necessario, sostiene Zamagni, operare col mecenatismo sul versante dell’asset building, e non limitarsi ad una redistribuzione di risorse.
Questa riflessione mette in luce la debolezza di molte politiche culturali promosse nel Bel Paese. Lo Stato italiano storicamente si è posto come principale sovvenzionatore della cultura. Negli ultimi trent’anni, però, intuendo i benefici che possono derivare dalla decentralizzazione e dal connubio pubblico-privato, è stato avviato un processo di apertura. Dalla legge 512/1982 diverse disposizioni hanno incentivato l’attività di aziende, enti non commerciali e cittadini a sostegno alla cultura.
Nonostante il cambiamento intrapreso, le politiche culturali italiane sono sempre state caratterizzate da scarsa portata innovativa. I principali strumenti per contribuire al sostegno del settore sono le erogazioni liberali e i contratti di parternship e sponsorship. Sul versante delle erogazioni liberali le misure più incentivanti sono pensate per le imprese, le quali riescono a ottenere la deducibilità totale. Le imprese stesse sono i soggetti che più hanno elargito nel periodo 2005-2009 realizzando il 64,4% delle donazioni, seguite dagli enti non commerciali, fra cui le Fondazioni d’origine bancaria, con il 35,4% e dalle persone fisiche con il 0,2%.
Secondo quanto dichiarato dall’Ufficio Studi del MIBAC, fra le misure a sostegno al settore culturale le aziende eleggono come canale preferenziale una modalità operativa più vicina al marketing che alle dinamiche del non profit: nel nostro Paese è la sponsorizzazione la pratica maggiormente diffusa. Anch’essa consente la deducibilità totale delle somme erogate, rientranti fra le spese di pubblicità, ma prevede il pagamento dell’IVA. Le ragioni della preferenza sono quindi da rintracciarsi nel maggior corrispettivo garantito in termini di immagine, nella maggiore semplicità della procedura di attuazione e, infine, nella scarsa conoscenza della premialità associata alle donazioni.
Le Fondazioni d’origine bancaria negli ultimi anni, prima dell’acuirsi della crisi, hanno progressivamente aumentato il volume delle donazioni, emergendo fra i principali mecenati. Nel ruolo innovatore che potrebbero assumere nel settore culturale ha piena fiducia l’economista Pierluigi Sacco, che vede nella loro vocazione territoriale e diffusione nazionale le condizioni per farle promotrici di una rete di laboratori di sviluppo locale a base culturale. Altrettanto interessanti sono le possibilità aperte dalle Fondazioni di Comunità, soggetti di origine statunitense importati dalla Fondazione Cariplo e successivamente diffusi nel Nord Italia. Si caratterizzano per il forte radicamento territoriale e per saper rispondere ai bisogni locali con procedure organizzative flessibili e coinvolgendo direttamente i cittadini.
Le reti di fondazioni, promuovendo relazioni basate sul mecenatismo così come inteso da Zamagni, potrebbero dare nuovo impulso al sistema culturale italiano e alle sue politiche, restituendo al Bel Paese parte della leadership persa in questo settore.
Un dossier di circa 30 pagine attende i giornalisti presenti durante la conferenza stampa di questa mattina al MAXXI di Roma: il commissario straordinario Antonia Pasqua Recchia, subentrata lo scorso 16 aprile al presidente Pio Baldi dopo il diniego del bilancio preventivo 2012 da parte del MiBAC, ha voluto aprire in questo modo la presentazione del nuovo corso del museo d’arte romana capitolino che in questi 6 mesi è riuscito miracolosamente non solo a trovare nuovi sponsor, a risanare il bilancio preventivo con oltre 1 milione di euro di guadagni a fronte di un disavanzo di oltre 2 milioni: la gestione dei miracoli, verrebbe da chiamarla.
Ma i miracoli si sa, non accadono così di frequente e questo davvero non sembra essere tale.
Il commissario straordinario, infatti, snocciola dati su dati e acclama la venuta di nuovi sponsor che però, precisa, non si sa se entreranno nella fondazione, perché ancora non si sa nulla sul presidente e sul cda che verrà nominato il 31 ottobre dal ministro Ornaghi. Come fanno i privati ad investire grandi quantità di denaro se non hanno chiaro quale sia il futuro del MAXXI?
Ed è quello che infatti si sono chiesti un po’ tutti i presenti alla vista dei nomi dei nuovi sponsor tra cui figurano (in ordine di entità di investimento) Terna, Fendi, Autogrill e Cassina. Più le istituzioni come la Regione Calabria, la Camera di Commercio di Roma, la Festa del cinema di Roma (che ha finanziato le proiezioni di cinema all’interno del museo), il Miur e la Regione Basilicata che, insieme, hanno investito 500 mila euro nella programmazione del 2013 con progetti più o meno specifici.
Nulla trapela riguardo la casa-museo Fendi di cui tanto si era parlato in estate: “E’ un ipotesi – conferma la Pasqua Recchia – ma al momento non vi è nulla di preventivato. Sarà compito della nuova amministrazione eventualmente portare avanti questo progetto.”
Ma facciamo un passo indietro: come ha fatto quindi il commissario straordinario a far entrare oltre 3 milioni di euro nel bilancio 2012 del MAXXI?
“Ho bussato a tante porte, alcune mi sono state sbattute in faccia – dichiara – ma alla fine siamo soddisfatti del risultato ottenuto. Molte aziende hanno creduto in questa struttura e hanno fatto bene.”
In pratica, le uniche voci del bilancio che sono variate rispetto a quelle presentate da Pio Baldi al tempo, sono quelle relative ai ricavi per sponsorizzazioni e contributi terzi (le aziende e le istituzioni di cui sopra) e i contributi di MiBAC e Arcus.
“Tengo a precisare che abbiamo ottenuto il via libera per il contributo ministeriale solo 3 giorni fa. Non mi si dica quindi che il commissariamento è stato strumentale” afferma la Pasqua Recchia, probabilmente leggendo nella mente dei presenti a cui era stato detto, nella conferenza di qualche mese fa, che lo Stato non avrebbe potuto fare di più in termini economici.
A questi vanno poi aggiunti i 400 mila euro stanziati da Arcus, società che per il 2012 e 2013 continuerà la sua attività nonostante la liquidazione al 2014.
Insomma, alla fine il MAXXI sembra sia stato salvato, per mano dei privati si afferma con soddisfazione, anche se, come qualcuno fa notare, molte delle aziende “private” di cui si parla sono in gran parte “pubbliche” (si legga Invitalia, Comune di Roma, Miur, Regioni…)
Ora tutto è pronto per l’inaugurazione della mostra di Le Corbusier anche se gli occhi sono inevitabilmente già puntati su Jeff Koons, l’artista che il MAXXI ospiterà a dicembre e grazie al quale, a detta del commissario, la maison Fendi, avrebbe fatto carte false pur di poterlo finanziare.
Vediamo allora quanto durerà quest’aria di festa al Maxxi e se finalmente si riuscirà a pensare ad una gestione e programmazione a lungo termine, magari coordinando amministrazione e curatela per una governance davvero d’eccellenza che in Italia fatica ancora ad essere appresa.