Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Lucrezia Borgia, Artemisia Gentileschi, Galileo, la principessa Sissi, Claretta Petacci e Mussolini, si possono incontrare tutti in questo sito che permette di vedere documentari di tipo storico. È un marchio di “La storia in rete”, una società di produzione indipendente che si occupa di storia attraverso diversi canali, web e cartacei. Il portale dà accesso a documentari di storia, letteratura e arte, a pagamento, visibili in streaming, attraverso il supporto della piattaforma vimeo.com.
Usufruire del portale è molto semplice. I documentari sono divisi per epoche storiche dal “Mondo antico” al “Novecento”, più altre tre sezioni dedicate alle biografie, alle figure femminili e ai grandi enigmi della storia. È possibile vederne un trailer e leggerne un breve riassunto, in modo da avere un’anteprima del prodotto prima di acquistarlo. Una volta scelto il documentario è necessario comprarlo appoggiandosi alla piattaforma Vimeo. Questa richiede una breve registrazione e il pagamento nella valuta americana, in dollari. Il costo del video, che si può visualizzare per un periodo di 48 ore, è di 4.99 dollari, ovvero 3.65 euro. È poi possibile commentare il documentario e condividerlo attraverso i social.
Costituisce un modo piacevole e divertente per istruirsi, per conoscere, per appassionarsi di storia. Come specificato dai creatori stessi dell’idea, può anche essere un innovativo strumento da usare a scuola per supportare l’apprendimento di bambini e ragazzi.
È ancora ristretta la scelta di documentari visualizzabili, soprattutto nella sezione “Mondo Antico” e “Novecento”. Rappresenta un limite anche la fruibilità del prodotto solo per tempo limitato. Magari si potrebbe pensare a due fasce di prezzo, a seconda che si voglia acquistare il video, o solo “affittarlo”. Per far saggiare la qualità del prodotto, si potrebbe anche prevedere qualche articolo gratuito.
Il materiale che costituisce il sito proviene dal catalogo della società, che si basa su lavori documentari prodotti in maniera autonoma e mandati in onda dai programmi di reti come La7, Rai, History Channel e Mediolanum Channel.
Amanti di storia, appassionati di documentari, insegnanti, studenti, semplici curiosi.
La rete brulica di corsi di formazione, seminari e workshop volti ad approfondire i temi della responsabilità sociale d’impresa. E’ sufficiente digitare su google le parole chiave csr, corso, master e si apre un nutrito elenco di opportunità, destinate ai professionisti che già operano nel settore, ai dipendenti delle aziende e delle pubbliche amministrazioni o ai giovani appassionati della materia che vorrebbero farne un lavoro. Tra i master più rinomati, quelli promossi dall’Università Bocconi, dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e dalla Lumsa di Roma. Questi sono, tuttavia, solo alcuni esempi dell’eccellenza formativa offerta dalle università italiane.
Eppure alcuni dubbi sorgono spontanei. Il sistema formativo, pubblico o privato che sia, non dovrebbe facilitare l’effettivo incontro dell’offerta e della domanda nel mercato del lavoro? E, ancora, siamo sicuri che in una fase storica di recessione, quale quella attuale, le aziende abbiano risorse da investire in responsabilità sociale d’impresa?
I dati relativi ai primi nove mesi del 2012 rilevati dall’Osservatorio su fallimenti, procedure e chiusure di imprese del Cerved Group parlano chiaro: con una media di 200 imprese al giorno che escono dal mercato, per un totale complessivo di 55mila imprese chiuse nel 2012, la crisi è nera e le cifre riferite ai primi sei mesi del 2013 non sono certo più rosee.
Visto il contesto è d’obbligo, dunque, domandarsi quale impresa possa permettersi il lusso di investire in csr? Di certo non le piccole e medie imprese che, a causa della contrazione della liquidità e della stretta al credito praticata dalle banche, stentano ad arrivare alla fine del mese. Tendenzialmente le aziende che investono regolarmente in csr sono piuttosto quelle che possono contare su fatturati consistenti, come rilevato da un’indagine condotta da SWG per l’Osservatorio Socialis su L’impegno sociale delle aziende in Italia, 2012.
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Mentre qui lanciano un film di Zalone in 1200 sale, in Scandinavia, UK, Repubbliche Baltiche lanciano azioni di largo impatto in cui centinaia di artisti entrano in migliaia di scuole (Creative partnership, Cultural Rucksack), in altri Paesi tutti i ragazzi imparano a suonare uno strumento (sull’esempio de El Sistema di Abreu che sta cambiando il volto del Venezuela, ma anche in Olanda o Germania).
Marco Magnifico il vice presente del FAI in un seminario ci raccontava: “Volevamo misurare la distanza tra il FAI e il National Trust inglese. Migliorarci, capire. Ero in visita in un magnifico parco pubblico gestito dal NT e mi sono fermato a guardare delle peonie particolari. Lì accanto c’era un giardiniere che faceva il suo lavoro con la zappetta. Ha notato la mia sosta su quel fiore e si è avvicinato. Abbiamo dialogato per cinque minuti e mi ha spiegato quello che sapeva della pianta, ha risposto alle mie domande si è stupito per le varietà che nascono da noi. L’ho salutato e, uscendo, ho detto alla direttrice del posto ‘Un giardiniere è stato gentile a dedicarmi il suo tempo per spiegarmi tutto di un fiore che non conoscevo’. Lei ha risposto: ‘Non è stato gentile, è pagato per farlo. I giardinieri, come i custodi dei musei, sono pagati per dedicare l’80% del loro tempo alle mansioni specialistiche e il 20% per far sentire il visitatore accolto, fidelizzarlo, appassionarlo’. Lì ho capito che in Italia non ce l’avremmo mai fatta”.
In effetti l’abituale immagine fantozziana del custode di un museo scolpito sulla sua seggiolina fa già apparire ipercinetico il casellante autostradale. Di certo la colpa non è sua, ma non è neanche innocente. Come non lo sono i manager e la politica. Oggi poi, con la crisi e le spending review, la domanda “Ha senso investire nella crescita, nella valorizzazione e nella partecipazione culturale?” assume un’urgenza vitale.
Per alcuni è facile dire “No”, e lo fanno osservando i costi e i miseri incassi di Teatri, Musei, Biblioteche, Centri Culturali.
Io la penso al contrario ma sono convinto che occorra lavorare duro per far percepire il valore che hanno l’arte e il patrimonio culturale per la vita e la democrazia altrimenti i fiori di Van Gogh valgono le erbacce di uno spartitraffico e i Caravaggio le pennellate di un imbianchino.
Non bastano qui le spiegazioni romantiche, le pretese ovvietà, né le evidenze intellettuali sempre confutabili da chi ha altri interessi e sensibilità. Servono Indicatori di impatto Culturale che come quelli di Impatto Ambientale o Economico possano quantificare cosa significhi aprire o chiudere un museo, ma anche costruire una ferrovia su un parco o preservare le botteghe storiche di una zona.
Forse non si può misurare la bellezza ma, ad esempio, la solitudine sì, e con essa il suo ‘costo’ per i singoli e la collettività.
Indicatori ragionevoli di Impatto Culturale possono zittire chi ha interessi anticulturali e vuole vendere le spiagge e quello che esse rappresentano per far cassa.
Si può fare: si possono misurare i suicidi, gli alcolisti, le violenze. Posso misurare la partecipazione alla vita della comunità, la penetrazione e l’uso della banda larga, le propensioni xenofobe e omofobe, la diffusione delle droghe e degli strumenti musicali tra gli adolescenti.
E gli antidoti all’isolamento e alla solitudine sono la cultura e il lavoro, entrambe coniugate col rispetto e la passione.
Si può cominciare allora a ragionare su qual è l’impatto concreto dell’aprire un teatro in un quartiere periferico, quanto valga far partecipare gli abitanti della zona alle attività di un Centro Culturale, quale sia l’impatto culturale di un Bingo o di un centro commerciale; e anche il valore di laboratori artistici in una scuola o in un centro anziani. E quanti sollevi l’opera a Caracalla, un concerto dei Negramaro, o l’estasi davanti a un Kiefer, un Rothko, un Bernini.
Si potrebbe meglio programmare il futuro, zittire quelli che “con la cultura non si mangia” e dimostrare come quella generata dalla Cultura sia la vera energia pulita.
Andrea Pugliese è esperto di programmazione europea e autore del blog Pensieri sProfondi
Caso 1. Primo appuntamento. Stasera verrà a cena il presunto amore della vostra vita. Tutto è pronto, le candele sul tavolo, il servizio buono. Ma… avete dimenticato un piccolo particolare: sapete cucinare solo l’uovo sodo. Caso 2. Il vostro computer è impazzito, nonostante la vostra necessità impellente di inviare la più importante e-mail di lavoro della vostra carriera professionale. Caso 3. Il rubinetto del bagno si è rotto irrimediabilmente e voi non avete idea di come ripararlo prima che casa si allaghi.
Che si tratti di arte e musica, di informatica, di salute, di fitness, di didattica, lingue straniere o make-up, Google ha pensato ha un modo probabilmente innovativo per risolvere i vostri problemi. Helpouts è una piattaforma online che permette di mettervi in contatto video con una persona reale che, anche istantaneamente, vi spieghi come cucinare un manicaretto, come risolvere un problema informatico, come riparare un elettrodomestico e molto altro. È un’evoluzione del classico tutorial che vi assicura aiuto diretto e specifico in real time, con la formula del soddisfatti o rimborsati.
Helpouts è una creazione di Google e per accedervi è necessario avere un account Google +. Entrati sul sito, il motore di ricerca (ovviamente sempre collegato a Google) vi permette di indicare il problema che volete risolvere o il campo sul quale volete consulenza, assistenza, aiuto. Gli “Helpout providers” ai quali potete rivolgervi sono impiegati di grandi o piccole aziende, o privati, che sono stati selezionati appositamente da Google per offrire questo servizio. Possono essere contattati immediatamente, se disponibili, o per appuntamento. È possibile anche inserirsi in una lista d’attesa nel caso non si voglia perdere l’occasione di interagire con un determinato Helpout provider. Il servizio è a pagamento: le tariffe sono indicate dai providers stessi che possono decidere se farsi pagare al minuto, a “lezione”, o se far scegliere all’utente la modalità di pagamento che preferisce. Si può pagare solo tramite Google Wallet e il 20% del prezzo di vendita va a Google. L’incontro avviene via video e il cliente può stabilire se mostrarsi in telecamera o no. Alla fine dell’esperienza è richiesto un feedback perché è importantissimo garantire l’affidabilità del servizio ed evitare, in ogni caso, brutte sorprese. Helpouts garantisce, infatti, anche il servizio soddisfatti o rimborsati. Se non si è contenti della lezione video, si può richiedere un rimborso della quota versata. Il tutorial interattivo può anche essere registrato su Google Drive. Non manca ovviamente la parte social, dato che gli Helpout preferiti possono essere condivisi su Facebook, Twitter, Youtube e Google +.
È molto probabile che nel futuro sarà introdotta una connessione con alcuni dei tutorial reperibili su Youtube, rimandando direttamente da una piattaforma ad un’altra nel caso in cui si volesse un appuntamento privato e personalizzato col tutore prescelto.
I tutorial costituiscono una categoria video seguitissima e la possibilità di entrare in contatto diretto con una persona in carne e ossa con la quale interagire costituisce un evidente vantaggio. Un altro beneficio è anche la possibilità di avere disponibilità immediata di tutoraggio. Il nome Google, poi, aleggia a garante dell’affidabilità dei contenuti.
È quasi tutto a pagamento e i prezzi proposti non sono neanche dei più modici. Il fattore economico potrebbe far pendere l’ago della bilancia a favore dei tradizionali video tutorial, a volte incomprensibili, sì, ma gratuiti.
Helpouts è appena nato ed è al momento rivolto principalmente ad un pubblico anglofono.
Se l’Helpout provider richiesto ritarda più di 5 minuti sull’orario d’appuntamento, o dà la sua disponibilità per una certa ora in un certa data ma non si presenta, la sessione è gratuita. Efficienza è, infatti, la parola d’ordine alla base del servizio offerto. È quanto traspare chiaramente dalle parole del vicepresidente Google, Manber: “credo che la ragione per la quale internet è un mezzo così potente e di successo risiede nel garantire un livello completamente nuovo di efficienza e convenienza”.
I curiosi e coloro che vogliono apprendere sempre qualcosa di nuovo. A chi perde facilmente la pazienza e agli ansiosi. A chi crede che internet abbia la risposta a qualsiasi interrogativo. Ai socievoli e a coloro che preferiscono l’interazione, specialmente durante il processo di apprendimento.
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Sulla scena italiana il management culturale ha mosso i primi passi fra gli anni Settanta e Ottanta. Quasi un ossimoro, considerato al pari di un’eresia, si è piano piano affermato catalizzando l’interesse della comunità scientifica e diventando lo snodo focale di ricerche, pubblicazioni, convegni e disquisizioni. Volgendo lo sguardo agli ultimi venti o trent’anni si vede molta astrazione accademica di fatto basata sul principio del copia-incolla: prendiamo il management generalista, attacchiamogli l’aggettivo culturale e salveremo le sorti finanziarie della cultura.
Il sillogisma, fragile e velleitario, è nipote di Baumol e figlio di qualche economista bravo con i numeri ma estraneo alle Muse; visto che così non funziona, importiamo i protocolli gestionali delle aziende senza se e senza ma. Tuttora molti punti nevralgici del sistema culturale sono in attesa di un’analisi che si basi sulle specificità uniche della cultura e non, come di norma avviene, sulla sua acritica omologazione al paradigma manifatturiero.
In un Paese ossessionato da pezzi di carta e certificazioni non può sorprendere che il bisogno di management culturale sia stato accompagnato da un proliferare di corsi di studio, seminari, workshop e convegni connessi al patrimonio culturale e alla sua capacità di generare valore. Qui, da molti anni, si assorbe un gran numero di giovani (studenti o professionisti) che il mercato del lavoro culturale non è in grado di assorbire, vuoi per le forti barriere all’ingresso vuoi per l’insufficienza di percorsi formativi che spesso distribuiscono risposte a buon mercato senza mai circostanziare domande pertinenti.
Si deve peraltro osservare che la parziale efficacia della formazione è dovuta anche – o soprattutto? – alla mummificazione del sistema culturale, cristallizzato sotto il reticolo piuttosto blindato di una nomenklatura di vecchia generazione nella quale spesso l’esperienza cede all’automatismo compiacente e teme la sperimentazione come un grimaldello che farebbe vacillare il consenso esterno (ossia della classe politica che stabilisce le regole del gioco) e interno (ossia dei sindacati che lavorano con impegno per il mantenimento dello status quo).
Un insieme ristretto di nomi occupa gli spazi disponibili, spesso ricoprendo molteplici cariche contemporaneamente. Non sorprende dunque che il sistema cuturale italiano sia un magnifico fossile: alle nuove generazioni l’ingresso è sostanzialmente precluso e molte delle poche possibilità che si aprono non offrono la reale occasione di progredire e fare carriera. Uno stagista che conclude un master si affanna per fare il cassiere nel bookshop di un museo, con ogni probabilità lo ritroveremo a rilasciare scontrini anche a quarant’anni.
Le norme che regolano il lavoro culturale sono fortemente costrittive, e le risorse umane non possono essere valutate secondo il loro merito, né gestite secondo le necessità strategiche del datore di lavoro. Organismi anomali come le Fondazioni di Partecipazione possono considerarsi private solo sulla carta. Spesso le figure prescelte per occuparne i vertici sono nomi ripescati dalla politica locale o dalla pubblica amministrazione, insigniti del ruolo sulla base di interessi più o meno evidenti, provenienti da percorsi formativi e professionali anche molto distanti dalla gestione del patrimonio culturale.
Allo stesso tempo, rinnovare la forza lavoro esistente può risultare un’impresa ardua, se non impossibile. I posti disponibili sono pochi, le assunzioni possono considerarsi bloccate anche nel privato o “para-privato” e spesso non è possibile operare una messa in discussione dei ruoli sulla base dei risultati registrati. I bizantinismi del mercato del lavoro culturale impediscono qualsiasi possibile misurazione e valutazione di performance, tanto per i vertici quanto per i dipendenti, compresi quelli con mansioni fungibili.
Per il settore culturale il capitale umano è una risorsa fondamentale per tutte le fasi che ne declinano la vita, produzione, gestione, valorizzazione, comunicazione. Senza strategia non si può attivare alcun percorso evolutivo, il che esclude il bisogno di innovazione. Le risorse umane così finiscono per essere scelte in quanto passive, le esperienze esterne e le best practices vengono dimenticate, le relazioni con il resto del sistema culturale e con l’economia territoriale vengono snobbate. La cultura italiana è descritta da una mappa di poli verticali che si ignorano reciprocamente e si considerano nemici.
Quando si parla del problema delle competenze degli operatori culturali, tematica tutt’altro che nuova sull’orizzonte del dibattito, si fa riferimento a molti dei ragionamenti appena esposti. E’ dalla fine degli anni Novanta che s’invoca la necessità di creare una nuova e più moderna “cultura dell’impresa culturale” (Lucio Argano, 1998), procedendo con una valutazione degli effettivi bisogni formativi e d’impiego in ambito gestionale rispetto al settore. Il processo di rinnovamento organizzativo delle istituzioni e delle organizzazioni artistico-culturali e l’inquadramento delle figure professionali dal punto di vista giuridico, della spendibilità dei titoli, dei meccanismi di valutazione, selezione e reclutamento sono svolte essenziali, la cui necessità è stata denunciata a gran voce da diversi anni.
In questi tempi di profonda crisi, in cui si assiste alla progressiva riduzione del sostegno pubblico alla cultura, è fondamentale ragionare sulle fonti alternative di finanziamento. Questo non vuol dire pensare in maniera esclusiva al fundraising e ai contratti di sponsorizzazione, ma piuttosto impegnarsi nella definizione pratica di modelli di business che, pur considerando queste voci d’entrata, vedano nella generazione autonoma di reddito il motore fondamentale della sostenibilità economica. In altre parole, è giunto il momento di passare dalla teoria alla pratica.
I manager culturali dovrebbero saper interpretare il ruolo che la cultura (già) occupa in un paradigma economico inedito, in una società tendenzialmente cosmopolita e relazionale. E’ tempo di sperimentare nuovi indirizzi strategici che si fondino sui profili specifici della cultura come prodotto multidimensionale, capace di penetrare nuovi mercati, di ibridare produzioni eterogenee, di dar forma a modelli sociali che accrescano la qualità della vita urbana. Convegni e tavole rotonde non bastano più. Il thread dei prossimi anni deve mescolare visioni ed esperienze, e immaginare scenari liberi da dogmi e luoghi comuni.
La Stanford University è una delle università più ricche e prestigiose del mondo. A farne un punto di riferimento internazionale, fra le altre cose, è la sua solidissima partnership con la Silicon Valley, il cluster tecnologico che ospita alcune fra le imprese più importanti del mondo, di cui l’università è stata più volte definita la “queen mother”. Fra i colossi tecnologici del Paese non ce n’è uno che non abbia legami profondi con l’ateneo, che ha sapientemente fatto della vocazione all’imprenditorialità il suo biglietto da visita.
Stanford investe nelle idee di business dei suoi studenti, al punto da innescare timori e discussioni sugli incentivi e il potere coercitivo che i suoi docenti sono in grado di esercitare. Si, perché sempre più spesso sono proprio loro, i docenti, i primi investitori delle start-up dei giovani talenti che si formano nelle aule. Tralasciando per un istante le potenziali implicazioni etiche chiamate in causa da alcuni opinionisti, la fiducia e la propensione al rischio che traspaiono dalle dinamiche dell’ateneo devono farci pensare, soprattutto guardando alla realtà universitaria italiana.
Di recente Stanford ha inoltre deciso si investire in StartX, un incubatore fondato nel 2009 da un team di studenti, facendone una diramazione ufficiale, un canale per finanziare le migliori start up universitarie ottenendo come contropartita parte del capitale delle neonate società. Ed è proprio il modello equity oriented a costituire il tratto distintivo dell’operazione, che scegliendo l’entrata in quota – invece di focalizzarsi sullo sfruttamento dei brevetti – fa proprie dinamiche vicine al mondo dei venture capitalist.
Negli ultimi dieci anni anche in Italia gli incubatori e i facilitatori d’impresa hanno iniziato a proliferare e ad oggi possiamo vantare i primi casi di eccellenza anche in ambito universitario. Stiamo parlando di I3P, l’incubatore del Politecnico di Torino, classificato undicesimo fra i migliori business incubator universitari nella graduatoria internazionale dell’UBI, e dell’AlmaCube di Bologna, controllato a metà dall’università e a metà da Unindustria Bologna, un’associazione di imprese.
Se è vero che queste strutture giocano un ruolo cruciale nel settore della S&I – Scienza & Imprenditorialità, costruendo un ponte fra la ricerca scientifica universitaria e la valorizzazione imprenditoriale della conoscenza, non si può non auspicare che presto sperimentazioni di questo tipo inizino ad interessare anche il settore culturale e creativo. Le materie umanistiche colonizzano i curricula di moltissimi atenei italiani, pubblici e privati, e i tempi sono maturi per la sperimentazione di modalità di placement innovative, che rendano più fluidi i confini fra università e impresa.
Dalla creazione di semplici spazi di confronto e fertilizzazione incrociata all’offerta di servizi di incubazione e facilitazione, l’università italiana ha bisogno di cambiare atteggiamento nei confronti dei propri studenti, smettendo di considerarli semplicemente degli iscritti paganti e iniziando a pensare loro come i potenziali partner di domani, interlocutori con cui costruire nuova impresa – cosa di cui il nostro Paese ha tremendamente bisogno, settore culturale in testa.
Abituare gli studenti delle discipline umanistiche e dell’economia della cultura a confrontarsi fin dagli ultimi anni dell’università con progetti ed iniziative imprenditoriali, svolgendo attività di ricerca, ideazione e analisi economica per le imprese attive nel settore può rappresentare un’esperienza chiave per la formazione, la scelta del proprio percorso futuro e l’ingresso nel mondo del lavoro. Università e impresa devono essere protagoniste di un dialogo sempre più stretto e serrato, sperimentare nuove modalità d’incontro e nuove possibili sinergie se vogliamo credere nella ripresa della nostra economia.
I migliori atenei del mondo stanno investendo tempo e risorse nella creazione di business incubator universitari perché nell’economia della conoscenza, le attività tangibili e intangibili svolte da questi soggetti ricoprono un ruolo chiave nel supportare l’imprenditorialità, fornendo alle startup strumenti e conoscenze per affrontare la concorrenza e un fitto network di relazioni, indispensabile per affermarsi con forza sui mercati di oggi. Senza dimenticare che, come insegna il caso di Stanford, il successo delle idee di business degli studenti è il successo dell’ateneo stesso, quando non addirittura una possibile fonte di ricchezza.
Ad oggi in Italia i nuovi imprenditori costituiscono solo il 2,3% della popolazione, contro il 4,2% della popolazione tedesca e il 7,8% di quella americana. Per veder cambiare lo scenario è sicuramente necessario agire su più fronti, ma la trasformazione non può non varcare la soglia dei nostri atenei, ridisegnando le dinamiche di placement e generando una nuova cultura condivisa, che unisca formazione, impresa e ricerca in una sinergia reale e vincente.
Squadra che vince non si cambia.
Dopo il successo della prima edizione, nell’estate 2012, torna il progetto Summer School, a cura del Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea.
Progetto unico in Italia, nasce dall’esperienza di ZonArte, il network che raccoglie al suo interno, oltre al Dipartimento, Cittadellarte Fondazione Pistoletto, Fondazione Merz, GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, PAV in collaborazione con Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e sostenuto dalla Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, creato per favorire situazioni di dialogo tra il pubblico e l’arte contemporanea.
Un dialogo a volte difficile e minato da sentimenti di diffidenza e dalla sensazione di non possedere mai i giusti strumenti per approcciare al linguaggio di questo tipo di arte.
Sono proprio queste diffidenze che il progetto Summer School cerca di spazzare, offrendo al pubblico, nei mesi da Giugno a Settembre, una varia e fitta programmazione di occasioni per incontrare l’arte e la cultura contemporanea nel suo insieme, accogliendo contaminazioni e dialoghi tra le arti visive, il teatro, la danza, la musica e la letteratura.
E’ in questo sfondo che nel 2012 nasce l’incontro con Stalker Teatro, compagnia teatrale torinese impegnata nel sociale e nella sperimentazione, che da vita al progetto Re-action, un laboratorio entro il quale il pubblico è accompagnato a visitare una selezione delle opere della collezione del Castello e stimolato non a comprenderla, ma ad entrarci in relazione.
Non c’ è bisogno di possedere alcuna nozione o esperienza del mondo dell’arte e nessuna formazione culturale, in quanto l’opera viene sempre presentata senza alcun vincolo formale o dialettico e con tecniche adeguate a garantire la nascita spontanea di un contesto relazionale intorno ad essa.
Lasciando spazio libero all’osservatore e alle sue “prime impressioni”, il laboratorio offre l’opportunità di trasformare le empatie e le emozioni suscitate dall’opera in un lavoro creativo e concreto, rappresentato dalla messa in scena di una performance collettiva aperta al pubblico.
La prima esperienza ha visto il coinvolgimento di diversi gruppi di lavoro; il primo composto da studenti universitari e adulti interessati, il secondo da due classi di bambini provenienti dalla scuola elementare del quartiere periferico de le Vallette (dove la compagnia dirige il suo teatro Officine Caos-Officine per lo Spettacolo e le Arti contemporanee) e ha dato vita allo spettacolo “Il Castello dalle Finestre che Ridono”.
Gabriele Bocaccini, direttore della compagnia, osserva come questo tipo di progetto sia in grado di riportare il linguaggio dell’arte contemporanea tra la gente, e come, puntando sulla relazione, possa presentarsi pressoché immutato ad ogni gruppo di lavoro; “la rottura dei ruoli dettati tra artista/opera d’arte e pubblico” e successivamente quelli tra “performer e spettatori danno infine vita più che ad uno spettacolo teatrale ad un happening in cui tutti si sentono coinvolti”.
Che cosa sono i MOOCs? L’acronimo sta ad indicare i Massive Open Online Courses, cioè dei corsi gratuiti disponibili online di alto livello formativo.
Dov’è la notizia? Che il grande colosso del web, Google ovviamente, sta mettendo mano alla formazione preparando una piattaforma, dal nome mooc.org, che dal 2014 diventerà una sorta di Youtube per la formazione.
Finora non sembrerebbe un’iniziativa molto innovativa, visto il successo dell’anno scorso di Course Builder, ma le cose cambierebbero radicalmente se vi dicessimo che i corsi caricati sul sito sono dei migliori docenti del MIT e delle università di Harvard? E vi diciamo anche di più: Big G sta predisponendo sulla stessa piattaforma la possibilità per i docenti di tenere le loro lezioni direttamente online, gratis e aperte a tutti in nome della condivisone e dell’associazionismo no-profit.
Per questo, partner dell’iniziativa è EdX, la no-profit creata dalle università di Harvard e dal MIT proprio in nome della condivisione del sapere (tra i soli esponenti universitari però).
L’amministratore delegato della EdX con queste parole plaude l’iniziativa: “Da sempre abbiamo apprezzato l’impegno di Google per il libero accesso al sapere e pensiamo che possa essere il partner perfetto per delineare un nuovo tipo di educazione libera da vincoli economici e spaziali”
Certo è che prima o poi anche i progetti no profit per andare avanti hanno bisogno di soldi: che verranno da donazioni e sottoscrizioni specificano da Google, ma continueranno ad essere totalmente gratuiti per gli utenti worldwide.
Che le strategie di marketing di Google si stiano piano piano dirigendo verso la filantropia? Così sembrerebbe, visto anche l’annuncio sempre da Mountain View della recente alleanza con Udacity per la creazione della Open Education Alliance volta a fornire strumenti formativi utili alla ricerca di un lavoro nelle industrie tecnologiche.
Siete pronti al vostro diploma di laurea targato Google?
Curiosa e accattivante la sfida lanciata dalla Società Dante Alighieri, tramite la redazione di madrelingua, di “riscrivere” il Decameron in una modalità da terzo millennio. Un omaggio certo particolare a Boccaccio che devoto alla tradizionale retorica dei classici latini e affascinato dalla letteratura cortese dei versi d’amore e dei romanzi cavallereschi, scrisse la famosa raccolta di novelle (Decameron in greco significa di dieci giorni) in cui si cela una profonda riflessione sulla realtà terrena, attraverso cui l’autore celebra l’intelligenza umana che per mezzo della parola è capace di plasmare e dominare la realtà e superare gli ostacoli della natura e della vita, il tutto sempre condito dal motivo amoroso, spesso ironico e licenzioso.
Così come 700 anni fa si rivolgeva alle donne, tradizionalmente escluse dagli studi e dall’alta cultura, così oggi attraverso la rete è ancora la parola la chiave per la sopravvivenza della passione per la letteratura intesa come piacevole intrattenimento per un pubblico non composto solo da eruditi o professori.
Dal 1° agosto 2013 infatti gli utenti della rete sono chiamati a contribuire liberamente attraverso tweet di 140 caratteri precisi (twoosh), uno in rima e uno in prosa, al commento di ogni novella.
100 giorni dunque per leggere e lanciarsi in questo simpatico gioco 2.0. su Twitter indirizzato a @la_dante: hashtag del progetto #14000DB.
Numerosi sono ormai gli esempi di letteratura, lettura condivisa e raccolta di commenti e critiche online, dove l’uso dei social network è pane quotidiano.
Twitter, considerato come una nuova pratica letteraria, ospita da un paio d’anni diversi esperimenti “cinguettanti” come il racconto “Black Box” del premio Pulitzer Jennifer Egan, raccontato in spezzoni da 140 caratteri tramite l’account del “The New Yorker”; il progetto #Leucò della Fondazione Cesare Pavese che invitava a commentare riscrivendo e reinventando in 140 caratteri i romanzi classici, o ancora l’esempio di Serial TW che ha coinvolto lo scrittore Marco Belpoliti nella riscrittura di 100 fiabe italiane in 100 giorni.
Slogan comune: less is more, ovvero scrivere testi chiari, concisi, comprensibili ed essenziali, inserire immagini ben definite e originali e video brevi. Le potenzialità della comunicazione consentono di creare relazioni e interazioni su una scala mai vista, sviluppare promozione, coinvolgere direttamente gli utenti e creare partecipazione; la finalità è quella di informare, promuovere, vendere e consolidare il proprio brand reputation, la reputazione, la notorietà, l’immagine che si dà, il consenso che si ottiene.
Facebook, Twitter, Youtube sono diventati oggi social network importanti anche per la cultura, all’interno di un sistema globalizzato dove spesso la terminologia e le modalità discendono dal marketing.
È interessante considerare come questo approccio discenda dalla mentalità anglosassone, abituata a leggere ed insegnare la letteratura puntando al significato e all’utilità del messaggio contenuto nel testo rispetto alla realtà attuale, diversamente dall’impostazione storica basata sulla contestualizzazione spazio-temporale di autore e opera.
Oggi internet è lo strumento che permette a chiunque di avere un contatto diretto e immediato con la conoscenza e l’informazione e può dunque aiutare a trasmettere ai giovani la passione e il piacere della letteratura e della cultura. Di certo però non può considerarsi un tweet esaustivo della profondità e complessità di un libro, si voglia in formato cartaceo o e-book, ma certamente questo può essere un ottimo mezzo per raggiungere la società più multiforme, incuriosire e spingere poi alla ricerca, alla lettura e alla riflessione.
Bell’idea quindi la proposta lanciata dalla Dante, dove sfida il pubblico di appassionati e non a rileggere le novelle di Boccaccio ripensandole nella nostra realtà e riscrivendole con il linguaggio breve e puntuale del tweet. Un simpatico esercizio per mettersi in gioco, liberare la creatività e sguinzagliare la curiosità che ieri come oggi ci rende esseri umani, liberi e pensanti.
Ricordiamo che nel mese di novembre, durante un evento speciale su Boccaccio le versioni più efficaci, divertenti o insolite saranno premiate con un dizionario Devoto-Oli e con la tessera della Società Dante Alighieri per il 2014.
Il panorama lavorativo attuale è sempre più eterogeneo, cangiante, molteplice. I contratti di lavoro e le tipologie di assunzione sono differenti rispetto al passato. Sicuramente il web, internet, i social network rispecchiano le mutate condizioni di assunzione e cercano di andarvi incontro. Freelance.com risponde alle nuove richieste del settore professionale e offre opportunità e convenienza sia per chi offre lavoro, sia per chi lo cerca. Si tratta, infatti, di una piattaforma per chi cerca attività da freelancer, o per chi gestisce una piccola impresa, non ha le risorse sufficienti per assumere una figura a tempo pieno, e preferisce appoggiarsi su una figura esterna che svolga un lavoro temporaneo. Freelancer.com si definisce, infatti, “il più grande mercato al mondo di freelancing, esternalizzazione e crowdsourcing per le piccole imprese”.
Freelancer.com funziona un po’ come un social. Ci si iscrive, agganciandosi all’email o al profilo Facebook, e si comincia scegliendo il proprio “ruolo” all’interno del meccanismo: freelancer o datore di lavoro? Se si cerca impiego è necessario indicare le proprie abilità (più o meno come su LinkedIn) e si può caricare il proprio curriculum. Una volta completato il profilo, si può cercare l’attività per la quale si è più adatti e fare un’offerta al datore di lavoro, inviando le proprie referenze e indicando il costo del proprio incarico all’ora. Se si riesce a convincere il futuro “capo”, si è assunti e una percentuale del guadagno ricevuto va al sito. Un processo più o meno speculare avviene se, invece, si cerca “personale” da assumere. E’ possibile caricare il proprio progetto oppure si può ricercare la figura adatta indicando tutte le caratteristiche necessarie ad una determinata mansione. Anche in questo caso, parte del guadagno dell’intero progetto (un 3%) va al sito.
E’ un modo intelligente per trovare lavori part-time, da svolgere da casa, o svariate opportunità in tutto il mondo.
Per capire bene come funziona il tutto bisogna avere un po’ di pazienza e “studiarci un po’ su”. Lo stesso vale al momento della ricerca del lavoro o dei lavoratori: bisogna capire la strategia giusta per essere assunti o per assumere la persona più adatta.
Per i freelancer, è possibile svolgere anche degli esami per dare prova delle proprie abilità. Si tratta di veri e propri test, in genere rapidi, che servono per primeggiare agli occhi dei possibili futuri datori di lavoro.
Chi è in cerca di un lavoro, ai fantasiosi del mercato delle assunzioni, a chi non ama spostarsi per lavorare, a chi ha un’impresa, una start up, un lavoro da voler o dover assegnare a terzi.
Intervista a Ivan Canu, direttore artistico e didattico del Mimaster di illustrazione di Milano
Com’è nato il progetto Mimaster?
Il progetto Mimaster è nato nel febbraio del 2009 nello studio Bandalarga, fondato da illustratori fra cui Libero Gozzini e Gianni De Conno, cui si aggiunsero da subito Piera Nocentini e Giacomo Benelli. La composizione attuale è un’evoluzione del passaggio dalla Scuola del Fumetto, che ci ha prodotti per prima, all’attuale amministrazione di OPPI – Organizzazione per la preparazione professionale degli insegnanti (www.oppi.it). Io ne sono il direttore artistico e didattico, mi affianca Giacomo Benelli per le comunicazioni esterne e la progettazione, con la collaborazione poi di uno staff numeroso.
Sin dal primo momento il punto di forza è stata la partecipazione di artisti internazionali uniti alle eccellenze italiane. In 4 anni abbiamo ospitato americani (Holland, Ascencios, Guarnaccia, Nascimbene, Fingeroth, Red Nose Studio, Blechman, Ruzzier, Daniel), canadesi (Kunz), francesi (Roca, Bernard, Bloch, Ehretsmann, Martin), belgi (Crowther), austriaci (Zwerger), russi (Dugin), spagnoli (Ajubel, Amargo). E gli italiani Carrer, Innocenti, Bussolati, Orecchia, Scarabottolo, Giacobbe, Mai, Macchia, Ponzi, Maggioni, Mattotti, Valentini, Ferrari, Papini, Maddalena, Ghermandi.
Ciascun docente, nella formula del workshop di una o due settimane, elabora con la direzione i temi e le metodologie su cui far lavorare la classe, puntando su un approccio all’illustrazione direttamente collegato al mercato di destinazione (e di provenienza dei diversi professionisti che chiamavamo a insegnare).
Le aree tematiche spaziano dall’illustrazione editoriale per magazine e quotidiani, quindi con un approccio molto adulto e concettuale al lavoro e una tempistica di progetto e di realizzazione fra le più concentrate, all’illustrazione del libro per l’infanzia, la più nota e con il mercato più ampio negli ultimi 15 anni, delle copertine dei libri per ragazzi, adolescenti e adulti e delle riviste, dall’editoria scolastica all’illustrazione di comunicazione istituzionale (per manifestazioni o festival o per prodotti musicali o immagine coordinata per parchi a tema). L’approccio metodologico unisce la formazione al contatto diretto col mercato. Da un lato, inserendo un corso pratico sul diritto d’autore, la contabilità, la fiscalità e una serie di interventi di editor (Rizzoli, Mondadori, Salani, Pearson, Kite, Lapis, Carthusia, Coccole Books, Principi & Princìpi, Zoolibri, De Agostini, Feltrinelli, Casterman, Flammarion, Penguin, Creative Company, Panini, Moritz Verlag, Vicen Vives).
Dall’altro, ospitando professionisti dell’editoria, mostrando i diversi ruoli con cui l’illustratore si confronta nel lavoro. Nascono così le “masterclass” in cui editori, art director, editor, blogger, agenti, autori, stampatori, grafici incontrano la classe per una giornata di confronto sui diversi mestieri e sul mondo dell’editoria. Come l’agente Chrystal Falcioni di Magnet Reps. o Debbie Bibo, Nicholas Blechman della New York Times Book Review, Stefano Cipolla de La Repubblica, Adriano Attus de Il Sole 24 Ore, Aris Papatheodorou di Le Monde, Jennifer Daniel di Bloomberg Businessweek, fra i più noti.
Quali sono gli elementi di eccellenza che caratterizzano Mimaster da altri corsi?
Trattandosi di una startup ante-litteram, concepita da professionisti per formare altri professionisti futuri nel mercato dell’illustrazione (in particolare editoriale, l’unica il cui mercato fosse ancora in piedi dopo la crisi dell’illustrazione pubblicitaria negli anni ’90), il Mimaster ha da subito cercato un profilo innovativo, rispetto ai corsi e alle scuole esistenti già nel territorio nazionale.
Vogliamo infatti presentare la professione dell’illustrazione nelle più diverse sfumature, perché sia evidente durante il corso la mole di potenzialità che il mestiere e i mercati offrono, senza rinchiudersi nel recinto delle opportunità (poche) dell’editoria nazionale o nella sfera autoreferenziale del considerarsi “artisti”.
Dalla terza edizione, ad esempio, abbiamo introdotto la formula dei moduli tematici che racchiudono i corsi e le masterclass su temi come l’illustrazione per infanzia e bambini, quella per ragazzi e adulti, quella per magazine e quotidiani, l’animazione e il digitale per eBook e app. In questo modo siamo diventati antesignani di un movimento che si sta facendo progressivo e inarrestabile nel panorama editoriale internazionale sia perché questa formula consente spesso a professionisti e non solo a giovani amatori, di seguire percorsi di interesse senza dover frequentare un anno intero di corso, sia perché in questo modo sperimentiamo l’applicazione delle illustrazioni a prodotti inconsueti.
Un esempio fra tutti è la realizzazione di un prototipo di guida digitale inclusiva (ovvero utilizzabile sia da udenti che da sordi) per visitare Villa Necchi-Campiglio a Milano.
Ciò che vogliamo traspaia è il fatto che non ci ispiriamo ad un unico modello ma abbiamo colto, nel corso degli anni aspetti metodologici, didattici, organizzativi, che riteniamo tra i più interessanti o di cui abbiamo sperimentato l’efficacia. Non a caso, dalla sua prima edizione, il Mimaster è molto cambiato.
Così, gli americani ci hanno portato l’esperienza di SVA, Parsons, The Illustration Academy e dei seminari di ICON, i francesi quella dell’Emile Cohl di Lyon, i russi Dugin la formazione dell’Accademia di Stuttgart. Da ciascuno abbiamo preso spunti e chiesto pareri, opinioni, critiche. Il pregio dei progetti innovativi in settori che sono ingessati, asfittici, in crisi per definizione, è che aprono spazi lasciati scoperti da quanti si dirigono un po’ frettolosamente altrove, dove il business o la moda contingente si sono spostati.
Perché l’illustrazione, con l’esplosione tecnologica della rivoluzione digitale dei tablet, con gli eBook, le app, i games interdisciplinari, sta trovando un mercato di enormi proporzioni e di grandi prospettive. Che l’Italia, com’è suo solito, nella sua parte istituzionale non ha ancora colto appieno, ferma anche nei dibattiti alle discussioni se la carta e il suo odore e la sua tattilità non sia una specie da proteggere dall’estinzione; come se il digitale fosse un nemico e non l’opportunità che possa aprire un nuovo mercato. Credo si possa definire questo un momento di frontiera, non a caso subito colto dai paesi più sensibili al concetto come gli USA, l’Asia e le nazioni sudamericane più dinamiche.
Parliamo del mondo dell’illustrazione in Italia. Quali sono i legami, gli enti, i circuiti all’interno del quale vi muovete?
L’illustratore è una libera professione, legata certo alla qualità del proprio lavoro ma anche molto ormai alla complessa capacità progettuale e di rapporti necessari, che soprattutto in tempi di forte crisi dell’offerta diventano la discriminante fra le diverse proposte. La figura dell’illustratore artista, chiuso nella sua casa a produrre capolavori nell’attesa reverenziale degli editor, il cui valore prescinda dalla sua capacità imprenditoriale e di autopromozione, è relegata ormai alla sfera delle casistiche o delle curiosità naif.
Ormai la professione è complessa, radicata nei social anche per la sua pubblicizzazione: all’illustratore sono richieste progettualità complesse, articolate, competenze grafiche, di editing e strategie di marketing. Non che a me dispiaccia, personalmente. La scelta artistica può essere ancora interessante, ma limitarsi ad essa è antistorico prima ancora che poco pratico. Si può avere un’idea dell’evolversi della figura dell’illustratore guardando la composizione dell’AI-Associazione Illustratori, che negli anni ha rappresentato la cartina di tornasole della professione e dei suoi aderenti e, pur nei suoi naturali alti e bassi, resta un riferimento ancora per i giovani che si affacciano a questo mestiere.
La crisi netta dell’illustrazione pubblicitaria, che negli anni ’80 era il dominus incontrastato e godeva di un mercato ricchissimo e molto ampio, non è stata interamente assorbita dal sorgere dell’editoria, trattandosi di un mercato di gran lunga più ristretto ed economicamente meno forte, con tempi di lavoro dilatati e destinazioni d’uso fra le più diverse.
In Italia gioca ancora una buona fetta di mercato la scolastica, ma anche qui rispetto agli anni ’90 si parla di una contrazione significativa, cui resistono meglio i gruppi maggiori come De Agostini o Pearson che negli anni hanno acquisito piccole e medie realtà editoriali anche d’eccellenza (la CIDEB nel primo caso, la Bruno Mondadori nel secondo).
Gli illustratori più attivi si proiettano più spesso verso l’estero, fra paesi tradizionalmente forti e richiesti come la Francia (molto meno l’Inghilterra e la Germania, rispetto ai decenni scorsi) e gli Stati Uniti, con la fortuna che i nuovi media, la diffusione di internet e dei social hanno aperto tutti i mercati e ridotto molto il gap comunicativo e linguistico. Se pensiamo che i tradizionali annual illustrati, i volumoni che tutti abbiamo conosciuto e ai quali abbiamo almeno una volta partecipato – per avere l’opportunità di finire sotto gli occhi di un art director o di un editore illuminati – sono stati soppiantati almeno dieci anni fa prima dai siti web, poi dai social dedicati come FB e Pinterest, quindi dai blog e dai forum che sono diventati talvolta organi semiufficiali consultati dagli editori e dagli specialisti, per scoprire nuovi autori.
Che percorsi di inserimento nel mondo del lavoro maturano dopo questa esperienza? E che riscontri avete in un mercato che ha ridotto disponibilità e opportunità?
Il numero massimo di iscritti, dopo le prove di ammissione che si svolgono ai primi di luglio e a metà settembre, è fissato a 25.
Il Mimaster si è connesso da subito con le realtà editoriali e produttive italiane e internazionali, attivando collaborazioni nelle diverse formule dei contest interni alla classe e delle commissioni che, nel tempo, gli editori hanno proposto al Mimaster per avere la soluzione più professionale ai loro problemi.
I contest agevolano l’inserimento diretto dei corsisti nel mercato e nelle sue diverse articolazioni, consentendo a molti di loro di lavorare con quelli che saranno poi i committenti naturali, in una formula di selezione interna che alla fine produce portfolio molto selezionati, non omologati e spesso poi consultati di nuovo dagli stessi clienti che li hanno scartati la prima volta. Accade di frequente che anche esterni, che si siano iscritti a workshop o moduli, abbiano l’occasione di mostrare il loro lavoro e di collaborare con realtà editoriali approcciate solo grazie al Mimaster.
È il caso di Le Monde, della NYT Book Review, di Businessweek, del Sole 24 Ore che hanno dato spazio non solo agli allievi (Paola Rollo nel 2012, Stefano Pietramala e Luca D’Urbino nel 2013, illustratori di rubriche della Book Review del NYT) ma anche a contributi di professionisti esterni. In tal senso, il Mimaster si colloca in una dimensione che va oltre la realtà formativa e tocca ruoli che tradizionalmente sono delle agenzie o dei consulenti editoriali, pur senza prendere i benefit che questi ruoli richiedono. Infatti tutti i contatti e i rapporti di lavoro che si creano durante il corso master non prevedono commissioni percentuali, ma li riteniamo il valore aggiunto del progetto, assommati alle consulenze continue che tutti i partecipanti ricevono rispetto a contratti, agenti, fisco e fatturazione. Dal Mimaster emergono anche realtà professionali dinamiche, come lo studio Armad’illo a Milano, formato da 10 ex allievi del 2011o la rivista Lucha Libre, in cui collaborano numerosi nostri studenti di varie edizioni. Ci sono exploit individuali, che hanno pubblicato i progetti di tesi già nell’anno in corso, realizzando l’ambizione per la quale si erano iscritti al corso quasi alla lettera. Non a caso abbiamo dedicato proprio agli “alumni” delle varie edizioni una sezione del sito, in cui teniamo gli aggiornamenti sulle loro carriere e i lavori che hanno fatto subito dopo l’uscita dal master.
Quali sono le attività collaterali durante l’anno accademico? Prevedete appuntamenti o eventi speciali?
La più significativa attività di collaborazione, è la Fiera del Libro per ragazzi di Bologna, di cui il Mimaster sin dalla sua nascita è un partner organizzatore oltre che avere uno stand dove ogni anno presenta le novità e i progetti. Per la Fiera è nato anche un progetto molto fortunato come The illustrate Bologna Children’s Book Fair survival Guide, una mole di materiale, scritto e disegnato, eterogeneo e di altissimo livello pensato da me e da Giacomo, con il contributo dei più vari operatori della fiera, di amici e colleghi illustratori e autori, di un eccellente progetto grafico realizzato dallo Studio Bozzo di Torino. È un progetto che è stato così ben accolto, che proseguirà anche nel 2014 in una veste e con contenuti rinnovati e qualche sorpresa.
Cosa bolle in pentola nel prossimo futuro e quali le novità che dovremmo aspettarci?
La sindrome del deserto dei tartari ci appartiene poco e io ho il personale difetto, per fortuna condiviso dai miei compagni di sortite, di voler sempre sperimentare e rinnovarsi. A Novembre, parteciperemo alla seconda edizione del festival milanese Bookcity, ospitando il grande Peter Sìs, premio Hans Christian Andersen, con un workshop basato sul suo “La conferenza degli uccelli”, che sarà laboratorio con la classe ma anche spunto per una festa della comunicazione multilinguistica e multiculturale e si aprirà alla comunità non solo dei lettori e degli appassionati del festival, ma anche del quartiere di Villapizzone, dove opera Oppi. Parte consistente di questo laboratorio, sarà il coinvolgimento dei sordi, la cui lingua sarà parte integrante dell’operazione.
Abbiamo due nuovi partner, con i quali faremo un percorso sperimentale di un anno: la Fondazione Mondadori, nostri vicini di quartiere e autori del più importante master di editoria in Italia, da più parti imitato. E poi lo spagnolo iCONi, master sull’albo illustrato per l’infanzia e organizzatore del prestigioso IlustraTour di Valladolid, appuntamento internazionale sull’illustrazione. Con entrambi, abbiamo stipulato accordi di programma e di partnership che avranno il culmine nelle comuni presentazioni alla Fiera di Bologna 2014.
Non sono le sole collaborazioni a cui ci stiamo dedicando e che speriamo avranno una concreta e fortunata realizzazione nei prossimi mesi. Confido ne potremo parlare fra un anno, magari.
Intervista a Alessia Bottone, autrice del blog e libro “Amore ai tempi dello Stage- Manuale di sopravvivenza per coppie di precari”
In un mondo dove tutto è precario, l’amore e il lavoro raggiungono la stessa condizione di incertezza e di squilibrio. Da questa riflessione si compone il blog prima e il libro poi, di Alessia Bottone, diventata ormai la “paladina dei precari italiani”. Noi di Tafter la abbiamo conosciuta…
Dove nasce l’idea di “Amore ai tempi dello Stage”?
L’idea di scrivere “Amore ai tempi dello stage- Manuale di sopravvivenza per coppie di precari” nasce a seguito dell’ultimo colloquio come centralinista.
Si trattava di un apprendistato e per l’ennesima volta mi sono sentita dire” Signorina, con un curriculum come il suo, una laurea, 4 lingue parlate, stage alle Nazioni Unite, cosa vuole mai? Lei è troppo per la nostra azienda. Andava a finire sempre così, o ero troppo, o ero troppo poco e mi sono vista disoccupata per sempre. Un pomeriggio in Rai ho conosciuto il Direttore di Vero Salute, abbiamo parlato di amore e psicologia e le ho mostrato il mio blog “Amoreaitempidellostage”.
Da lì a poco ho iniziato a scrivere per il suo giornale occupandomi di temi di attualità, amore, salute etc. Ed è li che è scattato qualcosa e mi sono detta “se il lavoro non esiste, allora io voglio crearmelo da sola”. Ho raccolto il materiale e l’ho inviato alla mia casa editrice, due giorni dopo avevo il contratto in mano. Due mesi dopo il libro veniva pubblicato. Un mese dopo mi ritrovavo a Mattino 5 su Canale 5 per presentarlo al pubblico.
Perché legare i temi del lavoro e della vita sentimentale?
Perché siamo precari nel lavoro quanto nell’amore. Hai mai notato che ci si lascia con un sms senza neanche fare lo sforzo di confrontarsi e mandarsi a quel Paese? Benedette siano le discussioni e le notti passate a chiarirsi. Tutto quello che richiede un impegno maggiore oggi è out, ci si frequenta, non si sta assieme. “E’ una ragazza con la quale mi vedo, per ora, poi non so” . Appuntamenti durante i quali lui ti racconta di tutte le sue ex e tu preferiresti stare a casa a fare all’uncinetto con la nonna piuttosto che rimanere seduta a quel tavolo con lui. Donne convinte che Uomo Tiamomanonposso un giorno si accorgerà di loro, perché la sua crisi mistico esistenziale è solo momentanea.
L’amore 2.0 ha stravolto il mondo dei sentimenti. Gli appuntamenti si chiedono su Facebook, così lo sforzo è minore e non ci si mette la faccia. Su Twitter scopri che la tua lei sta insieme un altro e che forse è ora di “mettersela via”. Mi fa sorridere una notizia che ho letto l’altro giorno. Lo sai che la Regina Elisabetta era terrorizzata al pensiero che Twitter avrebbe saputo prima di lei se era nato il Royal Baby? Dura essere nonne al tempo dei social.
Scherzi a parte, Amore ai tempi dello stage racconta con uno stile ironico il mondo degli stagisti precari in giro per il mondo, in cerca di un’occupazione vittime di una fluttuazione dello spread o del crollo della Borsa di Wall Street. Descrive le peripezie della coppia moderna durante le vacanze natalizie e di come riescono a dribblare le domande della famiglia desiderosa di vederli sposati, Ironizza sulle tipiche discussioni dei conviventi e fa una top ten degli uomini e delle donne da prendere a piccole dosi prima di darsela a gambe!
Il tuo nome è noto al pubblico anche per la lettera che hai scritto alla Fornero. Come è andata la storia? Ci sono state evoluzioni?
Mi sembra ieri, era fine giugno del 2012 e mentre leggevo il testo della neonata Riforma ho buttato già qualche riga, sai quelle che scrivi di getto, senza pensare. Del resto, non è stato poi così difficile raccontare al Ministro storie di ordinaria precarietà contestando non solo la legge ma tutto ciò che è venuto prima. La situazione drammatica nella quale ci ritroviamo oggi non è stata di certo determinata dall’ultima Riforma, che sicuramente l’ha aggravata, ma è la conseguenza diretta di anni di sfruttamento in cui si sono tenuti gli occhi chiusi mentre giorno dopo giorno si andava sgretolando lo stato sociale, il sistema previdenziale e di tutela del lavoratore. Evoluzioni? Nessuna! Io vedo ancora stagisti non retribuiti e commesse che lavorano per 400 Euro al mese.
Che idea ti sei fatta della realtà giovanile italiana? Come li/ti vedi tra dieci anni?
Che idea mi sono fatta? Bella domanda! Io credo molto nei miei coetanei, anche se devo dirti la verità a parer mio si sono adagiati in questa situazione. Mi piacerebbe vederli lottare per i loro ideali, per il loro lavoro, per ciò che gli è di diritto. E’ chiaro che dovrebbe essere la politica a dare risposte concrete, ma se non crediamo noi per primi nel cambiamento? Io tifo soprattutto per quei giovani figli di nessuno che scalpitano perché hanno voglia di darsi da fare, ma non hanno santi in paradiso. Vorrei che avessero voce in capitolo perché sono loro, quelli che tanto patiscono questa crisi che potrebbero davvero dare il via ad una nuova era basata sulla meritocrazia e non sulle conoscenze e sulle mazzette.
Come mi vedo tra 10 anni? E chi lo sa, è tutto così mutevole oggi. Forse non serve andare troppo in là. Ti dirò come mi vedo fra un anno. Sognatrice, determinata e felice del mio lavoro. Non chiedo altro, non voglio altro.
Hai qualche buon consiglio per chi è innamorato ai tempi dello stage?
Certo, ne ho una valanga! Il primo consiglio è rifiutatevi di fare l’ennesimo stage, il secondo è impegnatevi, fissatevi un obiettivo, in amore come nel lavoro. Non arrendetevi alle statistiche mondiali sui divorzi e sulla disoccupazione. Ciò che succede ad altri non è detto che possa succedere a voi. Un giorno, dopo tutti gli sforzi vi girerete indietro e con fierezza potrete ripetervi, Confesso che ci ho provato, Confieso que he vivido.
Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori
“Innovazione” è un termine spesso inflazionato, usato molto di frequente all’interno del vocabolario odierno. Nel saggio Cambiamo tutto! “innovazione” è una parola usata con cautela, e collegata principalmente ad uno strumento che si offre a coloro che non vogliono restare con le mani in mano di fronte alla crisi: internet. Il World Wilde Web viene indicato come la causa della “terza rivoluzione industriale” che stiamo vivendo; è il luogo in cui le cose accadono, il banco di prova per eccellenza per coloro che credono che nella vita si va avanti con il merito e con le intuizioni. Il lavoro non va più cercato, va creato, e internet – rete immensa di persone, non di computer – è lo strumento più democratico per dare vita a una società globale che si basi su “la trasparenza, la collaborazione, la partecipazione”. L’autore accredita questa tesi presentando esempi di start up, imprese o semplici individui che partiti da un’idea astratta, l’hanno perseguita e sviluppata, fino a farne un business di successo.
Il saggio si snoda in una serie di capitoli che esplorano, con freschezza e curiosità, testimonianze concrete di come il web sia davvero la chiave per una rivoluzione positiva non solo per la vita quotidiana del singolo, ma anche per la società, la politica, la scienza, l’istruzione.
Sono storie modernissime, come quella di Vito Lomese, un giovane pugliese che ha creato il motore di ricerca globale per il lavoro, Jobrapido; o più datate, come quella del team di Perotto della Olivetti che nel 1964 presentò all’Esposizione Universale di New York, il primo “computer fai-da-te”, quando ancora l’affermazione “vedremo un computer su ogni scrivania prima di vedere due macchine in ogni garage”, sembrava una profezia strampalata. Si parla anche di idee attualissime che oggi ci sembrano assurde e ci fanno sorridere, ma che un giorno, chissà, forse avranno costituito il primo passo verso un’altra rivoluzione epocale. È il caso, ad esempio, delle stampanti 3D e della intuizione di un certo Enrico Dini di utilizzarne una versione gigante per costruire case: il rapid building. Staremo a vedere…
Non è il solito manuale che ti consiglia come uscire dalla crisi con una brillante idea geniale che per magia ti renderà il nuovo Zio Paperone. È una collezione di storie reali, effettivamente accadute a gente normale, a italiani. È un saggio che serve all’Italia, un paese spesso troppo radicato in convenzioni e schemi desueti e timorosi, un paese che ha bisogno di aprirsi al nuovo con coraggio, freschezza e convinzione, preferibilmente col supporto delle istituzioni che ci governano.
“Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” e le idee geniali, purtroppo, non nascono tutti i giorni sul davanzale delle nostre finestre. Gli esempi di successi sono tanti, ma per riuscire bisogna perseverare molto e non arrendersi al comparire dei primi ostacoli
Riccardo Luna, l’autore del libro, giornalista di Repubblica, direttore delle riviste Campus, Romanista e Wired, ha candidato Internet nel 2010 al premio Nobel per la Pace, e ha fondato Wikitalia, associazione che promuove la partecipazione e la trasparenza politica in Italia, attraverso la rete. Per Cambiamo tutto! ha creato un sito in cui interagire con i lettori, dando vita a un libro “in progress”, che permetta di partecipare al progetto di una “rivoluzione dell’innovazione”.
Chi è in cerca di ispirazione per un’idea innovativa. Chi è pessimista e vuole smettere di esserlo. Chi è ottimista (con raziocinio) e vuole una conferma alle sue convinzioni.
Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori di Riccardo Luna, Laterza 2013, 14 euro.
Per una volta non sono stati gli atenei italiani ad analizzare, esaminare, valutare. Il maestro si è trasformato in scolaro e le 133 strutture sparse sul territorio italiano, tra università ed enti di ricerca, sono state oggetto di indagine da parte dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione, nata nel 2006. Ci sono voluti 20 mesi perché 14.770 revisori concludessero la monumentale opera di valutazione che per la prima volta ha messo sotto esame la produttività della ricerca degli atenei italiani (progetto VQR).
Sono state considerate 14 aree scientifiche e per ogni struttura sono stati tenuti in conto 7 indicatori che si riferiscono a fattori come la qualità della ricerca, la capacità di attrarre risorse o l’internazionalizzazione; e altri 8 indicatori relativi, invece, alla capacità di relazione, connessione e valorizzazione del contesto socio-economico.
Per quanto riguarda i 95 atenei italiani, è stata fatta una distinzione in base a grandi, medie, piccole università e la posizione di ciascun ateneo in graduatoria è stato determinato da un valore medio tra tutte le aree considerate. Ai primi posti tra le grandi università figurano: Padova, Milano Bicocca, Verona, Bologna, Pavia. Le prime 5 classificate delle medie università sono state: Trento, Bolzano, Ferrara, Milano San Raffaele, Piemonte Orientale e Venezia Ca’ Foscari. Infine, tra gli atenei più piccoli, spiccano Pisa Sant’Anna, Pisa Normale, Roma Luiss, Trieste Sissa, Roma Biomedico. Se si considerano, invece, le classifiche “tematiche”, per le Scienze matematiche e informatiche abbiamo nell’ordine: Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata, Pisa. Per le Scienze economiche e statistiche: Padova, Milano Bocconi, Bologna. Per le Scienze dell’antichità, letterarie, artistiche: Padova, Milano Politecnico e Bologna. Per le Scienze giuridiche: Trento, Padova, Verona.
Come si può ben notare, la vittoria degli atenei del nord su quelli del sud e del centro è quasi schiacciante. Roma La Sapienza, nella classifica generale, è solo al 22° posto e il consiglio nazionale delle ricerche, il CNR, è risultato il grande assente dalle classifiche Anvur. Le Università di Catania e Palermo sono al 30° e al 31° posto, Bari e Cagliari al 26° e 27° posto, mentre risalgono un po’ la china solo Catanzaro, Napoli e Salerno che si attestano più o meno a metà classifica.
Alla luce di ciò, non sono mancate le polemiche, specialmente se si considera che tra i 6,69 miliardi di euro che il Miur ha stanziato per la ricerca nelle università, 540 milioni, cioè il 7%, dovrebbero essere distribuiti in base al merito, ovvero proprio in base ai risultati di questa ricerca. Il Cnr, ad esempio, si giustifica sostenendo che il centro privilegia i rapporti con il mondo delle aziende e l’interdisciplinarità, mentre la valutazione dell’Anvur ha messo in luce gli atenei che si occupano principalmente di ricerca pura. C’è anche da dire, poi, che l’indagine è stata compiuta per gli anni dal 2004 al 2010, escludendo per forza di cose, risultati importanti come quello dell’Istituto nazionale di fisica nucleare che nel 2012 è stato coinvolto nella scoperta del bosone di Higgs.
Certo è che si tratta di un momento significativo e importante per l’università e la ricerca italiana. Il fatto che si parli di questi due settori, a lungo ignorati o deprecati, e che si investano 10 milioni di euro per istituire un agenzia (l’Anvur appunto) che ne monitori lo stato di salute, è sicuramente un passo avanti positivo. Forse il passo successivo, quello di stanziare parte di fondi in base ai risultati di questa classifica, necessita di un altro po’ di rodaggio per essere effettuato. Bisognerebbe prima capire tutte le sfaccettature della ricerca, delle sue applicazioni e della sua produttività. E magari evitare il rischio di affondare ancora di più quegli atenei che sono già in fondo alle classifiche, e che, pur non essendo prestigiosi, garantiscono però una distribuzione democratica dell’accesso al sapere nel nostro Paese.
D’altra parte persino dall’Anvur giunge la necessità di cautela nell’applicare ai risultati della ricerca una distribuzione delle risorse, nonostante l’esito incoraggiante e positivo del loro lavoro: “crediamo che la VQR dispiegherà i suoi effetti benefici nei mesi e negli anni a venire se i suoi risultati saranno studiati nel dettaglio e analizzati con attenzione, e utilizzati dagli organi di governo delle strutture per avviare azioni conseguenti di miglioramento. Un segnale incoraggiante è lo spirito di grande interesse e collaborazione con l’ANVUR delle strutture valutate, per le quali la VQR ha richiesto lavoro e impegno in un momento di grande trasformazione e difficoltà (in particolare per le università)”.
Non capitava da tempo che un luogo e un evento trasmettessero tanto entusiasmo e ottimismo, soprattutto non a Roma, una città che sembrava fosse morta.
Il 25 giugno scorso, durante l’Investor Day della LUISS EnLabs – la fabbrica delle start up, la capitale si è mostrata capace di guardare al futuro scommettendo sui giovani, il talento e il cambiamento.
Nel salone, di 1500 metri quadri al secondo piano della Stazione Termini, gremito di gente curiosa, 7 aspiranti imprenditori, dopo 5 mesi di incubazione nella “fabbrica delle start up”, hanno presentato il risultato del loro lavoro. Solo 7 minuti a disposizione per attrarre circa un centinaio di investitori presenti in sala e almeno 3 mesi per chiudere le trattative con chi deciderà di credere e scommettere nei loro progetti.
Le start up in gioco.
Sette le start up in gioco.
Atooma – A Touch of Magic consente di combinare in modo creativo sia le futures del telefono sia le applicazioni esterne per ottenere nuove e “magiche” funzionalità.
CoContest: una piattaforma dedicata al mercato dell’interior design.
GamePix: una start up del settore gaming.
Le Cicogne: start up in grado di far incontrare domanda e offerta di baby-sitting, baby-tutoring e baby-taxi.
Maison Academia: piattaforma che permette a stilisti emergenti di realizzare le proprie collezioni coniugando la creatività e l’eccellenza Made in Italy.
Pubster: l’applicazione che ti offre da bere quando esci la sera.
Risparmio Super: la web che aiuta i consumatori a risparmiare confrontando i prezzi dei supermercati della zona.
Da sognatori a imprenditori
Come emerso dalle interviste con Luigi Capello (fondatore LUISS EnLabs), Alexandra Maroiano (LUISS EnLabs), Monica Achibugi, Giulia Gazzelloni (Le Cicogne) e Mary Palomba (Maison Academia), prima di approdare al programma di accelerazione della LUISS Enlabs e imparare come trasformare un sogno in un progetto imprenditoriale, i giovani sturtupper hanno superato molti ostacoli e barriere, partecipato a molti eventi e frequentato altri corsi di “preparazione all’imprenditorialità”.
Tra i programmi più seguiti: I-Lab (laboratorio delle idee), InnovationLab e InnovAction Camp, un programma che tiene “reclusi” in una ex base Nato 20 perfetti sconosciuti che, alla fine della maratona di 5 giorni e 4 notti, devono essere in grado di costruire un team e presentare un progetto.
Come nasce la LUISS EnLabs
Il progetto nasce da un’idea di Luigi Capello, imprenditore e business angel, che nel 2007, dopo aver intrapreso un viaggio nella Silicon Valley promosso dall’ambasciatore Ronald Spogli, è tornato in Italia con l’idea di colmare un vuoto. Inizialmente fonda “Italian Angels for Growth”, un gruppo di business angels che ha lo scopo di “promuovere l’imprenditorialità come motore di crescita economica” e nel 2010 dà vita al progetto EnLabs che, nel 2013, in seguito ad una joint venture con la LUISS, si trasforma nella LUISS EnLabs.
Tra i suoi startuppers, Luigi Capello sembra non “solo” un imprenditore, ma anche il padre di tanti sognatori che attraverso dure prove e sacrifici hanno imparato come superare gli ostacoli e intraprendere la strada della felicità.
Come essere selezionati dalla LUISS EnLabs
Per essere ammessi al programma di accelerazione della LUISS Enlabs non basta solo una buona idea; bisogna aver un buon progetto, un buon team e una buona capacità di vedersi nei 7 minuti a disposizione per la video presentazione.
Consigliano di frequentare gli eventi dedicati alle start-up, mettere a confronto le proprie idee e andare avanti con determinazione senza aver paura di crollare.
Le cadute fanno parte del cammino.
A Bologna (8 e 9 novembre) e Roma (23 e 24 novembre)
Dopo il successo della Strategic Arts Management master class che si è svolta a Milano il 4 e 5 maggio scorsi, Tools for Culture approda con il progetto SAM in altre due città italiane, Bologna e Roma, portando il suo format inconfondibile ad affrontare due temi cruciali nel contesto dell’economia della cultura.
Mantenendo un’attenzione costante allo scenario in cui nuovi mercati culturali e nuove esigenze sociali si interfacciano con l’economia dei territori, SAM master class “L’impresa sociale e culturale“, che si svolgerà nel cuore culturale di Bologna (Urban Centre-Piazza Maggiore) l’8 e il 9 novembre 2013, intende esplorare in modo efficace il ruolo che la cultura e l’impegno verso il sociale ricoprono come driver strategico capace di ridefinire processi, prodotti e azioni dell’impresa che pone la propria infrastruttura tecnica al servizio della domanda crescente di condivisione e partecipazione.
Le imprese oggi desiderano produrre valore per sé e per il contesto in cui si collocano, concependo il proprio rapporto con stakeholder interni ed esterni in termini di Corporate Social Responsibility. La master class bolognese vuole fornire, tanto ai professionisti della cultura quanto agli imprenditori, l’approccio strategico e gli strumenti operativi necessari all’ideazione, implementazione, finanziamento e comunicazione di progetti di responsabilità sociale, abbandonando le nicchie e le etichette per enfatizzare le connessioni e le sinergie.
E a Roma?
Nella Capitale fanno da padrone i temi legati al marketing culturale; il sistema culturale tende sempre di più a creare un nuovo approccio strategico che parta dal confronto con i mercati , dall’analisi e comprensione delle esigenze di fruitori potenziali e reali e dalla capacità di creare un dialogo flessibile con i propri interlocutori. Il percorso di SAM master class “branding, crafting, funding the Arts”, che si terrà a Roma il 23 e 24 novembre, propone un serrato confronto tecnico che partendo dall’analisi dei mercati della cultura e dalla definizione delle componenti di un prodotto culturale, e passando per l’analisi critica del concetto di brand culturale e delle norme in materia di proprietà intellettuale e creative commons, si concluderà con i temi del crafting (la costruzione accurata dei progetti artistici), del fundraising / crowdfunding e dela comunicazione del prodotto. Lo spazio che ospiterà la master class, l’Opificio Telecom è, non a caso, un esempio di assoluto successo rispetto i temi affrontati, essendo modello di co-branding tra la Fondazione Romaeuropa e Telecom italia.
A prestissimo i programmi delle due SAM master class che renderanno Bologna e Roma arene di discussione intelligente e proficua sui temi della progettazione e gestione culturale.
“Metodi più che contenuti, approcci più che trucchi”
(M. Trimarchi)
Stay tuned!
Ragioniamo per un attimo sulla formazione post-laurea in economia e management della cultura (possiamo aggiungere marketing, fundraising, comunicazione e tutti i comparti appealing del fare cultura). I corsi non mancano, e sotto una varietà di etichette raccolgono laureati e giovani professionisti in cerca di una corretta ibridazione tra discipline umanistiche e approcci gestionali.
Non è forse colpa di nessuno, ma l’atmosfera dominante è pervasa dalla percezione che i corsi forniscano strumenti oggettivi per risolvere problemi, ossia essenzialmente per trovare fondi; che i testimoni scelti come docenti possano insegnare trucchi inoppugnabili per sopravvivere in un eco-sistema ostile; che il tirocinio in aziende e organizzazioni attive nel sistema culturale rappresenti in sostanza la via d’accesso al lavoro, trasformando uno stage in un contratto possibilmente a tempo indeterminato.
Ora, valutare la qualità e l’efficacia dei corsi – per quanto numerosi e in buona parte eterogenei – certo non spetta a chi partecipa da entrambi i versanti: sarà il tempo a rivelare quali possano essere le aree di perfettibilità di ciascuna iniziativa formativa; va detto che in media ogni corso è ben consapevole di doversi misurare con la realtà ed è incline ad apportare le necessarie modifiche per risultare più efficace e credibile.
Una cosa che però nessuno ha il fegato di ammettere è che il corso non può trasformare i discenti in manager di successo solo per il fatto di aver seguito diligentemente serie e importanti lezioni ed esperienze: una classe è formata da individui diversi per formazione, per orientamento e per capacità di affrontare il mondo professionale. Certo, un corso facilita l’apprendimento e la metabolizzazione di approcci e strumenti, ma non può rendere automatico il percorso dall’istruzione al lavoro.
Prima che l’aura del politically correct mettesse in frigo molti concetti e altrettante parole, si parlava di studenti brillanti, di studenti lenti o complessi, e così via. Per quanto i termini che rivelano un giudizio possano suonare antipatici e vadano pertanto usati con molta parsimonia evitando di etichettare le persone, si può tuttavia concordare sul fatto che chi affronta un buon corso da una posizione dotata di visione, capace di flessibilità e priva di pregiudizi con ogni probabilità ne potrà trarre il massimo beneficio.
Sarebbe dunque opportuno che i protocolli formativi mettessero l’accento sulla propria capacità di fertilizzare delle risorse dinamiche, purché le stesse risorse non si aspettassero una miracolosa metamorfosi. Si può anche sottolineare che di norma sono proprio i discenti più pigri e scettici a pretendere che il corso risolva i problemi del proprio orizzonte professionale; e sono quelli che si arrabbiano di più quando si trovano ad affrontare un mondo complicato e renitente a meccanismi a buon mercato (il mio progetto è bello, quindi finanziami; ho un pubblico numeroso, quindi sponsorizzami, e così indefinitamente).
La formazione dovrebbe servire a insegnare come si impara: metodi più che contenuti, approcci più che trucchi. Forse è il momento di abbandonare l’illusione del problem solving e corteggiare con delicata serietà il territorio del problem facing.
Fluentify
L’evoluzione 2.0 del famigerato pen friend che avevamo alle scuole medie: basta una connessione internet, uno schermo e una webcam per permettere a due persone, che parlano rigorosamente lingue diverse, di incontrarsi per esercitarsi e migliorare nella lingua straniera prescelta.
Start up nata tra Torino e Londra da tre ragazzi italiani, Fluentify permette a persone che più o meno già parlano un’altra lingua di esercitarsi “sul campo” senza spendere però soldi per il viaggio. L’idea nasce fondamentalmente dalla consapevolezza che imparare una lingua è più facile quando si intergisce su argomenti a cui siamo interessati, su hobbies comuni.
Tutor e studenti si “incontrano” poichè dichiarano precedentemente i loro interessi. Le lezioni diventano quindi non solo un modo per esercitare la conversazione in lingua straniera ma un vero e proprio scambio di idee ed opinione su campi di interesse comuni
Le differenze di prezzo che i tutor possono chiedere per una sessione sono lasciate a discrezione del tutor stesso, che può decidere una fee che varia dai 5 ai 30 euro. Trattandosi di madrelingua (che quindi conoscono la loro lingua alla perfezione) non si capisce quali potrebbero essere le caretteristiche in grado di far aumentare il costo della singola sessione da 5 ai 30 euro.
Ciò che diversifica Fluentify da altre piattaforme o corsi di lingua online sta nel fatto che le “lezioni” durano appena 30 minuti e quindi sono ben diluite nel tempo e soprattutto sono individuali, riuscendo a concentrare al meglio le discussioni e l’apprendimento.
Chi vuole conoscere nuove culture senza spendere troppo e chi vuole perfezionare una lingua straniera senza annoiarsi sui libri
https://www.fluentify.com
Passione Vintage – Il gusto per il passato nei consumi, nei film e nelle serie televisive
Il risultato di una ricerca condotta tra il 2011 e il 2012 ad opera di un gruppo di professionisti ed appassionati del vintage che hanno tentato, con eccellenti risultati, di analizzare questo fenomeno non solo nel settore della moda ma anche in quello dei consumi, dei film e delle serie televisive.
Circa 170 pagine scorrevoli ma dense di nozioni e riflessioni in grado di circoscrivere il fenomeno del vintage facendoci fare balzi avanti e indietro nel tempo: dalla valigia contenente il giradischi fino a Instantlab, un progetto che consente di stampare foto d’epoca grazie all’iPhone non vi capaciterete di quanto oggi il vintage sia presente nella nostra vita. Un occhio perpetuo verso il passato che però mantiene la lucidità e la consapevolezza tecnologica del presente.
Il volume ci induce a riflettere su come lo sguardo al passato soprattutto delle nuove generazioni sia in realtà aiutato dalle nuove tecnologie, prime tra tutte l’e-commerce che, grazie alla potenza del marketing e di internet, fa tornare in auge non solo i veri pezzi della storia e gli stili più in voga come il rockabilly, l’hipster o lo steampunk ma anche packaging antichi e il cosiddetto “Finto modernariato”, le riproduzioni old style che aprono nuovi scenari sui mercati internazionali.
Come tutti i saggi che analizzano fenomeni transmediali la sua piena comprensione è possibile solo dopo aver visionato tutta o parte della filmografia, libreria musicale o prodotti presi in rassegna.
Le foto e le schede illustrative nel libro riescono a dare una risposta esaustiva ai nostri dubbi sulle differenze tra i vari stili ma ci portano ad una conoscenza linguista e, a tratti anche psicologica dei diversi vintage mood. Quale ad esempio la differenza tra il soggetto vintage e il retro-flaneur?
Una scheda interessante passa in rassegna una serie di titoli cinematografici degli ultimi anni, tutti ambientati nel passato con mode e gusti retrò.
Tutti i soggetti vintage, fissati per il ritorno al passato che però sanno reinterpetrarlo ed analizzarlo alla luce dei tempi attuali.
Passione Vintage – Il gusto per il passato nei consumi, nei film e nelle serie televisive
Carocci editore, di Daniela Panosetti e Maria Pia Pozzato con contributi di Daniele Dodaro, Fabrizio Festa, Giacomo Totani, Valentina Vellucci, 19 euro
In questi giorni, le sale principali del museo Peggy Guggenheim di Venezia ospitano dei capolavori molto speciali. Provengono da tutta Italia e a realizzarli sono stati degli artisti unici: i bambini delle scuole primarie.
L’esposizione giunge a coronamento del progetto “Kids Creative Lab”, nato dalla collaborazione tra la Collezione Guggenheim e OVS con l’obiettivo di avvicinare i più piccoli al mondo dell’arte e di incentivarne la creatività.
Il progetto, al quale tutti i bambini possono partecipare a titolo gratuito sia attraverso la loro scuola, sia individualmente, è semplice e fortemente interattivo. Il fil rouge che lega le creazioni è il binomio arte e moda, storicamente caro a Peggy Guggenheim e fonte di ispirazione per le creazioni di Ovs. Nel sito dedicato sono illustrate, tramite dei veri e propri laboratori a distanza, le modalità di realizzazione degli elaborati artistici: quattro in tutto le possibilità, che tuttavia diventano mille grazie alla fantasia dei bambini e ai colori utilizzabili, dai bottoni e le spille fatti con la pasta modellabile agli stampini per decorare maglie e tessuti. Le fotografie delle creazioni possono poi essere caricate e condivise nella sezione del sito appositamente dedicata, che diviene una vera e propria galleria virtuale. I lavori inviati entro marzo, invece, sono confluiti nella grande installazione collettiva visitabile presso il Guggenheim fino al 6 maggio. Vincitrice è la Scuola elementare “Michele Scherillo” di Napoli, che data la grande adesione dei suoi alunni è stata premiata con 10 tablet ASUS. La mostra non è però un evento conclusivo e l’invito a partecipare rimane aperto.
La creatività come strumento che si apprende sin da piccoli e come arma per affrontare un futuro pieno di sfide; l’amore per l’arte che va stimolato, affinché possa crescere nel tempo ed essere coltivato giorno dopo giorno: questa è la forza dell’iniziativa, semplice e al tempo stesso innovativa, nata dall’incontro tra l’impegno educativo che la Collezione Guggenheim porta avanti da diversi anni e l’attenzione di Ovs ai temi della responsabilità sociale d’impresa. Il progetto, appare l’ideale prosecuzione della scelta del noto marchio del retail di coniugare sostenibilità e stile, puntando su idee innovative e sul talento dei giovani. Strategia confermata anche dalla recente creazione dell’Ovs Design Area, una piattaforma dedicata a dare spazio ai talenti emergenti provenienti dalle più rinomate scuole di moda nazionali e internazionali.
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